Stento ad immaginare che, una volta che avrò scandagliato l'intera discografia di Roger Eno, troverò qualche delusione. Il pianista inglese, che al fratello deve soltanto il dono di un Revox e la partecipazione ad Apollo nel 1983, a partire dall'incantevole debutto Voices ha dedicato sè stesso alla grazia e alla compostezza, diventando l'Harold Budd di oltremanica, ma senza il giusto riconoscimento a livello generale.
Lost in Translation, ispirato da una heretical medieval prose, lo vede in molteplici vesti: la melanconica sonata Satiana (forse la sua principale ispirazione), le trasognate mini-partiture da camera, sia strumentali che corredate di cori, le celestiali ambientazioni quasi cosmiche alla Budd, le vignette cinematiche arrangiate in maniera bizzarra, le commistioni world disseminate in qua e in là, per una manna di 18 tracce accomunate da un gusto superiore per la visualizzazione ad occhi chiusi. Spettacolari sopra tutte Occam close shave e Ne Cede Melia, non a caso poste ad inizio disco. Un filo di dispersione è inevitabile, ma è un album impossibile da fermare o skippare. Abbandonarsi e nient'altro.
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