mercoledì 31 agosto 2016

Alio Die ‎– Sit Tibi Terra Levis - Introspective (1993)

Da un quarto di secolo è lui l'ambient-master italico, il milanese Stefano Musso, artefice di una discografia sterminata (54 albums, l'approfondimento magari nella prossima vita) di cui almeno 4-5 titoli meritano più di un ascolto. Siamo sulle propaggini più esoteriche del versante ambientale, quelle increspate dai suoni concreti, dai ritualismi sciamanici, innervate da un sentore dark che sfiora il contenitore catacombale ma non vi soccombe mai. Citando nomi del passato, direi fra Nocturnal Emissions e Stephen Micus.
Questà è un antologia del 1993 che assemblava, con un opportuna rimasterizzazione, le prime due cassette con le quali Musso si fece conoscere in Italia e non solo. Non soltanto bordoni di synth, quindi, ma anche sferragliamenti, legni che rollano, lampi nel buio, frammenti terrigni, rimescolamenti acquatici. Splendida la lunga Thoughts By The Side Of The Path. Le solite cose, sì, ma invecchiate molto, molto bene.

lunedì 29 agosto 2016

Lumerians ‎– Transmalinnia (2011)

E' ormai assodato che questo tipo di modernariato psichedelico sfacciatamente vintage, che esce periodicamente dagli Stati Uniti, mi piace a seconda dello stato mentale in cui sono oppure semplicemente in base all'umore. Nessuno dei dischi di Lumerians, Wooden Shijps, Black Angels ed affini sarà mai un capolavoro (assi come Dead Meadow ed Implodes escono ogni 10 anni, c'è poco da fare), ma ciò non toglie che si possano ascoltare con piacere.
I grooves drogati dei californiani Lumerians, snocciolati con un occhio speciale per le melodie, qualche giorno fa in macchina non mi dicevano pressochè nulla. Ascoltati staticamente e con una luce tenue, in una serata di luna piena, mi conquistano anche se resterà un legame effimero (destino comune a tanti dischi da 7/10). C'è un po' di Doors, di Loop, di trance-rock della loro terra di 25/30 anni fa, qualche immancabile fragranza indiana, ed un pugno di melodie poco meno che memorabili. Basta ed avanza.

sabato 27 agosto 2016

Vangelis – L'Apocalypse Des Animaux (1973)

A volte un nome è famoso ed ingombrante che si tende ad ignorarne il lavoro, preventivamente o soltanto sulla base di casi analoghi (come Jarre, che non apprezzo). Snobbare Vangelis è stato un errore, perchè (almeno) questa colonna sonora è un pittoresco assemblaggio di vignette arrendevolmente bucoliche, estatici fermi immagine di jazz notturno e confidenziale (per i quali potrebbe aver influenzato Harold Budd) e soprattutto immagignifici scorci cosmici leggerissimi che, anno 1973, possono contribuire a fregiarlo di onorificenza "uno dei padri dell'ambient". Assurto a fama in veste pop nel decennio precedente, Vangelis diventò così un titano dell'elettronica da devolvere al pubblico mainstream, nonchè delle colonne sonore di grandi produzioni industriali. Improbabile ascoltare la sua discografia principale, ma intanto L'Apocalypse Des Animaux è suggestivo e mirabile.

giovedì 25 agosto 2016

Bent Knee ‎– Shiny Eyed Babies (2014)

Sestetto di Boston che esplode in un caleidoscopio fantasioso con questo loro secondo album, nel nome di un riuscitissimo crossover che esemplifica un modello moderno di progressive, nel senso dello spirito di contaminazione e perchè no? Anche del coraggio.
Potrebbero anche avere successo, perchè prima di tutto davanti hanno una cantante dalle inflessioni molto pop, talmente pop che si direbbe strappata di peso al mondo del mainstream. Ma dietro di lei ribolle un calderone in cui si agitano aria ruspante '70, epica post-rock, neo-classicismi e sinfonismi (il violino è fisso nella line-up), soluzioni tornitruanti, sdolcinatezze e terremoti.
Il coraggio di esporsi con così tanta enfasi ed arrangiamenti carichi non è poco, ma come per miracolo il disco, per quanto lungo sia, è un piacere da sorbirsi in più ascolti, perchè riserva tanti piccoli particolari a chi fa più attenzione. Le migliori: Dry, Battle Creek, Way Too long.

mercoledì 24 agosto 2016

Ange – Au-Delà Du Délire (1974)

Alla mia graduale scoperta del prog francese, non potevo mancare gli Ange con quello che è generalmente indicato come il loro top. Non so se con gli Atoll ho pescato un jolly insuperabile, spero di no: intanto Au-Delà Du Délire si rivela un altro eccellente prodotto, non vorrei dire standardizzato ma semplicemente di ottimo buon vecchio prog. Senza dubbio influenzati dai Genesis di Foxtrot e dai King Crimson di Lizard, gli Ange sapevano comunque portare a compimento una formula eclettica ed abbastanza personale, fatta di saliscendi avvincenti, di passaggi melodici di grande bellezza, di fasi pastorali eleganti, di fraseggi grintosi, di crepuscoli inquietanti, il tutto in nome della teatralità ed enfasi di rigore. Un disco che peraltro cresce con lo scorrere delle tracce (le ultime 3 sono le migliori, credo una rarità) e con gli ascolti.

martedì 23 agosto 2016

Peter Hammill - John Peel Show on BBC Radio 1 19-08-1974 - DEDICATO A....

Dedicato a ... tu, che inondi di meraviglia con un semplice sbadiglio.
Dedicato a ... tu, compagna di vita e straordinaria, sovrumana forza.
Dedicato a ... voi, che dalla scorsa notte mi avete reso un uomo infinitamente migliore.

Per voi, alcuni dei voli più alti del mio eroe.

 

domenica 21 agosto 2016

Jonathan Badger ‎– Verse (2014)

Esempio altamente originale di come si possa restare legati alle tradizioni dell'art-rock con un poco invasivo innesto di elettronica, un pizzico di naivetè mescolato alla seriosità tipica di chi è formato classicamente.
Autore ne è un chitarrista di Baltimora fattosi le ossa come compositore di servizio per teatro ed opera, studente di filosofia e scolaro presso l'istituto artigianale di Bob Fripp. Da lì a pubblicare Verse, il passaggio alla Cuneiform è stato un passo quasi ovvio, vista la qualità eccelsa delle 10 tracce che potrebbero anche segnare l'avvio di un ammodernamento della storica ma un po' ingessata etichetta.
Lungi da me meditare su connessioni fra musica e filosofia; mi è inevitabile però pensare a Verse un po' come un saggio modernissimo, una specie di documentario che passa dalle immagini in bianco e nero del progressive alle copertine neutre e scabre della library, dall'electro-folk alle propaggini più talentuose del cantautorato ambient degli ultimi 10 anni. Davvero difficile da descrivere, ma decisamente un capolavoro di grande equilibrio e gusto, che può intrigare un pubblico veriegato.

venerdì 19 agosto 2016

Echo Art ‎– Coreografie (1993)

Formatisi come uno della miriade di gruppi d'ispirazione dark-wave negli anni '80, i genovesi Echo Art sterzarono bruscamente verso un'ambiziosissima neo-classica che culminò in Coreografie, rilasciato dalla New Tone, etichetta piemontese specializzata in avanguardia, jazz e minimalismo con nomi di rilevanza mondiale in catalogo.
Erano anni in cui, in assenza di archi fisici in dotazione, si pensava che le tastiere a pochi bit potessero sostituire gli strumenti veri. Un viziaccio duro a morire degli anni '80 che inevitabilmente si prolungò nei primi '90. Una volta fatto l'orecchio a questo problema, Coreografie si rivela un gioiello barocco che unisce  solennità classicheggianti, seriosi struggimenti da camera, scorci etnici mediterranei, canti di sirene, elegantissime vignette alla Harold Budd, favorito da ottime composizioni. Un insieme che trasuda teatro da tutti i pori. Certo che con un orchestrazione integrale di strumenti reali sarebbe stato un capolavoro...

mercoledì 17 agosto 2016

KEN Mode ‎– Success (2015)

Non è che l'equazione "disco registrato da Albini" = "disco di qualità garantita" sia assoluta e/o matematica nè frutto di mera sudditanza psicologica; dato per scontato che sia impossibile averli sentiti tutti (a meno di essere un fan terminale dell'occhialuto), il fatto che capiti nella maggior parte dei casi che passano dalle orecchie fa venire il sospetto che sia molto vicino alla realtà, però.
Il caso dei canadesi Ken Mode si ricollega a quello avvenuto pochi anni fa ai Cloud Nothings: gruppo già avviato con uno stile discretamente personale, con la possibilità di farsi un pubblico, ad un certo punto sente il bisogno di guardare indietro a 2 decenni fa ed ispirarsi a quelle sonorità, e per farsi assistere si rivolge ad una delle massime icone dell'epoca. Che inevitabilmente non fallisce e posa i microfoni a modo suo.
Con alle spalle già una manciata di dischi in stile improntata al post-hardcore ai limiti del metal, per i KM è stata una bella scommessa, ed infatti ho letto recensioni un po' contraddette sui siti più settoriali. Success esplode la sua potenza impressionante con una miscela che rimbomba fra Unsane, Jesus Lizard ed un tornado rabbioso e schiumante di energia. L'entusiasmo è di poco inferiore a quello che mi diedero i Pissed Jeans nel 2007. Il noise-rock è duro a morire.

lunedì 15 agosto 2016

Bedhead ‎– Live 1998 (2015)

Dopo la cofana sui Codeine, la Numero Group ne sforna un'altra con i Bedhead. Che tipi giusti, questi discografici.
In rete, un fiorire di recensioni e commenti nostalgici, orgogliosamente in tono "io c'ero", ovvero in quegli anni, e di come sia bello descrivere l'emozione di scoprire questo live più che perfetto. La band più laconica e telegrafica della storia dell'indie-rock, uno degli emblemi più statuari dedicati alla chitarra ed alle sue coloriture, alla jam controllata e schematica, al crescendo lineare del volume. Ma tutto quello che più o meno avevo da dire su di loro ormai l'ho già scritto qui e qui.
Live in Chicago, che capta la band nel corso del loro ultimo tour, offre il fianco al loro lato più elettrico e fisico ed è una registrazione di livello superbo; le canzoni del grandissimo What fun life was (ben 7 su 11!) vengono restituite migliorate, al confronto del suono decisamente impastato dell'originale. E già mi sembra di aver detto tutto, anche perchè restano soltanto 4 pezzi dal resto del repertorio, quasi come se i fratelli Kadane, già decisi a dare il rompete le righe, volessero tuffarsi nel passato ed al probabile entusiasmo dell'inizio di questa band mai sufficientemente tributata.

sabato 13 agosto 2016

Gentle Giant ‎– Free Hand (1975)

Non mi ero mai interessato alla seconda fase dei GG fino a quando non lessi una monografia molto esaustiva su BU, forse un filino partigiana, la quale asseriva che il miglior disco degli 11 fosse Free Hand.
Non li ascolto da così tanto tempo che non mi ricordo neanche Octopus, ma come si può essere così smemorati?
Eppure, nel 1975 si era in una fase di transizione drammatica per il prog. C'era chi lasciava, chi raddoppiava, chi si svendeva e chi cercava strade diverse. I Gentle Giant di Free Hand forse non facevano parte di nessuna di queste categorie; semplicemente cercavano di affinare il loro stile, semmai con melodie più nitide e comunque preziose (His last voyage forse la più bella e cristallina, ma anche la memorabile giga corale di On reflection), qualche riff fragoroso (in vago stile ultimi Family), le loro inconfondibili piroette tecniche fra jazz e musica ispirata al Rinascimento. Come ha scritto Piero, il loro disco medioevale. Una scoperta piacevolissima, al punto da costringermi a scandagliare anche i successivi. Gentilissimi.

giovedì 11 agosto 2016

Arandel ‎– In D (2010)

Splendido esempio di cross-over fra elettronica e ambient, misticismo ed intimismo, classicismo e modernità. Autore un anonimo francese (ma c'è anche chi lo avrebbe identificato) il quale sostiene che mantenere segreta la propria identità aiuta a spostare maggiore attenzione sulla musica in senso stretto.
Punti di vista; io avrei amato questo disco a prescindere da chi l'avesse realizzato, senza stare a fare tante connessioni fra personaggio e solchi. In D è un elegante e struggente prototipo di elettronica che passa in rassegna una marea di ispirazioni e per questo matura, diventa adulta. Il punto di partenza sembra essere la techno più ricercata ed hypnagogica, con un suono notturno e ricco di glitches morbidi, ma dall'incantevole In D #6 la ritmica si interrompe e subentra uno stato di levitazione che strega istantaneamente. Da lì in poi è un gentile e sofisticato deragliamento di tanti rivoli (Aphex Twin incontra i Tangerine Dream, downtempo, echi Popol Vuh, minimalismo, meditazioni pianistiche) fino al solenne Epilogue che chiude con un aura sinistra questo magnifico assortimento.

martedì 9 agosto 2016

Embryo – La Blama Sparozzi - Zwischenzonen (1982)

Nella prima Mental Hour, fra le varie primizie, c'era un diversivo che esulava dalle atmosfere dominanti; un tre minuti scarsi di crossover jazz-etnico, pregno di fragranze orientali, di ticchettii frenetici di marimba e cimbalero, impreziosito dai fiati. Per 23 anni non ho avuto l'idea di chi fosse questo delizioso melting-pot. Poi, qualche mese fa passai un pomeriggio a divertirmi con Shazam alla ricerca di varie identificazioni e scoprii che si trattava di (per l'appunto) Cimbalero degli Embryo, la freak-jazz-ethnic band di Monaco che con incredibile tenacia tutt'oggi continua a fare musica a quasi mezzo secolo dalla fondazione, sempre guidata dal batterista ed unico membro stabile Christian Burchard. Una band del tutto atipica nel panorama krauto, non soltanto per la sua spaventosa longevità, ma anche per il suo stile sfaccettato.
La Blama Sparozzi fu un doppio vinile, e non saprei dire se sia stato uno dei loro capitoli migliori o più rappresentativo di altri, dato che conosco soltanto i loro primi due, quelli degli anni d'oro. E' un coacervo di jazz-rock, etnica tendente all'orientale con commisioni di art-rock, fin quasi a rasentare il RIO. Esaltanti le bonus tracks della ristampa andorrana (!) in cd del '99, all'insegna di una brillantissima fusion, poco vanitosa ed ottimamente orchestrata. Non c'è che dire, un gruppo da esplorare.

domenica 7 agosto 2016

Gnod ‎– Chaudelande (2013)

Robustissima iniezione di space-acid-psych da parte di un collettivo di freaks operativo a Manchester. Non c'è un granchè da dire su questa musica che è tutto fuorchè nuova; chitarroni fuzzati, trasporto lisergico con una grinta nucleare, voci tra il belluino ed il proiettato nel cosmo. Le differenze all'orecchio possono essere rappresentate dalle ritmiche, incessanti ed appartenenti più al motorik tedesco, a certe espressioni post-noise come gli Shit And Shine, piuttosto che a quelle nevrotiche ed elastiche dei La Otracina o dei Gravitar, con cui comunque condividono una certa ferocia esecutiva (si ascoltino i 17 minuti di Genocider per credere).
Questi vortici (molto evocativi quando i ritmi si abbassano drasticamente, The Vertical dead ad esempio ricorda persino i Red Temple Spirits) potranno anche sembrare stantii, ma basti rimarcare la differenza fra gli Gnod e i spesso a loro accomunati e sopravvalutatissimi White Hills: abissale.
Un pentolone ribollente che non mancherà di piacere sia ai fan degli Hawkwind che dei Chrome.

venerdì 5 agosto 2016

Screams From The List 49 - Steve Reich, Richard Maxfield, Pauline Oliveros ‎– New Sounds In Electronic Music (1967)

Dei tre sperimentatori presenti in questa bizzarra raccolta soltanto uno è elencato, cioè Steve Reich, uno dei massimi guru del minimalismo americano degli anni '60. Stranezze della List. Ma è chiaro che gli altri due non stanno lì per caso, anzi.
Mezzo secolo fa poteva capitare che una sussidiaria della super-major Columbia, in mezzo ad un catalogo focalizzato più che altro sulla classica, piazzasse questo trio di sperimentatori senza compromessi. Il pioniere di Seattle Richard Maxfield, un tossico spericolato che si suicidò due anni dopo questa uscita, con Night music, nove minuti di spirali e bubboni che si accavallano senza speranza, come se ci si trovasse in una foresta androide di cinguettii meccanici.
Reich proponeva un lavoro di loop vocali basati sulla ripetizione all'infinito dell'espressione come out to show them, che lentamente si sovrappongono e vanno fuori sincrono rispetto all'inizio fino a formare un gelido urlo primordiale.
La texana Oliveros si prendeva tutta la facciata B con i 20 minuti di I Of IV, un trip buio ed inquietante a base di oscillatori e nastri. Materiale altamente lunare, che mette paura ancora oggi, figuriamoci allora. 
Il sacro furore e il coraggio dell'essere sia avanti che fuori: un manifesto.

mercoledì 3 agosto 2016

Nicola Ratti ‎– From The Desert Came Saltwater (2008)

Chitarrista milanese in attività da oltre un decennio, facente parte di una generazione di artisti borderline / sperimentali che fanno una fatica non indifferente a sbarcare il lunario, che gironzolano fra le etichette di settore, che riescono persino a farsi notare anche oltreoceano, che come lo stesso dichiara in un intervista "a volte si trovano costretti ad elemosinare date".
Partito da un cantautorato piuttosto atipico ma poi rapidamente passato all'elettronica, con il transitorio From the desert... Ratti riuscì a farsi stampare da un etichetta statunitense, e realizzò un piccolo gioiello di musica spettrale, fantasmatica. La sua chitarra tesse trame gentili col timbro squillante sugli alti, molto pulita e penetrante, con quel suono distante che sembra provenire dalla stanza accanto. Attorno ad essa suoni sparsi, quasi dettagli che raramente prendono il sopravvento: un piano accennato, una tuba, qualche suono concreto, spazzole, un bongo, qualche glitch, un bordone di feedback appena udibile, campanelli, altro. Un filo di voce fa capolino in qua e in là.
In pratica è la scarnificazione estrema dei Talk Talk di Laughing Stock, ma con un approccio meno emotivo, quasi distaccato. Immerso in un contesto profondo, il disco avvolge e sa donare una manciata di episodi splendenti come questo pezzo:

lunedì 1 agosto 2016

Randy Holden ‎– Population II (1970)

Una di quelle storie che potevano accadere soltanto in quegli anni. Una di quelle scoperte (per me) che riconciliano con l'hard-blues, con il proto-stoner, con la chitarra atomica. Holden sbarcò a Los Angeles dalla Pennsylvania in tempo per passare un'anno nei Blue Cheer e suonare in metà di New Improved. Dopodichè li lasciò (zero prove, zero soldi, zero comunicazione addotti come motivi della separazione) ed ottenne la sponsorizzazione della Sunn che gli diede in comodato d'uso una pila enorme di ampli, con cui ottenne il suono gigantesco di Population II.
Un freak, un disadattato, ma un guitar god, la cui storia è assimilabile a Peter Green. Con il batterista Lockheed realizzò questo monumento di lava e mercurio, dopodichè tutti gli voltarono le spalle lasciandolo letteralmente sulla strada, senza un soldo e senza la minima voglia di continuare a suonare per un quarto di secolo.
Ingiustizie che creano miti. Chissà, magari se avesse continuato la sua figura si sarebbe sminuita, ma altri 3-4 dischi su questa scia li avremmo graditi in tanti. Resta questa mezz'ora scarsa di post-blues solo a tratti hendrixiano (Guitar Song), di proto-doom sabbathiano (Fruit & iceburgs), di bombe alla Cream, di pirotecnie alla Blue Cheer primo periodo; ma attenzione, con un pugno di pezzi dalla media compositiva superiore a quasi tutti questi nomi (Sabbath esclusi), un suono da far tremare un palazzo intero ed il virtuosismo di Holden, ingombrante ma miracolosamente intatto nel tempo.