mercoledì 27 febbraio 2019

Scream From The List 80 - Thirsty Moon ‎– You'll Never Come Back (1973)

Ensemble tedesco che fu più di una meteora, dato che realizzò ben 5 dischi nell'arco del decennio dorato del kraut-sound. Con il quale non aveva ovviamente nulla a che fare: il settetto infatti si sbizzarriva liberamente in un jazz-prog colorito ed esuberante metà strumentale e metà cantato, certamente poco innovativo ma dalle indubbie radici crucche; è un po' come quando per l'it-prog o l'it-jazz si tira fuori l'appellativo mediterraneo; io nei TM ci sento l'atmosfera dell'Oktober Fest più intellettuale che ci sia, a modo suo affine ai Grobschnitt, ma con meno prosopopea e più attenzione alle parti soliste. Molto in vista il sax e la sezione ritmica, impeccabili.

lunedì 25 febbraio 2019

Hawkwind ‎– Quark, Strangeness And Charm (1977)

Che fosse per forzatura o per decisione, nell'anno del punk gli Hawkwind non erano più i grandi dinosauri di Space Ritual e dintorni; Lemmy era stato licenziato dopo un arresto, Nik Turner se n'era andato, il gruppo aveva cambiato etichetta e Bob Calvert si era insediato in pianta stabile già dall'anno precedente. Nonostante gli eterni dissidi interni, il quintetto che dava alle stampe QS&C appariva ben coeso e dotato di un suono più asciutto ed essenziale, sintetizzato in modo esemplare nell'eccezionale Damnation Alley, punto d'incrocio perfetto fra il classico space-rock e la new-wave ancora in stato embrionale. In sostanza, le ingombranti (seppur gloriose) spirali spazialoidi di Dik Mik e Del Dettmar erano ormai un ricordo, sostituite dal talento cristallino dell'ex-High Tide Simon House, diviso fra tastiere e violino.
Preso nel suo complesso, QS&C non passerà come il loro miglior album ma appare un concentrato molto efficace nel saper distribuire acid-rock, pop abrasivo, suggestioni arabeggianti, ipnosi elettroniche e propulsioni ritmiche incessanti come da manuale. Cosa che nel 1977 non era per nulla scontato per dei dinosauri come loro.

sabato 23 febbraio 2019

National ‎– Sleep Well Beast (2017)

Ogni disco che esce dei National (e non accade spesso, ogni 3/4 anni, perchè sono saggi ed avveduti a mantenere la propria integrità) mi aspetto un tonfo, una caduta, un'incrinatura. E invece gli anni passano e loro non perdono un grammo della loro classe; potranno piacere o non piacere, ma non si può mettere in discussione il fatto che il loro status personale sia scolpito sulla pietra di quest'inizio millennio. Come tutti i gruppi più resistenti, la line-up è granitica e non perde un colpo (forte anche del fatto di avere due coppie di fratelli) ed il trademark è inconfondibile; al limite si potrà colpevolizzarli di avere poco coraggio, ma evidentemente al loro lavoro ci tengono e la 4AD è pur sempre un'azienda che deve far quadrare i conti. Non si può, a mio avviso, imputare ad entrambi questa mancanza, specialmente da quando la musica è gratis.
Sleep well beast quindi, solita classe, solita macchina automatica compositiva, ed ancora non ci siamo stancati. Bravo Berninger a rischiare con dei toni più alti, chè il suo tenore è bello ma ci sta anche gracchiare un po' più su; bravi i gemelli Dressner come sempre a trovare quelle melodie ariose che si incollano al cervello al primo ascolto, bravi a mischiare un po' le carte con un bell'innesto di elettronica (e bravo il batterista ad accettare umilmente di essere sostituito da un beat, immagino senza fare tante storie) e più di una trance situation che fa lievitare il disco fino alla title-track posta a fine corsa, che curiosamente ricorda i Radiohead di Kid A virati in electro-croonering.

giovedì 21 febbraio 2019

I.A.M Umbrella ‎– The Sound Of Shadows Breathing On Themselves (1995)

Terza ed ultima testimonianza discografica del duo californiano, e come nel caso del primo Nowhere, rilasciato da una label tedesca. Nel mezzo c'era stato il bellissimo Gift of roots and wings, rivelatorio di un suono davvero peculiare che con The Sound of shadows... trovò una specie di quadratura del cerchio. Un'ambient ritualistica, con delle connotazioni etniche ma fuori dagli stereotipi che il termine si tira dietro da più di 30 anni. Un insieme che unisce tribalismi ed astrattismi in un colpo solo, con un uso saggio dell'elettronica ed una varietà di ambientazioni davvero notevole. Meritavano ben altri riconoscimenti invece del dimenticatoio totale, nonostante le sonorità fossero inconfutabilmente di quell'era; erano davvero bravi.

martedì 19 febbraio 2019

Metal Hearts ‎– Socialize (2006)

Duo di neanche ventenni americani che nel 2006 se ne uscirono con questo album guadagnandosi la fama di un Blow Up, nella categoria riquadrini marroni del reparto Waves. L'entusiasta recensore di turno profetizzava un roseo futuro per i due ragazzetti, che invece fecero perdere le loro tracce nonostante la buona esposizione della indie Suicide Squeeze di Seattle.
Socialize è un disco scarno e scabro, ma dalle indubbie capacità melodiche. Rifiuto l'accostamento agli Arab Strap in toto, premetto, dovuto forse alla drum machine; semmai i due riescono in un'agile mix fra Pinback, Modest Mouse e l'indie rock della K Records di un quarto di secolo fa. In fondo in fondo, è un pop schietto ed intimista, semi-acustico e sostanzialmente maturo per quelli che erano dei teenagers; anche Pitchfork profetizzava su di loro, asserendo se non scopriranno la Playstation possono raggiungere i livelli espressivi di Cat Power in men che non si dica. Altro che la grandine....

domenica 17 febbraio 2019

Japan ‎– Quiet Life (1979)

Di fatto fu un nuovo debutto, dopo i due primi, interessanti ma ancora sostanzialmente acerbi, un po' retrogradi e non indicativi delle prodezze di cui sarebbero stati in grado, sia qui che col successivo Gentlemen. Fu l'eleganza innanzitutto a rivelare una nuova identità, con le tastiere elettroniche a disegnare scenari inquietanti, spiraliformi, a tratti di derivazione teutonica, come a denunciare quella componente mitteleuropea che invadeva l'animo di David Sylvian.
Qualche ingenuità non mancava, ma considerando l'età (all'epoca il nostro aveva soltanto 21 anni) dopotutto è perdonabile. Restano i capolavori: Despair, il capostipite della hyper-ballad pianistica tenebrosa ed ammaliante, In vogue, il disincanto sospinto mid-tempo autunnale-fantascentifico, The other side of life, la proto-sinfonia struggente anticipatoria delle meraviglie soliste. Dietro al leader, brillano tutti di luce propria esecutiva: un Karn eccezionale, un Barbieri polivalente per tutte le stagioni, un Jensen poliritmico, da rilevare perchè spesso sottovalutato.

venerdì 15 febbraio 2019

Lapse ‎– Heaven Ain't Happenin' (2000)

Secondo ed ultimo di Chris Leo e gentil donzella Yasuda, a riprova dell'animo inquieto di questo moderno cantore delle nevrosi metropolitane americane. Nessuna progressione particolare rispetto al precedente, soltanto una conferma del talento e più piacevole (all'epoca) perchè ormai si era metabolizzato lo split dei Van Pelt: seppur con dispiacere, ci si era messi il cuore in pace.
Due i principali tronconi che dividono Heaven: la sferzata elettrica saltellante e storta come da tradizione leoiana (spettacolari Buffet, S.o.s. e Basilico Basilica, con tanto di esilarante citazione partenopea) e le divagazioni ombrose memori dei Van Pelt (Aerial). Fra questi due filoni la Yasuda si inseriva da non protagonista, con la sua voce esile e felpata, contribuendo in modo determinante alle due anomalie dell'album, che poi alla fine ne costituiscono gli highlights: la suadente Fruit e la metronomica, splendida Hachi, con cantato in giapponese e progressione fra le migliori in assoluto di tutta la carriera di Leo.

mercoledì 13 febbraio 2019

Kraftwerk ‎– Ralf & Florian (1973)

Terzo e spartiacque. Innanzitutto il titolo del disco, che sembra una dichiarazione d'intenti: un paio d'anni prima c'era stato il turnover coi Neu!, inclusa la "vacanza" di Florian, auto-dimissionatosi per qualche mese. Come cambiano le cose: se non fosse tornato da Ralf, come sarebbe andata la storia?
R&F è quindi il primo disco suonato interamente dal duo, ed è la perfetta mediazione fra le escursioni dei primi due coni stradali e le progressioni autostradali che dall'anno successivo in poi li porteranno in orbita. Il pezzo simbolo è Kristallo: sbuffi meccanici metronomici fanno da sostegno ad elucubrazioni di spinetta. E poi i titoli di coda, con l'Ananas Symphonie, 14 minuti di distillato ambient. Non resterà fra i loro classici, ma quanta classe che distribuivano a piene mani.

lunedì 11 febbraio 2019

Keith Kenniff ‎– Branches (2011)

Secondo (ed ancora ultimo al momento, escluso l'EP Portraits) album di KK a proprio nome, uscito appena un'anno dopo l'eccellente soundtrack The Last Survivor. Branches invece si è trattato di un episodio a sè stante, non commissionato ed intestato a sè stesso in quanto a suo avviso non lo trovava calzante nè per Helios nè per Goldmund. Difficile dargli torto, in quanto si tratta di un disco piuttosto colorito in cui i sinfonismi si sposano con i glitches e le classiche atmosfere da soundtrack la fanno da padrone (suggestiva l'orchestra sintetica di Immersion ma soprattutto la vetta di Here e l'elegia mesta di Letters). Insomma, adattissimo ad un immaginario film drammatico ma non troppo, diciamo che lo immaginerei ben incollato ad un capolavoro come il cileno The Club, uno dei più bei film degli ultimi 10 anni a mio parere.

sabato 9 febbraio 2019

SubArachnoid Space ‎– Delicate Membrane (1996)

Primo (e migliore) album del quartetto californiano, uno di quegli acts che a metà anni '90 Scaruffi portava a conoscenza italica sulle pagine di Rockerilla, con quelle sue fredde e colorite recensioni che solleticavano il palato della curiosità più morbosa, salvo poi scoprire che i cd import costavano un'occhio della testa e ricacciare via rapidamente l'idea di essere fra i pionieri.
Dico migliore perchè a differenza del secondo (selvaggio ma casinista) e del terzo (controllato ma incompleto) Delicate Membrane è l'autentico manifesto di un genuino ed incessante Rombo lisergico, elaborato in presa diretta e parto di una psichedelia galattica che discendendo dai primi Pink Floyd scorrazzava in soluzioni avvolgenti e molto, molto drogate. Un album piuttosto lungo ma mai noioso, festival delle chitarre e con un appiglio ritmico pesante e dinamico.

giovedì 7 febbraio 2019

Grouper ‎– Grid Of Points (2018)

Quindi Ruins non era una parentesi, no. Quelle delicate e riverberate composizioni per piano e voce non erano lo sfogo di un periodo limitato, di un soggiorno in Portogallo; rappresentavano il debutto di un nuovo corso, che trova la sua sublimazione (e speriamo non il proprio termine) in Grid Of Points, spostando il baricentro di un personale massimalismo un po' più in là.
22 minuti appena, che sembrano ridursi sempre più man mano che gli ascolti si susseguono; Liz Harris è divina. Prolifica e puntuale per il suo primo decennio di carriera, questa volta ha aspettato 4 anni per realizzare 7 pezzi di stellare intimismo; durante la lavorazione si ammalò e fu costretta ad interrompere, ma non tornò sul materiale e consegnò il master alla Kranky, rifiutandosi di allungarne il contenuto. Liz Harris è saggia e le sue 7 nudissime ed estatiche songs risuonano come se provenissero dalla stanza di fianco. Sono di un calore e di un umanità che ha dell'irreale, che azzera totalmente lo stile espanso-stratificato che l'aveva fatta conoscere al mondo, e che aveva indiscutibilmente rivelato un talento fuori dal comune: con questo ritorno alla terra e ad una semplicità che più spartana non si può, Liz Harris compie una metamorfosi che forse non è piaciuta a molti. Essenziale, allo stato straordinario, per me.

martedì 5 febbraio 2019

Michael Mantler ‎– Silence (1977)

Era un vero e proprio organizzatore di eventi, il buon Mantler: un'anno dopo lo splendido Hapless Child si ripetè con la messa in musica di uno scritto del drammaturgo inglese Harold Pinter. Punto in comune col precedente, oltre alla sua signora Carla Bley, il buon Bob Wyatt che oltre a fornire una delle tre voci cantanti/recitanti si destreggiava alle percussioni dimostrando di sentirsi tutt'altro che vinto dalla paralisi. L'altra voce protagonista era nientemeno che Kevin Coyne; completavano il quadro il grande chitarrista Chris Spedding ed il bassista americano Ron McClure.
Trattandosi di un lavoro molto teatrale, l'unico difetto di Silence è l'omogeneità, quasi paradossale per un continuum tragico e drammatico (evidentemente il tipo di atmosfera preferito dall'austriaco) in cui 3 voci si alternano e dibattono senza mai sovrapporsi. Ma è soltanto il dettaglio minore, perchè i suoni sono quelli che ancora resistono all'invecchiamento ed in fondo stabilivano un superamento elegante agli stereotipi in declino del Canterburysmo. E poi un disco con Wyatt ha sempre qualcosa in più, c'è poco da fare.

domenica 3 febbraio 2019

90 Day Men ‎– To Everybody: (2002)

Ricordo un'intervista a traino di To Everybody, (in verità accolto con relativa freddezza come tutti e 3 dischi dei 90DM) in cui lo straordinario drummer Cayce Key riassumeva in una frase il senso dell'evidente mutazione del gruppo, e faceva più o meno così: sul primo disco sono stato narciso, volevo dimostrare la mia bravura a tutti i costi; adesso l'amalgama viene prima di tutto, ed è importante che tutti gli strumenti siano sullo stesso piano. Non è che su To everybody le sue grandi doti vennero meno, ma la metamorfosi fu traumatica rispetto ad un debutto che era già stato sensazione immediata: l'avanzata gerarchica di Lansangan, che costellava costantemente col suo piano elegante, contribuì alla materializzazione di uno splendido post-prog, modernissimo e luminoso, che mediava fisicità e cerebralismi, tecnicismi ed atmosfere crepuscolari con una maestria da instant classic. 6 pezzi per 38 minuti, neanche un secondo sprecato o inferiore; dovendo proprio citare i momenti migliori, andrei per il lungo mantra di Saint Theresa in ecstasy, divino esercizio di minimalismo che Mark Hollis avrebbe volentieri fatto suo, il minuetto con allucinazioni allegate We Blame Chicago, l'accorata e barocchissima Alligator ed il finale di A national car crash, che recupera parzialmente la foga del debutto, ma posseduto dalla nuova vena emotiva che lo rende oro colato. 
A 17 anni di distanza, il valore netto cresce, alla faccia di tutti quelli che li hanno ignorati.

venerdì 1 febbraio 2019

F/i ‎– Out Of Space & Out Of Time (1993)


Si sa ben poco di questo CD nel 1993: zero note interne, ma scandagliando la discografia si scopre che è un assemblaggio che pesca dall'LP Why not now? Alan e dallo split con i Boy Dirt Car del 1986, in seguito antologizzato nella ristampa australiana del 2001 che includeva anche il masterpiece Space Mantra. Insomma gran casino ma la sostanza non cambia: free-psych-freak-space-fuzz-rock in libera uscita galattica, in forma di jam ovviamente, dai toni scuri e minacciosi. La grinta lisergica asservita su strutture circolari, con una potenza anche ritmica inusuale per queste zone grigie.
D'altra parte gli F/i provenivano da una zona lontana dai centri nevralgici dell'arte americana, il nord del Wisconsin, e come in tanti altri casi analoghi si seppero ritagliare una propria forma (per quanto la dipendenza dai modelli degli anni '70 fosse evidente) ed espressione.