Dopo vent'anni di onorata militanza indie, i Piano Magic hanno deciso di chiudere il libro e lo scrigno dei loro segreti. Fra alti e bassi, incertezze, capolavori e conferme di maturità, l'unità sempre guidata da Glen Johnson si è fatta largo in una nicchia di pubblico costante e fedele, facendo della propria britishness il punto di forza, ma ottenendo più consensi in continente che in patria. Forse non passeranno alla storia della musica, ma hanno saputo elaborare una voce personale, fuori dalle correnti, dal coro, dalle masse.
Closure non ha riservato sorprese al pubblico, dimostrando che il gruppo ormai viaggiava col pilota automatico compositore, con la formula ultra-collaudata a base di wave, maudit e gotico decadente, ma ha comunque regalato la solita manciata di perle sopraffine (Let me introduce you, Landline, I Left you twice, not once), un sorprendente ballabile di potenziale successo (Exile), mentre il resto veleggia in un ordinarietà che tale non è mai stata, neanche nei punti meno alti di una parabola che termina, indimenticata e scolpita sulla roccia della perfida Albione.
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