domenica 30 gennaio 2011

Massimo Volume - Club Privè (1999)

Anche se probabilmente sono l'unico in assoluto a pensarlo, ritengo Club Privè il miglior disco dei MV. Alla luce poi di ciò che ha prodotto la reunion, il mio pensiero ne esce ancor più rafforzato. E' notorio che il parere degli stessi MV in merito a questo stia sulla mediocrità generale, con particolare attenzione di Clementi ai pezzi cantati, in un certo senso rinnegati (quasi come se gliel'avesse ordinato qualcuno, di provare a cantare, e come se per farlo servisse un diploma o un attestato). La realtà è che Club Privè è stato il parto musicalmente più vario e colorito, senza star tanto ad addossare meriti ad Agnelli che pur fece un ottimo lavoro, specialmente sui bassi.
C'era un processo di ammorbidimento in atto, e i MV erano maturi per lasciarsi alle spalle le grigie oppressioni del passato. Pondycherry infatti apre che è una meraviglia, su ritmica dispari, con un atmosfera rilassata quanto basta e gli armonici aperti di Sommacal. Sugli scudi, in questo filone non abbastanza sfruttato, anche la splendida Ti sto cercando, uno dei tanto famigerati pezzi cantati, col sussurro di Clementi appena appena udibile, o tornando sul recitato, sulla lunga lista di rimorsi di Dopo che.
Sul versante più inquieto, molto valida la sarabanda di Seychelles '81; il ritmo strascicato con cupo giro bassistico di Il giorno nasce stanco, l'incubo minimale con inserti elettronici di Privè, l'ipnosi lacerante di Altri nomi. Due o tre titoli sono effettivamente sotto la media, ma sarebbe stato interessante, se non si fossero sciolti, vedere gli sviluppi futuri che i MV avrebbero potuto percorrere, smarcandosi da uno stile che era già stato fin troppo sfruttato. Ipotesi, però, che forse sarà impossibile verificare visti i risultati della reunion.

sabato 29 gennaio 2011

Godspeed You! Black Emperor - Live In Estragon, 26-01-2011















Un evento attesissimo, specialmente per chi se li era persi un decennio fa, quand'erano in vita. Uno hiatus mai motivato ufficialmente per l'ensemble canadese, che ora è di nuovo in pista per ristabilire live la posizione (mai persa, ovviamente) di capostipiti di certe sonorità post-sinfoniche-progressive, e sinceramente non ha importanza se ci siano nuove composizioni in cantiere o meno (a me non è sembrato di sentire inediti).











Un esperienza che metaforicamente descriverei come scalare una montagna; una performance durata due ore e mezza, in cui l'ottetto dà tutta la sua concentrazione, la solennità e l'emotività delle suites. Loro non sono emotivi, tutt'altro: freddi e con i capi chini sugli strumenti, gli unici cenni al numerosissimo pubblico saranno al termine, quando all'una circa, alla spicciolata lasciano il palco. Ovviamente non esiste il concetto di bis, non ce ne sarebbe stato nessun bisogno dopo una maratona che lascia piacevolmente stanchi ed ebbri.











Il supporto è quanto di più fuorviante ci possa essere. Un ragazzo piomba sul palco con due sax, ne sfodera uno enorme ed inizia a barrire muggiti impressionanti. Poi estrae quello piccolo e destabilizza con squittii competenti e deliranti. Colin Stetson ringrazia tanto i GYBE per avergli dato questa opportunità, e si rivela un ottimo performer. Con l'aiuto degli auto-loop, inscena una manciata di quadretti surreali, dal vago sapore jazz. Apprezziamo.










L'ottetto fa il suo ingresso in punta di piedi, uno ad uno. Fa piacere rivedere il vecchio chitarrista Moya in formazione, mentre risulta assente la cellista Johnson. Per il resto gli elementi sono quelli storici: i due batteristi Girt e Cawdron (anche al glockenspiel), la violinista Marceau, i due bassisti Pezzente e Amar, impegnato anche al contrabbasso, e i due chitarristi Bryant e Menuck.
Scorrono i classici, nelle solite durate chilometriche, fra il quarto d'ora e la mezz'ora, quasi sempre nell'oscurità (come da video sottostanti), con una maggior propensione alla psichedelia specialmente quando Menuck e Moya indugiano sulle note alte armati di cacciaviti. Se il ruolo di Bryant sembra essere quello di direttore d'orchestra, è la Marceau a punteggiare con maggior fascino.
Un ritorno meraviglioso, per chi se li fosse dimenticati.





venerdì 28 gennaio 2011

Mars - The Complete Studio Recordings, NYC 1977-1978

3E apre con un singhiozzante wave'n'roll alla Devo, 11.000 Volts prosegue con una malata digressione alla Pere Ubu, con la voce disturbata della Hamilton. Già dall'inizio doveva esserci da restare sorpresi, ma da lì in poi l'opera omnia di questo combo bisex si rivela un folle delirio di elettricità e schizofrenia. Il treno in corsa di Helen Forsdale con Crane ad emettere gemiti da cunicolo d'igiene mentale, la contemplazione post-nucleare di Hair Waves, il noise cingolato di Tunnel, ogni numero (perchè in tal senso le loro miniature erano esibizioni da circo dell'assurdo) vive di una storia a sè, per quattro personaggi che non sapevano suonare ma avevano gettiti e conati artistici da espellere senza ritegno nella fertile Grande Mela di quegli anni, spostando un po' più avanti il confine che i Red Krayola avevano già scavato una decina d'anni prima, in piena summer of love.
A riascoltarli adesso, i Mars sembrano paradossalmente progenitori di un certo industrial deviato (N.N. End) e divertono non poco con il teatrino di Puerto Rican Ghost, con l'utilizzo delle voci disumane e sfigurate, le chitarre come trapani a percussione, il basso come un sordo rimbombo atonale, la batteria come pietre che rotolano sul fianco di una montagna.
Talmente spiazzanti che forse lo restano ancora adesso...

martedì 25 gennaio 2011

Marlene Kuntz - Uno (2007)

Li avevo lasciati nel 2000 con un deludente Che cosa vedi, che mi era parso il simbolo della fine di un era, l'autentico terminale dei loro gloriosi anni '90. I dischi successivi li avevo trovati sfocati e deboli, fino a quando questo Uno ha permesso loro di trovare il bandolo della matassa.
A volte i cambiamenti radicali sono un po' traumatici per i gruppi istituzione, nonchè per il loro pubblico che può trovare certe mosse (spontanee o meno che siano) discutibili o non gradite. Personalmente ho trovato Uno un punto di svolta in netto positivo per i cuneesi; il lato più quieto e riflessivo aveva già fatto intuire ottime potenzialità in ognuno dei primi dischi, e qui funge da base imperante del lavoro, unito alla raffinatezza degli arrangiamenti ed un manipolo di ottime composizioni. Si dice che in Musa, uno dei migliori, sia Paolo Conte a suonare il piano, ed è un fatto assolutamente sintomatico. Maroccolo produce impeccabilmente e suona il basso ancor meglio. La poetica di Godano si adatta a meraviglia alle atmosfere vaporose (Canto, Canzone ecologica, Canzone sensuale, Stato d'animo, Uno) dagli ambivalenti umori, fra il meditabondo e il solare (Negli abissi fra i palpiti).
Pertanto, una piacevole sorpresa risentire i MK tornare alla grande, quando già li davo per entrati in un tunnel irreversibile di mediocrità.

Le Luci Della Centrale Elettrica - Live in Bronson, 22-01

Su Sunday Morning, of course....

lunedì 24 gennaio 2011

Main - Hydra Calm (1991-2)

Dagli ultimi, grandi Loop di A gilded eternity al primo passo dei Main ci fu giusto un anno, il tempo di riorganizzare le cose, le idee e scartare di netto. Il leader Hampson trovò in Dowson, che era stato l'ultimo chitarrista ad avvicendarsi nella formazione londinese, il collaboratore adatto per sperimentare una musicalità algida, molto meno fragorosa che in passato, fra il meccanico, l'industriale e l'ambient. Le chitarre assumevano un ruolo totalmente diverso rispetto al passato, con un pesante inserimento di elettronica e drum-machine. Ai tempi lo si chiamava isolazionismo, un termine che era un po' naif ma forse aiutava a rendere l'idea. Hydra e Calm erano due EP che furono raggruppati, a mo' di primo album per la Situation Two, la stessa succursale della Beggars Banquet che aveva pubblicato i Loop.
Flametracer è forse il meno ostico del lotto; le frustate di basso e la drum-machine macinano indefesse lo stesso ritmo, le ondate sinusoidali delle chitarre intercalano uno scenario quasi industriale e la voce eterea di Hampson in sottofondo. Con Time over si inizia a fare sul serio, grazie alle rasoiate cosmiche su un beat glaciale. Suspension gioca con un drone asfittico per 9 minuti, un'allucinante viaggio nel sottosuolo prima di essere travolti dalle sulfuree emissioni di There is only light, che potrebbe anche essere stata una cover dei Loop, sostituendo la classica ritmica con dei pads e stratificando le manipolazioni chitarristiche.
La seconda parte, Calm, è sempre più sperimentale. Ancora drone da incubo con Remain, con un Hampson in veste estatica vocale. Il ronzio di Feed the collapse potrebbe essere un elicottero alla moviola o un insetto amplificato. Il finale piomba di getto nella dark ambient più esoterica e minacciosa, prima con Sever e poi con Thirst, un monolite di 20 minuti di totale rigetto dal mondo vivente, soliloquio agghiacciante di feedback e riverberi dilaniati.
Hampson ci aveva visto giusto a chiudere il Loop, e per qualche anno i Main resteranno uno dei progetti più interessanti di tutta la Gran Bretagna, nonostante questo Hydra Calm resti il loro vertice espressivo.

domenica 23 gennaio 2011

Magic Lantern - High Beams (2008)

E' alquanto curioso osservare come, nel rapidissimo spazio di un biennio, da rampa di lancio i Magic Lantern siano diventati praticamente un gruppo secondario, nel caso in cui fosse ancora attivo. Pochi mesi fa, il deludente Platoon ha fatto un po' segnare il passo ai californiani. Ormai il chitarrista / cantante Stallones è totalmente immerso nel suo liquido Sun Araw, progetto che conta una decina di uscite in neanche 3 anni. L'altro chitarrista Giacchi e il tastierista French invece, si sono un attimo fermati nel 2010 con i loro super-minerali, ma essendone fan spero ne stiano reclutando altri da pubblicare presto.
High beams forniva già una sottile anticipazione delle sonorità che sarebbero dilagate altrove, seppur il contributo della sezione ritmica ponesse l'accento sul pestaggio duro di psichedelia hard con la jam iniziale di Deathshead Hawkmoth, un delirio ossessivo per fuzz, wah wah e farfisa acidissimi. Un afflato più mistico (se non krauto) ammanta Feasting on Energy, con Stallones ad emettere misteriosi richiami dal suo microphono radioattivo. Dopo i due minuti di slow-freakedelia di Night Mane, altri due jams di lunga gittata: l'emozionante Vampires in heat, lenta tempesta elettromagnetica indiana dal passo imponente. Cactus raga invece li riproietta indietro di 40 anni, in un contesto hendrixiano adeguatamente spessorato.
Un ascolto simpatico nonostante l'altissima componente revivalistica, tuttavia i Magic Lantern si sarebbero potuti ampiamente dimenticare se non avessero generato quelle due magiche S...

giovedì 20 gennaio 2011

Madrugada - Madrugada (2008)

Ma chissà per quale motivo questi me li sono persi. Casualmente negli ultimi tempi mi sono imbattuto in questo gruppo norvegese, che però è già bell'e cessato di esistere all'uscita di questo disco, a causa della morte del chitarrista nel 2007.
Stilisticamente i Madrugada non offrivano nessun tipo di novità rilevante, se non una grande capacità di scrivere in maniera classica, per non dire vintage. L'influenza che personalmente colgo più rilevante è quella del Nick Cave più edulcorato, meno inquieto, ma virato ad un fatalismo perdutamente marcato (New Woman New Man), proprio come se il sentore che una disgrazia si stesse avvicinando ammantasse l'atmosfera del disco. In seconda battuta anche il croonerismo dei Tindersticks affiora spesso, e nei momenti più grintosi persino un gruppo dimenticatissimo degli anni '90, gli inglesi Whipping Boy di Heartworm.
Oltre alla scrittura pienamente convincente, un altro punto di forza era sicuramente la bella voce, piena e vibrante, del vocalist Hoyem. Pezzi struggenti come Highway of light, Whatever happen to you, Honey bee, contengono tantissimi rimandi al passato ma toccano quelle particolari corde dell'animo che non lasciano indifferenti.

mercoledì 19 gennaio 2011

Madrigali Magri - Malacarne (2002)

Inquietante e lascivo, da far tremare i polsi.
Tutto questo in quanto Succi, ad un certo punto della sua giovinezza, decise che non avrebbe venduto l'anima al dio discografico. E quando nel 1994 formò i MM con la Parodi e Rossi, dando vita a questo progetto sperduto, forse neanche si rendeva conto dell'originalità che si apprestava a mettere in piazza.
Spigoli vivi di elettricità pericolosa (Orco Boia, Tersilia), stasi allucinate galleggianti (Onda Dura, Blues Jesus) magagne di impossibile decifrazione (Devil Did, Era), acusticherie gentili che mostrano il lato "melodico" (Nuova casa, Alba). Il terzo dei MM era tutto qui, breve e ardente prova di un talento obliquo che si ripeteva, e che oggi è ancora brillantemente in pista.
Un bis con gli interessi, dopo Negarville.

martedì 18 gennaio 2011

M83 - Dead Cities, Red Seas & Lost Ghosts (2003)

Magniloquente, imponente, variopinto. Ci ho messo un bel po' ad entrare in questo doppio chilometrico, che sembrerebbe quasi un concept per come si sviluppa, fra corsi e ricorsi, richiami e ricami. Un duo francese esploso in tutti i sensi: dopo un lunghissimo tour a promuovere Dead Cities, la metà Fromageau abbandonò lasciando tutto sulle spalle di Gonzalez.
Non è solo il mio personale sentore di concept a dare una tempistica indefinita al tutto. Il suono dominante dei synth, moog ed armamentari accessori mi ricordano spesso certe esplorazioni anni '70 di Jean Michel Jarre. Soltanto che qui c'è anche il validissimo songwriting, c'è l'effetto deflagrante delle ritmiche e di improvvise impennate chitarristiche. Senza praticamente ausilio di parti vocali, costruendo e saturando spesso gli altoparlanti ma con un intelligenza ed un acume fuori dal comune, persino nelle pause ambient che avrebbero potuto farli impantanare in sedi inadatte, mentre invece funzionano alla grande.
Sono così tante le tracce ispiratissime che non ritengo opportuno citarle in separata sede, dato che Dead Cities funziona perfettamente nella sua interezza, con le sue arie alte ed un indefinibile leggerezza d'animo.

domenica 16 gennaio 2011

Lydia Lunch - The agony is the ecstasy (1982)

Performance inclusa nell'EP dei Birthday Party Drunk on the pope's blood, un' EP dal vivo del 1981 che in qualche modo era la pietra tombale della breve carriera degli australiani. La Lunch ai tempi era solita aprirne i concerti in compagnia di Howard, realizzando improvvisazioni radicali, robe davvero forti che Cave odiava...Questo Agony (non sono riuscito a capire se è un live o meno) invece fu un'estemporanea con Steve Severin in libera uscita dai Banshees, evidentemente voglioso di provare qualcosa di diverso e approfittando della visita londinese della poetessa maledetta.
Trattasi di un inferno di 16 minuti, in cui Severin martoria chitarra ed ampli con una selva di feedback e flanger, rigorosamente atonali, su una ritmica primordiale. E con una Lunch letteralmente indemoniata, posseduta da chissà quali fantasmi, ad impersonare un'adolescente terrorizzata e costretta all'angolo. Non che il paragone possa sembrare adatto alla situazione, ma si potrebbe definire l'equivalente psichedelico di un trip andato a male con Siouxsie....
Purtroppo non ho dimestichezza con la produzione della Lunch e credo che dovrei rimediare, quindi non saprei in che posizione si pone quest'episodio, ma si tratta di qualcosa di veramente radicale, quando non agghiacciante.

Lucky Pierre - Touchpool (2005)

Lo preferisco così, come ladro di suoni. Come evasione dall'ingombrante passato, in qualità di assemblatore di magnifiche arie che incrociano passato e presente, tecnologia e sinfonia fin dall'iniziale, magniloquente e drammatica Crush.
Touchpool è il suo capitolo più riuscito e si fregia di quello che secondo me è il miglior pezzo di Moffat. Rotspots From The Crap Map è un teso e stratificato lounge poliziesco da brividi. Ma è la sequenza a funzionare alla grande: Jim Dodge Dines at The Penguin Cafe è uno scorcio assolato di Hawaii con trombe messicane, Baby breeze ha un arpeggio chitarristico e l'ambientazione tipica degli Arab Strap, Fan Dance una bossa scura ed indagante. Poi c'è il languido pianismo di Velbon, con in rilievo quegli scricchiolii da vinile abusato che l'uomo ama tanto.
La chiusura è riservata all'onirica, splendida Total Horizontal. Come di solito, non si sa se qualcuno ha suonato cosa, e come. Zero informazioni, anche se nelle interviste Moffat lascia intendere che colleziona samples e poi li assembla in studio. Perchè altrimenti giurerei che il suo grande amico Braithwhite o il trombettista di fiducia Wylie collaborassero.
In ogni caso, suoni di magnifica compagnia.

venerdì 14 gennaio 2011

Low In The Sky - We are all counting on you, William (2007)

Interessante progetto americano strumentale che fonde folk ed elettronica con delle ottime trovate, specie sul piano delle melodie, ma di cui si sa poco o nulla.
Un atmosfera sognante ed evocativa domina il disco nella sua quasi totale interezza. Le chitarre cristalline di New Amsterdam 1672 rievocano certe arie dream-pop dei primi anni '80, ma è solo un episodio circoscritto. The Pursuit of the Giant Squid sembra portarli più su derive sobriamente orchestrali, dalle parti GY!BE ma con misura e leggiadria quasi surreale.
La produzione è un punto di forza del disco. Sia quando si resta sull'acustico che quando il ritmo si fa digitale e compaiono i sample, le scelte sonore sono sempre oculate. Curiosamente Fellow Mice si avvicina, effetti e tastiere escluse, ai nostri Bachi Da Pietra.
Non mancano neanche spunti che in qualche momento rievocano addirittura gli Arab Strap, sparsi in qua e in là. Sinceramente non saprei dire se con una voce i Low In The Sky potrebbero ottenere di più nel risultato finale, però perlomeno un tentativo serio lo dovrebbero fare (e non quello che mi sembra un campionamento femminile su Fnd Wax Cylindr at Abandnd Shell Station). Basti sentire il pezzo migliore del disco, la solenne e marziale Dialogue wuth a shadow, ed immaginarci sopra, che ne so, uno tipo il vocalist dei Stateless. Ne avrebbe guadagnato, senz'altro.

mercoledì 12 gennaio 2011

Lost Aaraaf - Lost Aaraaf (1971)

Se pensiamo bene all'anno in questione, 1971, una cosa del genere poteva venir fuori soltanto dal Giappone. E da una formazione che aveva come vocalist quel matto di Keiji Haino, qui ai primi passi.
I LA partivano da un substrato free-jazz psicotico e fuori dai generis, ma il ruolo e le performance di KH lo rendevano a dir poco inqualificabile. Non ci sono pressochè info che possono aiutare a capire la line-up, ciò che è sicuro è che con lui c'erano un batterista ed un pianista altrettanto folli nelle loro improvvisazioni radicali, immagino qui catturate live in studio. I pezzi sono 3 e tutti privi di titolo, e nel secondo (38 minuti!) pare di udire anche un contrabbasso, inoltre il feedback del microfono è talmente diffuso che diventa in pratica uno strumento (per modo di dire) aggiunto.
KH sfoggia un bestiario di grida, gemiti e schiamazzi fuori di testa, un banzai costante da camicia di forza. Il terzo pezzo, il più inquietante ed infernale, lo vede alzare la tonalità in modalità spacca-vetri. Nel secondo si materializza un canovaccio di forma composita, in cui i LA realizzano una specie di elegante vaudeville jazzato. L'effetto è quello di boccata d'ossigeno, anche se KH non lascia spazio alla convenzionalità neanche in questa sede.
Il primo ascolto mi aveva procurato fastidio. Ma già al secondo, si può apprezzare il fatto che questo approccio noise-naif li rendeva di un originalità inaudita.

martedì 11 gennaio 2011

Long Fin Killie - Houdini (1995)

All'epoca comprai solo Valentino, e mi persi gli altri due. A quindici anni di distanza, eppure, appare chiaro perchè Houdini campeggiasse bel bello nella top ten annuale di Blow Up quando era ancora fanza.
Perchè se Valentino era un gran disco, questo debutto manifestava una creatività ed un esuberanza strabordante, un'ora abbondante in cui Mastro Sutherland e compagnia saltavano di palo in frasca nella creazione di misture inedite. Fra folk arcano, indie-shoegaze, etnie stralunate, ancestralità progressive, jazz pellegrino e quant'altro.
Ricordo che ai tempi andava di moda il termine crossover, anche se era riservato soltanto ad alcune band popolari e dedite a certe sonorità prettamente dure. La popolarità i LFK non la ottennero, ma se c'era un crossover vero ed applicato era il loro sound, imprendibile, fantasioso e dalle mille sfaccettature.
Diavolerie dei dimenticatoi.

lunedì 10 gennaio 2011

Liquid Liquid - Slip In And Out Of Phenomenon (2008 Reissue)

Se non avessi visto la foto avrei scommesso sul fatto che fossero neri, ed invece i LL erano 4 newyorkesi bianchi che scarnificavano il lato più funk della new-wave in una formazione alquanto atipica. Voce, basso, batteria e percussioni. Una formula che non avrebbe avuto milioni di sviluppi, infatti durarono appena 3 anni e 3 EP per poi scomparire, con tanto di plagio successivo da parte di famosi rappers con cui persero una causa, etc etc.
Questa stampa della Domino comprende tutto ciò che registrarono più qualche live che nulla toglie od aggiunge alla somma. In sostanza i LL avevano un'unico schema: un bel basso profondo e singhiozzante, ritmiche etniche, ed un vocalist di cognome Principato che tutto faceva fuorchè cantare, ovvero decantava fra lo psicotico e lo shouter giamaicano. Si potrebbero anche definire un incrocio povero fra Can e Pil.
Nonostante tutti i limiti del caso, dopotutto erano divertenti e facevano bene quello che poi era un lavoro di intrattenimento.

Mogwai - Hardcore will never die, but you will (2011)

Su Sunday Morning, of course...

domenica 9 gennaio 2011

Ligament - Kind deeds (1996)

Praticamente la versione antecedente dei Part Chimp. Però è curioso vedere il percorso a cui Cedar e Hamilton hanno dato vita: se adesso fanno un noise-rock ispirato alla grande mela degli anni '90, in quel periodo si esprimevano con un lezioso e quasi poppy indie-college all'inglese. Logico che a Londra non se li filasse pressochè nessuno, mentre Robin Proper Sheppard evidentemente se ne infatuò e li fece uscire per la Flower Shop, investendo risorse che forse avrebbe dovuto impiegare meglio con gli Elevate che erano di gran lunga più interessanti.
Con tutto questo non intendo certo dire che Kind deeds sia un disco da buttare via in toto. Il suono è ispido e vivace, ma il percorso è un campo minato in cui ogni spunto valido viene subito annullato dal successivo, rendendolo disomogeneo e fuori fuoco. Vanificando anche le parole che venivano spese sulle pagine di Rockerilla, in cui non ricordo se il solito Badino o Costamagna dipingevano i Ligament come una band incendiaria e feroce.

sabato 8 gennaio 2011

Library Tapes - Höstluft (2007)

Già il nome del progetto è molto evocativo. E dai primi secondi l'immagine che sovviene è chiara: pare di aggirarsi in una biblioteca enorme e polverosa, dal soffitto altissimo con una vetrata che lascia entrare il sole. E come si odono i primi scratches sembra di vedersi proiettati nello stesso luogo, ma in un video vecchissimo in bianco e nero in cui le increspature sono perfettamente sincronizzate con questi scricchiolii elettronici.
Altre volte sembrano quasi tasti di una vecchia macchina da scrivere, con una premuta ogni tanto. L'ultimo frammento, invece, Distans, mette in scena un treno in frenata eterna, un feedback locomotore.
La musica di Wengren è fatta così: acquarelli di pianoforte con dosatissime iniezioni di musica concreta. Le partiture sono quasi ipnotiche, da tanto che girano attorno sè stesse, suonate con calma serafica ed estrema concentrazione. A volte c'è una sottilissima malinconia, altrove una compassata, accademica contemplazione.
Ciò che stupisce è, oltre alla bellezza delle singole composizioni, l'umanità estrema che Wengren mette in scena, grazie anche al sempre magnifico suono del piano classico, sia secco che riverberato.
Paesaggi scandinavi, sole sulla libreria. Disarmante.