sabato 30 aprile 2011

Terry Riley - A rainbow in curved air (1969)

Abbastanza facile capire il perchè questo disco viene considerato la pietra miliare che ha fatto conoscere il minimalismo al mondo, oltre a causa degli svariati tributi (più o meno espliciti) di artisti successivi. E' perchè in fondo non è poi così minimalista...
Si sa che Riley è sempre stato un buontempone, molto distante dalla (presunta) seriosità del musicista d'avanguardia. Se ci si fa caso, nelle foto è sempre molto sorridente, no?
Detto questo, il lato A di Rainbow tiene strettamente fede al suo nome, è una bella tavolozza di pigmenti sonori che lo rendono molto più godibile (nel senso canonico) rispetto alle algide ipnosi che il minimalismo più rigido sapeva suggestionare. Ok, la tonalità di base resta la stessa per 19 minuti, ma c'è l'intercalare di figure fantasiose di organo ed altre tastiere, ci sono percussioni in lontananza nella seconda metà, gli svolazzi di Riley sono davvero un gran bel sentire ed influenzeranno non poco anche gli sperimentatori tedeschi del decennio a venire.
Sul lato B, invece, c'è il vero capolavoro, la suite ambientale di Poppy nogood & the phantom band. Anche qui la tonalità del drone è perenne, ma soprattutto ci sono i sassofoni estatici a far levitare le orecchie e a far frullare il cervello.
E a far curvare, per l'appunto, l'aria circostante.

venerdì 29 aprile 2011

Stan Ridgway - The big heat (1986)

Il cow-waver con la sua bella voce (nonchè dotato della R più arrotata d'America), reduce dalla fine dei Wall Of Voodoo, con il tanto osannato disco d'esordio solista.
Ed in effetti non si può non ammettere che in questo gran caldo siano riposte gran belle composizioni. Can't stop the show, altalena di stati d'animo opposti all'interno di un breve circuito, è la mia preferita insieme all'energica e variopinta Drive she said. Indimenticabile poi lo strumentale Camouflage, intrisa di western ed enniomorricone fino al midollo. Da non perdere anche il lounge Walkin' home alone, e la giga di steel drums di Twisted.Il tratto fondamentale di Rigdway sta nel saper mischiare le carte, sorprendendo con una brillantezza che non saprà mai più ripetere a questi livelli. L'unica pecca che ha Big Heat, a mio avviso, è di suonare terribilmente anni '80, infestata di quella produzione tipica del pop del periodo che va a cozzare contro la qualità dei pezzi. Pensandoci bene, dopo lo sconcerto iniziale che mi ha preso ascoltandolo oggi, non è neanche una colpa tanto imputabile; giustamente, dopo l'hit di Mexican Radio, Ridgway aveva anche buone ragioni per cercare il successo.
Però, il finale ridicolo di Rio greyhound di sicuro se lo poteva risparmiare.

mercoledì 27 aprile 2011

Raksha Mancham - Ghazels (1994)

Misteriosissima entità belga degli anni '90 che realizzò una manciata di cd per la Musima Maxima Magnetica. Non è dato praticamente di sapere nulla su di essa, esiste soltanto una scarnissima paginetta in cui vengono riepilogate le pubblicazioni ma senza fare alcun cenno a membri nè biografie.
Quel che conta ovviamente resta sempre la musica e i connotati dei RM erano abbastanza audaci, in quanto in grado di proporre una miscela di etnica e dark-wave, di già un connubio arduo in partenza. Alla distanza il primo elemento è dominante, con le orecchie ben puntate su NordAfrica e Arabia in genere, quindi: atmosfere ipnotiche, litanie minimali e percussioni povere in grande spolvero. Il contraltare dark della faccenda, pertanto, si focalizza su un certo uso del basso e della voce solista: profondo e marcato il primo, scura e vampiresca la seconda (anche se l'utilizzo è piuttosto parco, a scapito di vocalità autoctone).
Nonostante non sia certo un cultore dell'etnica, devo ammettere che Ghazels però riesce a farsi apprezzare non poco, per la varietà di soluzioni. Nella lista svettano le bellissime Dakn, Fiddayyn, Arabiya Fahrana, misteriose escursioni fra i deserti sconfinati, nel gran freddo della notte.

venerdì 22 aprile 2011

Solo ???

Mille posts non c'è male...

mercoledì 20 aprile 2011

Radar Brothers - The singing hatchet (1999)

Folkitudine pigra ed indolente per i californiani, attivi da 15 anni sotto la guida del cantautore Putnam: tutto sommato un nome minore già agli inizi, in pieno rinascimento yankee-acustico.
In questo secondo disco, la noia è un rischio che si aggira minaccioso dietro l'angolo; non abbastanza emotivi da rientrare nel glorioso filone slow-core, i RB ricorrevano ad arrangiamenti curatissimi e certosini, e Putnam poteva sfoderare una discreta metà dei titoli in scaletta ascrivibili alla categoria "songwriting spartano ma abile". All the ghosts, You're on a island (splendida l'intro sinfonica), The pilgrim, Open ocean sailing, Gas station downs, sono fra queste: il leader canta con un falsetto rilassato e disarmante le lente, dolci armonie chitarristiche, di tanto in tanto punteggiate da un pianoforte.
La siesta ha termine e non è che rimanga addosso l'imprescindibile. Dopotutto un filino di noia è venuta (i pezzi non citati sono abbastanza boriosi e scontati), ma avvicinare i campioni della categoria è sempre stata dura per tutti gli epigoni.

martedì 19 aprile 2011

Raccoo-oo-oon - Is night people (2006)

Che animali strani che erano questi procioni dall'Iowa. Come cercavo di esplicare parlando del loro disco d'addio, sono stati interpreti illuminati di una nuova generazione di free-freak, dispiegando la loro libertà in una manciata di dischi dalla follia contagiosa.
Mentre il sopracitato saluto era contrassegnato da marzialità furiose, Is night people apriva le danze con sonorità neanche troppo agitate, con una percussività tutto sommato tribaleggiante, a velocità moderate e con grande enfasi sulle deliranti vocalità, su spirali chitarristiche ossessive ma mai invadenti. Prevale quindi l'effetto d'insieme, nel contesto in cui parlare di amalgama potrebbe sembrare un paradosso: eppure il coacervo di ebollizioni dei Racs centra il punto con essenzialità.
Il cuore del disco sta nei capolavori di Uh-oh, Fluff up your fur e Call out your friends, sorta di levitazioni lussureggianti, un caotico post-esotismo che assomiglia a poco altro. Trovo infatti citazioni avveniristiche come certe istituzioni degli anni '70, nonchè alle sperimentazioni tedesche di quell'epoca. Laddove le atmosfere si fanno scure e minacciose (chè in gran parte il disco sembra inneggiare ad un'allegria festaiola, non proprio convenzionale ma almeno è la mia impressione), come in In the canyons, le stilettate chitarristiche, le rullate incessanti e i vortici vocali sanno creare allucinazioni di grande effetto.
Destinati al culto.

lunedì 18 aprile 2011

Qui - Love's Miracle (2007)

Non fosse stato per l'innesto di Yow in questo album, i Qui di Cronk e Christensen sarebbero probabilmente restati confinati in un underground difficilmente raggiungibile da qui...
Tant'è, che la curiosità di sentire quel criminale vocale era ancora alta. Il duo losangeleno, chitarra e batteria, l'avevano avuto come special guest in alcuni concerti ed evidentemente conquistarono la sua fiducia. Ma non è che siamo poi di fronte a granchè: si tratta del caso in cui la mancanza del basso non è certo un vantaggio, la ristrettezza strumentale diventa un limite enorme e i due non brillano per originalità, ispirandosi a troppe cose già sentite negli anni '90. Nel primo pezzo, Apartment, si sente Yow sorprendentemente alle prese con la modulazione di un canto, seppur di esecuzione non eccessivamente ardua.
Senza stare a tirar fuori paragoni inesistenti, i Qui non si discostano da una mediocrità generale nel gestire rasoiate noise e beffardi post-blues neppur con il carismatico apporto del vocalist, che non disdegna break melodici dimostrando comunque la voglia di sperimentare qualcosa (New Orleans) nè di misurarsi addirittura con cori (la melvinsiana A#1). Qualche momento buono anche strumentalmente capita (Gash, sincopatissima), ma l'equilibrio precario viene irrimediabilmente rovinato alla fine del disco, con due inadeguatissime cover: fosse venuta meglio Willie The Pimp di Zappa per Yow ci sarebbe potuta anche stare, visto che era cantata da Cpt. Beefheart, ma la pinkfloydiana Echoes è imbarazzante ed autolesionistica nella sua pochezza, un'autogol, una bandiera bianca sventolata.
Per fortuna che la reunion dei Jesus Lizard era alle porte....

mercoledì 13 aprile 2011

Psychic Paramount - II (2011)

Sono interamente strumentali ed elaborati ma non sono epic-instru o post-qualcosa. Sono un po' spaziali ma non abbastanza da rientrare nella lisergìa pura. Hanno una grossa enfasi sulla ritmica irregolare e sulla batteria ma non sono math. Elevano muri di suono imponenti ma non sono noise. Non sono abbastanza sofisticati da essere arty.
E allora cosa fanno questi tre newyorkesi?
Di sicuro II non è un disco che scorre inosservato. Sono quasi 40 minuti a spron battuto di assalti sonici impetuosi, con quasi zero soste (solo la coda astratta di N5 dà un attimo di respiro) ed un senso continuo di oppressione e minaccia. I suoni sono fatti ottimamente ed il power-trio dimostra una tecnica rilevante in tutte le punte, specialmente in N5 coda che fa bella mostra di un jazz-math intrigante ed il chitarrista impegnato in svisate quasi frippiane.
Ma al termine non è che resti molta memoria dei 40 minuti appena passati. Sarà lo sforzo massimalista, sarà la voglia di mostrare la propria bravura in queste jams infuocate, ma il viaggio degli PP sembra un po' come il volo di Icaro: parte alla grande, e manmano che si avvicina al sole si squaglia nella propria inconsistenza di fondo.

martedì 12 aprile 2011

Prong - Cleansing (1994)

I newyorkesi nel momento di massimo successo commerciale, ovvero negli anni in cui acts come Pantera e Sepultura tiravano tantissimo il mercato del metallo evoluto a partire dall'hardcore. Ma io li preferivo di gran lunga agli altri due, per diversi motivi, fra cui: il cantato del chitarrista e fondatore Victor, abbastanza furioso ma non growling (che mi sembrava insensato se al di fuori del grind-death). Una maggior ecletticità, che non prevedeva solo cascate di chitarroni a sega circolare. Qualche collegamento con la new-wave più dura, ovviamente filone Killing Joke, di cui sembrarono l'evoluzione metallica naturale (e da cui peraltro proveniva, a seguito di militanza decennale, il neo-entrato bassista, il povero Raven). Inoltre Cleansing era un punto di mediazione rispetto ai primi dischi, in cui l'hardcore era un retaggio molto insistente.
Gli hits erano molto interessanti e gradevoli ancora adesso: Snap your finger snap your back e Broken peace rollano con un gran bel tiro ritmico (il batterista Parsons, metronomico ed efficace), e come giustamente star come Korn e Tool fanno notare, restano di grande influenza sul nu-metal che esplose dopo qualche anno.
Sui pezzi meno agitati (Not of this earth, Sublime, ma anche nel chorus di No question) regna l'alone gotic-core di Coleman & Co., al punto che basterebbe togliere un bel po' di distorsione alle chitarre e parrebbe di sentire proprio Walker. Ma occorre ammettere che i Prong avevano un loro stile ben definito, indipendente da Ministry o Nine Inch Nails che furoreggiavano anch'essi in virtù di un ben poco consono appellativo industrial-metal.
Canto del cigno, chè già il successivo fu il tipico tonfo di fine corsa.

lunedì 11 aprile 2011

Van Der Graaf Generator - Live in Carisport, Cesena, 09-04-2011












Tornano, a distanza di due anni, i nostri giovanissimi over-60 preferiti per una manciata di date a largo raggio nello stivale, a dimostrazione che la fede nel generatore non muore mai nello zoccolo duro della base sostenitrice.











Ed inoltre, a dimostrazione che la reunion che si tenne 6 anni fa non è stato puro revivalismo ma una reale esigenza di tornare a fare qualcosa insieme, rinsaldato ancor di più dopo l'abbandono di Jackson che evidentemente non era dello stesso avviso.
Ciò che stupisce (anche no, chè la professionalità è indiscutibile, ma piace comunque stupirsi delle emozioni forti) è lo stato di forma strepitoso di cui i tre si fregiano. Hammill, una forza della natura, non lesina nè acuti nè rampanti saliscendi che l'hanno reso uno dei più grandi cantanti di sempre. Evans e Banton, da fuoriclasse inamovibili, siedono tranquilli e beati senza fare una piega.










Evans tiene la bacchetta sinistra alla vecchia maniera dei jazzisti, ed ha il suo classico stile apocalittico, ma vellutato al contempo. Quella gran testa di Banton si destreggia con due mani (hammond e altri all'evenienza) e due piedi (i pedali bassi). E' il meno spettacolare dei tre ma a livello cerebrale è sempre il solito mago. Hammill appare molto sereno e disteso, e i suoi scatti nevrotici al piano sono sempre chiaro simbolo di una tensione mai risolta (per fortuna).
Il nuovo album, A grounding in numbers, è a mio avviso il migliore dalla reunion ad oggi. Ma è classe che non interesserà mai alle nuove generazioni, infatti fra il pubblico del Carisport dominano le teste bianche o calve, e i pochi giovanissimi sembrano essere accompagnati dai genitori...










Un po' a sorpresa, la scaletta dà moltissimo spazio a Trisector, che viene riproposto per più di metà, con: Inteference Patterns, Lifetime, All that before, Over the hill, We are not here. Dall'ultimo invece vengono eseguite Your time starts now, la meravigliosa Bunsho, Snake oil, Medusa, Mr. Sands, All over the place.
Dal passato remoto, nel set principale, si materializza la controversa Meurglys III da World Record, ed è il bis a far felici i più nostalgici con le epocali Man Erg e Scorched Earth.









Dopo un ora e mezza, fra gli applausi scroscianti del pubblico festante ed illuminato, il cult-trio saluta sorridente e se ne va, con Hammill che allegro e scherzoso accenna ad un balletto di esultanza.
E noi ce ne andiamo a casa, emozionati.




venerdì 8 aprile 2011

Port-Royal - Flares (2005)

Dignitoso quartetto genovese che, forse per primo con una certa rilevanza nello stivale, ha saputo assimilare e riproporre certe tendenze del post-ambient-elettronico. Flares, il debutto, è un concentrato etereo di atmosfere soffuse e vaporose, che richiama tante cose ma che sa catalizzare l'ascolto e cullare su soundscapes a temperatura medio-bassa.
Certo, non si tratta di una rivoluzione copernicana. Partono dalle derive più morbide degli Slowdive, passano attraverso i Mogwai più pastorali, richiamano epicamente persino alcune intuizioni strumentali degli Arab Strap.
Ci vuole qualche ascolto per entrare nell'ottica di Flares, che senza tanti scossoni si dirige a ritmi lentissimi verso una meta paradisiaca, un eden spiritato, un elegia dei sensi.
La simpatia ovviamente è riservata in quanto connazionali, ma sui generis direi che siamo abbondantemente in seconda fascia, a metà classifica.

giovedì 7 aprile 2011

God Is An Astronaut - Live in Bronson 06/04/2011











Diciamo che sono stati un gruppo molto interessante grossomodo fino al 2007, dopodichè il mezzo passo falso di Far from refuge è stata una triste ed arrendevole bandierina di fine. I primi due dischi continuo ad apprezzarli parecchio, con quel sound spacey che li faceva sembrare una versione post-rock strumentale dei Cure, grossomodo fase Wish. Ma non solo, i GIAA ci mettevano anche qualche bell'effetto di studio che rendeva il sound abbastanza peculiare, oltre a qualche ottima composizione.
Diciamo che gli ultimi due dischi purtroppo sono stati mezzi disastri, in un percorso che ha dell'inconsueto rispetto alla consuetudine che spesso le band relativamente giovani hanno, cioè indurire l'attitudine fino ad avere parvenze quasi metal.
Per cui mi sono recato a vedere gli irlandesi con un pizzico di sfiducia, ma anche nella speranza di un considerevole recupero dagli esordi, e per la curiosità di sentire se sarebbero stati in grado di replicare il suono di studio sul palco (fra l'altro, sugli effetti ambientali, ci sono riusciti con lo stratagemma delle basi, quindi barando un po'...). Niente da fare, per me delusione palpabile.
Ci sono un paio di novità nella formazione: al posto del vecchio batterista Hanney siede un ragazzo che, mi pare di capire dalle parole di Torsten Kinsella, è al suo primo concerto. Il suo drumming, seppur impeccabile, appare decisamente pestato e caciarone mentre invece il classico degli irlandesi è sempre stato caratterizzato da colpi leggeri e mai invadenti, che fossero elettronici o umani.
Alle tastiere c'è un nuovo innesto, Dean, funzionale al contesto. I fratelli Kinsella tengono il palco, gasati e convinti. Ma il materiale recente è davvero scadente, e mostra la corda fin dai primi pezzi. Innanzitutto la band mostra impietosa i propri limiti di struttura delle composizioni, in quanto legati sempre allo stesso schema di apertura ambient-elettronica, strofe altamente melodiche, esplosione centrale, ripresa della strofa, eventuali ripetizioni e finali troncati a metà.
Come se non bastasse, i 4 spingono il pedale della grinta oltre l'inverosimile, e se non ci fossero stati 5-6 salvagente dai primi due album si sarebbe potuto definire un concerto metal, condito peraltro dai loro gesti cornuti (sicuramente ironici, ma amaramente consoni al contesto).
Per me sono cotti e finiti.

martedì 5 aprile 2011

Feedtime - Feedtime (1985)


(scritto da G.C.)
Gli australiani feedtime hanno il pregio, sul finire degli anni Ottanta, di aver riportato il rock ‘n’ roll alle sue forme strutturali elementali.
Come nell’affinazione dell’oro i vari scarti di lavorazione vengono trattati per riottenere il metallo nella sua purezza, così il power trio di Sidney ricetta cascami di voodoobilly, noise, blues e garage-punk e li precipita in decine di brucianti episodi sonori di intatto splendore.
Nel monumentale esordio i Nostri (Tom, Al e Rick, batteria, basso, chitarra - niente cognomi) rivelano da subito la loro potente alchimia che smantella decenni di scorie, compromessi, trucchi ed artifici. Si riparte dal grado zero: inizio e chiusura del cerchio sono due classici gemelli, Ha ha e I wanna ride, in cui le percussioni basiche, il gloglottìo del basso, la sei corde catarrosa e un frontman abrasivo organizzano un muro di suono inaudito sin dai tempi degli MC5 (Mandead, Southside Johnny); anche quando sembrano rallentare (All down, Doesn’t time fly) in realtà la potenza resta sottesa e minacciosa.
Il successivo Shovel li riconferma ad altissimo livello: assieme a tirate supersoniche (Mother, More than love, Nice, Shoeshine shuffle) trovano posto episodi meno frenetici (Fractured, Rock ‘n’ roll, Baby baby) e persino, in Curtains, il suono d’un sassofono. Dopo un album di cover, Cooper S, in cui terremotano Rolling Stones, Ramones, Slade, esce l’ennesima sfuriata, Suction. Defezioni e riunioni partoriscono, sette anni più tardi, Billy, non indegno della vecchia gloria. Ancora attivi in concerto non hanno però registrato più nulla, dimostrando, anche qui, un’ammirevole essenzialità.
Di loro resta questa manciata di reperti, schegge di pietra lavica ripulite dalla canicola dei deserti australiani.

Porn Orchard - Name your regions (1993)

Power-trio di Athens, Georgia, che nei primi anni '90 incise due dischi con la C/Z, allora un etichetta molto in voga di Seattle che alternava al grunge imperante ogni gamma di indie-alternative, promuovendo fra l'altro i primi passi di gente come i Built To Spill ed Engine Kid.
La tecnica strumentale di padronanza finì per essere un arma a doppio taglio per i PO: rimasticando hard-rock, funk nevrotico e hardcore, non arrivarono al punto focale di un invenzione personale. L'elemento in vista era il bassista Hafer (anche vocalist), molto bravo e dal suono penetrante, in buona compattezza col batterista Mixon. Meno efficace il chitarrista Pernice, forse anche penalizzato da una produzione piuttosto compressa, con pochissimi toni alti.
L'opening di Savage imprint è un buon punto, febbrile e sincopato. Echi blacksabbathiani rimbombano dalle lente martellate di Need to bleed e Robot love liar machine, mentre restano privilegiati i ritmi medio-alti, che a lungo andare però rappresentano anche il punto debole (ripetitività, scarsa varietà di soluzioni) di una buona metà del disco. Una citazione per il breve break pastorale di Plump whore, uno spunto su cui si sarebbe dovuto spingere.
In mezzo al tutto, però, c'era uno shock rabbrividente, la title-track, che non aveva nulla a che vedere col resto: un collage orrorifico ed allucinante a basi di archi scurissimi e recitati da thriller sanguinario. Allucinante e bellissimo.
La breve esistenza dei PO si concluse qui, in modo molto anonimo, così come quella di Hafer che qualche anno fa si è tolto la vita.

lunedì 4 aprile 2011

Pontiak - Sea Voids (2009)

Davvero difficile per me scegliere un disco su cui appuntare impressioni, da parte degli ormai ben consolidati (nell'underground, come si diceva una volta...) Carney bros. Sarebbe stato abbastanza ovvio pescare fra i due colossi Maker e Living, ma in realtà ho ripiegato su questo episodio che soltanto superficialmente potrebbe essere definito interlocutorio.
Sea Voids non è nè un album, nè un EP. Dura 30 minuti ed è esaltante come praticamente tutte le uscite. Se non altro, c'è quello che ritengo essere il loro capolavoro, World Wide Prince. Un mantra ipnotico ad onde modulari, dai bassi stordenti di Jennings, che a più riprese sembra annunciare un esplosione che non arriva mai. Soltanto nella fase centrale c'è un breve, spacey e solenne assolo di Van, e alla fine l'ispessimento del volume porta ad una mega-rullata di Lain che suggella il tutto.
A parte questo, è comunque un'altra fase di ricerca. Allo stesso modo degli amici e compagni di scuderia Arbouretum (davvero splendido il nuovo), è uno scandagliare stili vecchi come il cucco e metterci il fatto proprio, una cifra stilistica che finisce per diventare una dote personale, unica e quasi inconfondibile.
Il rombo rintronante di One ton one kilo, la muraglia solenne di Shot in the alarm, la letargia sospetta di Feeding, evidenziano anche una voglia di giocare coi ritmi (e forse Lain è il vero protagonista del disco, in questo senso). Dopo un paio di passabili episodi acustici, il gran finale è dedicato al folle deragliamento cosmico della title-track, con Van in grande evidenza.
Dopo averli visti live un anno fa, la mia stima per loro non ha fatto altro che crescere.

domenica 3 aprile 2011

Plagal Grind - Plagal Grind (1990)

Una specie di supergruppo da quella anomalia che era la Nuova Zelanda degli anni 80, ricca di peculiari agitatori come le due menti del progetto, ovvero il cantautore Galbraith e il grande Peter Jefferies, in veste di batterista, integrati da Mitchell e Muir.
Non sono un conoscitore di Galbraith (mi perderò qualcosa di importante??), ma le premesse di PG, unico parto nella breve vita del progetto, erano interessanti. Un sound fortemente elettrico che è intriso di sydbarrettianesimo fino al midollo, specie nel cantato. Selve intricate di chitarre psichedeliche, songwriting spezzato fatto di stop improvvisi e deliqui sballati (Yes jazz cactus), psicodrammi (Marquesite Lace), ma che contiene anche la mano pesante di Jefferies nell'esperimento di Midnight blue vision. Ottimo il risultato quando presumo che i partner siano riusciti a fondersi (l'ottima progressione di Receivorship, la cavalcata psycho-wave di Blackout).L'unico neo è l'eccessiva bassa fedeltà della registrazione, davvero povera.

Placebo - Placebo (1996)

C'è un lato positivo che attribuisco loro, da quando sono ultra-famosi, ovvero: sono stati una ventata d'aria fresca durante la mia costrizione ad estenuanti ascolti a base di radio FM commerciali. In mezzo alle quintalate di orrori sonori che mi toccava ascoltare, quando capitavano i Placebo c'era un po' di sollievo per le mie orecchie.
Ma se li prendo a parte, non c'è molto da salvare. Quando esordirono, fecero sensazione per via dell'immagine sessuale di Molko, e sembravano una band alquanto costruita dalla solita major alla ricerca di qualcosa da gettare in pasto al pubblico alternativo. Forse nessuno all'epoca avrebbe immaginato una sopravvivenza così duratura, eppure ce l'hanno fatta.
Comunque, il primo album non è tutto da buttare via. C'è una metà della scaletta che è anche valida, in parte sul lato aggressivo (Bruise Pristine, 36° Degrees) ma soprattutto su quello più tranquillo (I Know, Lady of the flowers, la prima parte di Swallow), dando l'impressione di un onesto songwriting, seppur derivativo di tante, tantissime cose del passato.
Altrove, si scadeva su un manierismo brit-pop che generava scarti dei Manic Street Preachers. Sempre meglio che le quintalate di orrori FM, anyway...

venerdì 1 aprile 2011

Pixies - Surfer Rosa (1988)

Impossibile resistere al contagiosissimo power-pop dei Pixies.
Erano veramente anni che non li ascoltavo ed oggi, alle prese con il loro momento più alto, non sono riuscito a staccarmici. Surfer Rosa è un concentrato di tutte le migliori qualità che distillarono nel corso della loro bruciante, breve esistenza. La produzione incisiva di Steve Albini, le più ispirate composizioni di Francis ed una presenza costante della Deal alla voce.
Cosa dire di Break my body, River Euphrates, Broken Face, Where is my mind, soltanto per citare i pezzi più memorabili? L'essenza dei Pixies: stralunati, baldanzosi, a volte deraglianti, ma sempre alla ricerca della ricetta pop impareggiabile.
E di Gigantic, unico contributo della Deal alla scrittura? Come disse anche il caro Cobain: avrei voluto che le fosse permesso un contributo più attivo. Conclusione che mi trova d'accordo, ma si era nella dittatura di Black Ciccio Francis, e non c'era spazio. C'era da tratteggiare il trademark con la solita testardaggine: c'era da imporre i suoi classici scarti ritmici, a mio avviso la trovata più geniale per rendere il Pixies-sound tutt'altro che banale.
Immortale, ruvido pop-core.