Power-trio di Athens, Georgia, che nei primi anni '90 incise due dischi con la C/Z, allora un etichetta molto in voga di Seattle che alternava al grunge imperante ogni gamma di indie-alternative, promuovendo fra l'altro i primi passi di gente come i Built To Spill ed Engine Kid.
La tecnica strumentale di padronanza finì per essere un arma a doppio taglio per i PO: rimasticando hard-rock, funk nevrotico e hardcore, non arrivarono al punto focale di un invenzione personale. L'elemento in vista era il bassista Hafer (anche vocalist), molto bravo e dal suono penetrante, in buona compattezza col batterista Mixon. Meno efficace il chitarrista Pernice, forse anche penalizzato da una produzione piuttosto compressa, con pochissimi toni alti.
L'opening di Savage imprint è un buon punto, febbrile e sincopato. Echi blacksabbathiani rimbombano dalle lente martellate di Need to bleed e Robot love liar machine, mentre restano privilegiati i ritmi medio-alti, che a lungo andare però rappresentano anche il punto debole (ripetitività, scarsa varietà di soluzioni) di una buona metà del disco. Una citazione per il breve break pastorale di Plump whore, uno spunto su cui si sarebbe dovuto spingere.
In mezzo al tutto, però, c'era uno shock rabbrividente, la title-track, che non aveva nulla a che vedere col resto: un collage orrorifico ed allucinante a basi di archi scurissimi e recitati da thriller sanguinario. Allucinante e bellissimo.
La breve esistenza dei PO si concluse qui, in modo molto anonimo, così come quella di Hafer che qualche anno fa si è tolto la vita.
La tecnica strumentale di padronanza finì per essere un arma a doppio taglio per i PO: rimasticando hard-rock, funk nevrotico e hardcore, non arrivarono al punto focale di un invenzione personale. L'elemento in vista era il bassista Hafer (anche vocalist), molto bravo e dal suono penetrante, in buona compattezza col batterista Mixon. Meno efficace il chitarrista Pernice, forse anche penalizzato da una produzione piuttosto compressa, con pochissimi toni alti.
L'opening di Savage imprint è un buon punto, febbrile e sincopato. Echi blacksabbathiani rimbombano dalle lente martellate di Need to bleed e Robot love liar machine, mentre restano privilegiati i ritmi medio-alti, che a lungo andare però rappresentano anche il punto debole (ripetitività, scarsa varietà di soluzioni) di una buona metà del disco. Una citazione per il breve break pastorale di Plump whore, uno spunto su cui si sarebbe dovuto spingere.
In mezzo al tutto, però, c'era uno shock rabbrividente, la title-track, che non aveva nulla a che vedere col resto: un collage orrorifico ed allucinante a basi di archi scurissimi e recitati da thriller sanguinario. Allucinante e bellissimo.
La breve esistenza dei PO si concluse qui, in modo molto anonimo, così come quella di Hafer che qualche anno fa si è tolto la vita.
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