giovedì 27 ottobre 2011

Aburadako - 1996 (Fish)

Dopo il disco della tartaruga Hasegawa decise di fare un break lunghissimo per riflettere sul rischio che gli Aburadako si standardizzassero, ed infatti passarono ben 7 anni prima del disco del pesce (o del pescatore, a seconda dei punti di vista, l'immagine di copertina è un primo piano di entrambi).
Ed i cambiamenti erano più che tangibili: al posto del suono impeccabile e professionale del precedente, 1996 vedeva il mirabolante quartetto di Hasegawa alle prese con impronte ben più abrasive, in particolare quella possente e fuzzata del basso di Komachi. Per quanto riguarda le spericolate e maniacali architetture sonore, si era sempre di fronte ad uno scenario dell'assurdo e dell'impossibile, chè neanche l'abusata definizione math-rock può rendere lontanamente l'idea. Uno perchè l'urlo rantolante di Hasegawa restava sempre il delirio più assoluto, due perchè le sciabolate del chitarrista Izumi fuggivano qualsiasi stereotipo.
Anzi, a far quasi auto-ironia, c'era qualche frangente in cui si sfiorava un jazz-punk radioattivo (Oo mai goddo, probabilmente il picco del lotto, oppure le dissonanti Sakusou e Soui), oppure una mutazione genetica di blues-rock (Keitchitsu, davvero peculiare in quanto Hasegawa prova persino a modulare un canto, con esiti esilaranti). Quasi inutile aggiungere che la sezione ritmica fa scintille e faville.
Anche gli episodi meno incompromissori (Guriin pakin, Tappingu peesuto) si fanno apprezzare come lievi boccate d'ossigeno nella selva più intricata di queste fenomenali acrobazie.
Ripeto fino alla noia, un gruppo eccezionalmente unico.

mercoledì 26 ottobre 2011

A Storm of Light - And We Wept the Black Ocean Within (2008)

Uno scarto musicale mica da ridere per uno dei fondatori dei Red Sparowes, il chitarrista Josh Graham, che dopo aver presenziato su due delle più importanti pagine dell'epic-instru anni '00 si lanciava in una nuova, pesante avventura.
Il trio degli A Storm Of Light segna un ritorno alle origini dal punto di vista dei chitarroni per Graham, parte integrante dello staff Neurosis anche se non musicalmente coinvolto. I passaggi più violenti devono molto all'iconica istituzione post-metal, anche a livello vocale, ma la lentezza asfittica con cui si srotolano queste lunghe composizioni trae spunto ovviamente dal doom.
Non mancano anche richiami agli Isis (la suggestiva Leaden tide). Nel complesso il disco risente un po' del chilometraggio eccessivo, si sarebbe potuto sfrondare un po' le durate e l'effetto apocalittico non sarebbe stato inficiato per nulla. Non mancano comunque ottimi spunti, come la bellissima Thunderhead, l'articolata Mass, lo struggente emo-doom di Iron heart.Lo svantaggio che ne deriva anche dalle sparse critiche che ho letto, è che probabilmente è uno stile, quello degli ASOL, che non soddisfa nè i fan dei Red Sparowes nè quelli dei Neurosis.

martedì 25 ottobre 2011

A Day Called Zero - A Day Called Zero (199?)

Penso sia la prima volta che mi capiti un disco di cui non si sa l'anno di uscita. E pensare che non appartiene neanche alla preistoria, ma alla prima metà degli anni '90, in cui uscì quest'unico mini-album sulla Gravity, label specializzata in post-hardcore dell'area di San Diego.
Si sa invece chi militava nel trio in questione: Nathaniel sarebbe diventato una colonna fondante dei Black Heart Procession, qui al basso. Il batterista era Crane che sarebbe confluito nei Rocket From The Crypt, mentre resta sconosciuto il cantante/chitarrista, un certo Josh Quon.
Erano sostanzialmente due le influenze degli ADC0: gli Slint per le atmosfere abbandonanti e le ragnatele chitarristiche, e i Three Mile Pilot per la ritmica sostenuta e le tonalità autunnali del suono. Ovvio che tali confronti avrebbero fatto tremare i polsi a chiunque, e qui come risultati non ci si può avvicinare più di tanto, a tali padri putativi.
Però per gli amanti del genere ci sono 4 pezzi che si fanno apprezzare non poco, specialmente Observation of the perpetual e Pleateau, crepuscolari ed avvincenti nelle progressioni discostanti.

lunedì 24 ottobre 2011

A Broken Consort - Crow Autumn part two (2009)

Insieme a Landings, il punto più alto della ancor breve ma luminosissima carriera di Skelton, e curiosamente la parte due uscita un anno prima della parte uno.
Sotto il moniker A Broken Consort l'inglese dà aria ai suoi archi florescenti. Il caleidoscopio rinascimentale di questo episodio di una mezz'ora scarsa si compone di un tema fondante in piena soluzione minimalistica, divisa in tre parti: Mountain ash e The river vivono di stratificazioni in cui violini e violoncelli riempiono a poco a poco la stanza, incontrastati, salvo note sparse di piano che sembrano quasi volerli riportare a terra, tanta è la levitazione che ne consegue.
Il tratteggio finale, Beneath, apre porte e finestre e stempera lentamente la sinfonia fino al fade out di un singolo violoncello, lasciando via via un silenzio che è difficile rompere con altra musica a ruota.
E' la poetica del dolore che si muta in estasi.

domenica 23 ottobre 2011

90 Day Men - (It (is) It) Critical Band (2000)

Riascoltandolo ad un decennio di distanza, Critical Band alle mie orecchie conserva lo stesso livello di coinvolgimento ed eccitazione. Lo stesso effetto che concordava con orgoglio qualche mese fa in occasione del live dei Disappears il buon Brian Case, che dei 90 Day Men era chitarrista e vocalist principale, di fronte alla mia esternazione.
Art-math è l'unica definizione che potrei tentare di elaborare per definire il loro sound in due parole, in un disco imprevedibile, pieno di ostacoli, corse e ripartenze, dal tocco unico. Si era alla sublimazione della loro prima brillantissima fase, con la svolta prog-psych appena dietro l'angolo, quindi ancora spigoli vivi (From primadonna to another, Hans Lucas, Jupiter and io), Key e Lowe protagonisti assoluti della scena a fare pirotecnie (ovunque, ma citerei in particolare Dialed in, Missouri kids cuss) , raffinatezze stilistiche strategicamente piazzate (Super illuminary, Sort of is a country in love, Exploration vs. solution, baby), a confermare quanto di ottimo era già stato espresso con i precedenti 1975-77-78 e lo split con i Gogogo Airheart.
Ciò che un po' mi dispiace è vedere che la stampa non li ha valutati mai troppo bene, ma capisco che si poteva anche intravedere un pelo di quella autoindulgenza che è tipica di chi sa suonare alla grande e lo sa fin troppo bene. Poi è chiaro che sono stati dimenticati un po' da tutti all'indomani dello scioglimento, e ciò che non ho mai capito io è stato quell'accomunarli ad altri nomi che secondo me non c'entravano e che tendeva a sminuirli.
Al di là di tutto questo, Critical band per me resta un magnetico capolavoro di unicità espressiva.

giovedì 20 ottobre 2011

3/4Hadbeeneliminated - Oblivion (2010)

Un disco pauroso, che mi risulta arduo riuscire appena a descrivere per le emozioni che mi infonde. Se ci sono influenze o paragoni evidenti, sono io che non ci arrivo a sentirle.
Giungo decisamente tardi a scoprire questo virtuoso manipolo di sperimentatori che ha attirato su di sè le attenzioni persino di un etichetta statunitense in occasione del loro terzo disco nel 2007, ma non importa. Oblivion è una folgorazione di ricerca, lungo concepimento spezzato in 4 tronchi, un escursione onirica che scava nell'inconscio.
E' un lavoro in cui le lente aperture armoniche fanno da rompighiaccio per gli astrattismi sonori di Tricoli e Rocchetti, le due anime radicali. Pilia, le cui doti soprattutto timbriche ho avuto modo di verificare live con i Massimo Volume all'inizio di quest'anno, àncora a questo mondo le ambientazioni spettrali che ne conseguono, con le sue cerebrali ma lucide elucubrazioni chitarristiche, fosco e tenue.
Poi c'è il ruolo della voce (non ho trovato info finalizzate a capire di chi sia), un tremito fragile, che si aggira incerto e spaurito fra queste nebbie elettro-acustiche. La prima parte, lunga 17 minuti, è un remare indefesso in purgatori extra-sensoriali. Gioiello.
La seconda riesce a rarefarsi ancor di più. Echi cosmici in picchiata lasciano posto a manciate sparse di note di piano e all'archetto esponenziale sul contrabbasso (sempre Pilia, immagino). Mi risuona in testa la lezione filosofica di Mark Hollis; quella di non suonare mai più di una nota alla volta, e se non si è decisi, non suonare neanche quella.
Con la terza parte riprende anche il canto, un filo più deciso ma per questo sempre più traballante. La sequenza di Pilia è fatalista e sottilmente allucinata. C'entrerà il concetto alla lontana, ma mi viene in mente Starsailor. Inesolabilmente, i due grandi guastatori operano un'infernale invasione di campo. E' il caos, ma dura poco.
La 4° ed ultima parte ritrova un piccolo conforto fra le foschie droniche. E' il ritorno al punto di partenza, perchè in questi giorni ho ascoltato Oblivion a ripetizione nel tentativo di decifrarlo e di scriverci sopra due impressioni, possibilmente non insensate. Non so se ci sono riuscito, ma la voglia di ripartire per questo viaggio è sempre più pressante, ogni volta non è come quella precedente.
Onore.

martedì 18 ottobre 2011

23 Skidoo - Seven Songs (1982)

Uno dei reperti di post-wave sperimentale di maggior pregio. Seven Songs fu il debutto che nel 2008 ha ottenuto la ristampa ampliata da frattaglie sparse su singoli e compilations dell'epoca, ed era un disco schizofrenico, imprevedibile ed avventuroso.
Kundalini ne è un numero molto calzante: percussioni esotiche su ritmi elettronici, spirali sintetiche, voci marziali, rumorismi assortiti. Poi con Vegas el bandito sembrava che si svelasse la vera identità dei 23 Skidoo, grazie ad un febbrile funk bianco di gran classe, più tardi raddoppiato da Iy e completato dall'irresistibile Last words, che fu anche singolo. Qui si intravede una band sciolta e incalzante, in linea con altre realtà del tempo come A Certain Ratio e Gang Of Four, ed invece......
La vera anima dei 23S era quella dell'avanguardia, di un suono astruso, di una simbologia esoterica. L'allucinato notturno per fiati deliranti di Mary's operation, il lentissimo mostro meccanico di New Testament, l'incubo dark di Porno Base, la giungla satirica di Quiet Pillage.Oltretutto le bonus tracks non hanno proprio nulla da invidiare alla scaletta originale: la nevrosi ritimca di The Gospel Comes To New Guinea arriva a lambire terreni di psichedelia. Tearing Up The Plans forse è il loro capolavoro; inizia con una fase percussiva insistita, poi si ferma tutto in favore di un piano dissonante e di un laconico sax in sottofondo, che poi riparte pachidermico insieme alla serie di tablas e bonghi. Grezza e Geniale.
Chiudono il collage di recitati di Just like everybody e la danza africana di Gregouka, con inquietanti cori gregoriani sullo sfondo.
Difficili e scomposti, ma da recuperare.

lunedì 17 ottobre 2011

17 Pygmies - Jeddah by the sea (1984)

Una versione californiana del classico suono 4AD, con particolare attenzione verso i suoni etnici e leggere suggestioni medio-orientali. Non propriamente dei Dead Can Dance minori, chè i pigmei si concentravano su sonorità visibilmente pop come nei due primi pezzi, Words never said e Waiting to arrive, mutuati dall'organ-rock dei sixties (con una debolissima voce maschile, ma la seconda poi curiosamente anticipa certe arie degli American Analog Set). E' comunque un disco dispersivo che ha il difetto di essere invecchiato un po' maluccio nonostante le ottime idee dei solenni strumentali Moment in Ceylon e Jerusalem.
Nella seconda parte del disco compare anche la soave voce femminile, dall'effetto evocatico seppur stucchevole a tratti. Sono ancora gli strumentali d'atmosfera a tenere banco, come la pianistica Hollow Lands e l'elegia finale di Nocturne. Ecco, se avessero lasciato perdere le voci i 17 Pygmies avrebbero realizzato una piccola perla sotterranea del post-wave americano.

sabato 15 ottobre 2011

(R) - Under the Cables, Into the Wind (2005)

Palumbo dei Larsen alla sua prima libera uscita, con un tracciato che solo in minima parte richiama il gruppo madre, e che si concentra su coordinate minimalistico/ipnotiche.
Love song è un tema che apre e chiude, sommatoria di sibilii e sferragliate di piatti sotto uno slide di basso. Landscape #1 irradia un po' di positività, ma il continuum di organetto e simil-cornamuse alla lunga (9 minuti) annoia parecchio, così come gran parte dei 12 minuti di Ghosts are made of DNA, oscillazione dark-ambient da encefalogramma piatto, forse più una ricerca del suono che altro.
Le cose si fanno interessanti con la psichedelia minimale di Shining camels and rising anacondas, ma poi Palumbo si imbarca in un folk slabbrato e acido con I'm with you e che dire, sembra non essere propriamente il suo genere e la voce è da dimenticare.
In sostanza, ben poche idee e ancor meno conseguenti cose.

venerdì 14 ottobre 2011

(Fallen) Black Deer - Requiem (2008)











Progetto one-shot nell'ambito di una collana della Southern, la Latitudes, del valentissimo bassista Burns dei Red Sparowes insieme ad un ex-chitarrista degli stessi, Graham, da lì in poi dimissionario ed impegnato nei super-apocalittici A Storm Of Light.
Una serie che sembra la miniatura della Into the fishtank che l'olandese Konkurrent promuoveva a fine anni '90. Agli artisti viene concesso un-giorno-uno di studio per registrare qualsiasi cosa, ed obiettivamente non si potrà pretendere di scovarvi dei capolavori all'interno, vista la ristrettezza della situazione.
Comunque, i due mettono in scena un Requiem di grande impatto, ispirato ad un ipotetica rielaborazione della soundtrack di Shining (intenzione verificata da uno dei titoli con cui viene divisa la scaletta, I seek to kill my son). Una suite di 25 minuti che galleggia senza ritmo in un desolante panorama di catastrofe imminente. Le similitudini con i magici Red Sparowes non tardano a farsi sentire, specialmente in alcune linee chitarristiche o nel distintivo, pulsantissimo stile bassistico di Burns. E' comunque un punto di partenza per lo svilupparsi del tema, disturbato da elevate interferenze rumoristiche che deturpano lo sconfinato ambiente, che come detto è privo di ritmo e quindi si stacca dai trademark abituali per costruire un lavoro suggestivo.
Forse non necessariamente funzionale ad un film o ad un documentario, ma con così poco tempo a disposizione direi che non sarebbe stato lecito chiedere di più.

giovedì 13 ottobre 2011

!!! - Myth Takes (2007)

Miscela scoppiettante e danzereccia di funk, pop, elettronica spiccia e indie vigoroso per la band californiana dal nome meno googlabile in assoluto (ma basta scrivere chk chk chk o il titolo di un disco). A partire dall'irresistibile apertura della title-track, che fin da subito evidenzia un signor bassista in formazione, appare chiaro che i !!! fanno mangiare la polvere a tutto lo stuolo dei post-post-post-new-wavers del decennio zero. Persino i brani dall'intercedere più ruffiano ed accattivante possiedono una presa funky secca quanto basta e soluzioni strumentali interessanti. Un pezzo come A new name prende la lezione dei Gang Of Four e la aggiorna con intelligenza. Il tiro ritmico è così sostenuto che spesso si va a finire in una sorta di dance-rock che non appartiene nè alla disco-commerciale nè alla rave music.
Il finale è la parte più interessante, con la lunga Bend Over Beethoven, che raggiunge un fragoroso climax psichedelico e il collage deviante di Break in case of everything. Chiude una stranita ballad per piano e chitarra galattica, Infinifold.Trascinanti.

mercoledì 12 ottobre 2011

Simone Giacomini - Works 2011

E' il momento di un graditissimo update sul lavoro che l'amico Simone svolge ormai in pianta stabile in Olanda, una fresca antologia di sonorizzazioni che lui stesso definisce musica di compromesso, in quanto soggetta a particolari esigenze di copione, strutturali, etc etc.
L'ultimo anno gli ha regalato anche l'opportunità di musicare un documentario sulla famigerata Scampia, che al Documenta Film Festival di Latina si è aggiudicato il primo premio sia come prodotto che....come miglior colonna sonora!
Al di là dei presunti compromessi, rispetto alla raccolta dell'anno scorso mi sembra di udire un maggior uso dell'elettronica che si incrocia con armonie pianistiche ed archi di grande respiro. Direi camera syntetica, col surplus delle struggenti composizioni. Vortex parte con un deciso beat dispari su arie grevi, ritmo bissato nel resto soltanto dalla secca The push. Sono le tracce guidate dal piano a dominare, come la melanconica A hundred arms, la panoramica di Kalmosphere (da fare una gran invidia a Jeff Martin...), la meravigliosa Black Mirror, secondo me il top del lotto, seguita di una spanna da Android Love, nebulosa notturna infiorettata da rifrazioni chitarristiche e beat echeggianti.
Nettamente distanti dal resto il cupo drone di The rest of the world e il collage astratto di Mechanical Loneliness, squarciato da feedbacks appuntiti oltremisura.
Detto questo, chissà che qualche regista non si accorga dell'arte sopraffina di Simone, il quale sostengo meriti una maggior esposizione.

Simone Giacomini - Works 2011

martedì 11 ottobre 2011

Zu - Igneo (2002)

Imprendibili e motivo d'orgoglio nazionale al di fuori dei confini, e non solo europei. La bravura sostanziale degli Zu è sempre stata quella di ottenere il massimo possibile dalla ristretta strumentazione. Di saper svariare oltre la naturale compressione di un suono, di possedere la tecnica mostruosa che non annoia mai, di fare dischi che non sono mai uguali ascolto dopo ascolto.
Registrato da Steve Albini, Igneo è un po' il loro manifesto espressivo, fra scatti brucianti, deliqui algidi, esplosioni free sempre sotto controllo ed angoli acuti matematicamente pungenti.
Uno stile reso classico dalla sfilza di album realizzati fino all'ultimo, metallico Carboniferous. Ora che il poderoso Battaglia ha abbandonato il gruppo (giusto in tempo che io riuscissi a vederli per la mia prima volta qualche mese fa), staremo a vedere se ci saranno traumi o rinnovamenti significativi.

lunedì 10 ottobre 2011

Zoogz Rift - Nonentity (1988)

Brutto però, che si viene a conoscere un artista solo perchè è morto. Uno che fra l'altro negli anni '80 incideva su SST, e per sbarcare il lunario si era buttato nel mondo del wrestling fino a diventare vice-presidente di una federazione.
Zoogz Ciccio Rift era un mattacchione dallo stile tutto suo. Fra i 4-5 dischi che ho sentito prediligo questo per via di un paio di collages dell'assurdo da lasciare di stucco. Rispetto ai primi, in cui l'approccio ridanciano da cartone animato prevaricava le ambizioni avanguardistiche, Nonentity è anche un valido compromesso fra accessibilità e velleità demenziali.
A chi sarebbe mai venuto di riempire un terzo della scaletta con ben 3 cover tratte da Look at the fool di Tim Buckley? Un gesto folle e incomprensibile, visto anche che si trattava del disco unanimemente riconosciuto come il mediocre per eccellenza del grandissimo. Ciccio ne manteneva la radice soul-funk ma la arrugginiva con la sua voce sardonica e lo stile ruvido del gruppo di accompagnamento, che comprendeva un fisarmonicista e un poli-fiatista, spesso irresistibile alla tuba.
A fronte di pezzi da vaudeville sfrontata e caramellosa come Chromium slit negatives e When my ship rolls in, c'è un paio di minuti vorticosi ed irresistibili dello strumentale Locked out e i quasi 9 di dadaismo-blues dell'iniziale Delinquent payments. Ma sopratutto ci sono i 2 colossi di cui sopra, e anche se la firma è del leader occorre dare tutto il tributo possibile ai geniali compagni, determinanti nel risultato finale.
With my bare hands ripristinava il concetto di jam improvvisativa in un epoca in cui era decisamente fuori moda, con assoli di fuoco di Ciccio all'elettrica. Un esercizio magistrale di nonsense messo a fuoco alla perfezione.
Che viene rilanciato e iperamplificato in trionfo dai 22 minuti di The Enigmatic Embrocation Of Mrs. Compost Heap, montaggio assurdo e dissonante di marcette circensi, allucinazioni di synth, borbottii scomposti di tuba, velocizzazioni art-core, e chi più ne ha ne metta. Uno spettacolo che è sufficente a valorizzare il disco e il personaggio, anche se in chiave postuma.

domenica 9 ottobre 2011

Zanagoria - Insight Modulation (1972)

Ancora library, e della frangia più estrema e radicale.
Sotto lo pseudonimo Zanagoria si celava Giorgio Carnini, un rinomato organista di stampo strettamente classico, e Insight Modulation è un oggetto difficilmente identificabile per l'anno in cui fu realizzato (e chissà a cosa diavolo fece da sottofondo, vista l'inquietudine e la nevrosi che poteva trasmettere alle orecchie dell'ascoltatore più comune).
L'opening, Cancrizzante in ritmo, è un oscurissima scansione per suoni sordi e generatori audio random-robotici. Qualche punteggiatura di (credo) piano elettrico sembra poter dare una parvenza vaga di musicalità, ma dura molto poco. Cancrizzante in solo e Kilomb conducono verso un tunnel angosciante di spirali metalliche, drones gelidi e feedbacks siderali.
La doppietta Su 60 impulsi I e II galleggia su lenti e dissonanti interscambi di qualcosa che sembra un incrocio fra il vibrafono e il rhodes. Jazz modulations si sbizzarrisce su una pantomima meccanica di suoni androidi, ma è una breve pausa perchè si ritorna subito nell'abisso. Monotone è campana funerea in scenario lugubre, l'altra doppietta di Condensazioni si agita fra trilli casuali e drones di inaudita psichedelia astratta.
Il finale è ancor più estremista: in Frase in metallo Carnini traffica coi nastri a ruota libera, creando un ambiente allucinato fra foresta equatoriale e laboratorio atomico. Diorama e recitativo ricicla urla disumane ed emissioni animali in una palude cibernetica, roba da far tremare di paura Dario Argento.
Un disco che lascia tramortiti e che anticipa furiosamente l'industrial più brado della fine del decennio. Credo che se Stapleton l'avesse conosciuto all'epoca del primo disco di NWW l'avrebbe certamente inserito nella list dei ringraziamenti.

giovedì 6 ottobre 2011

M. Zalla - Problemi d'oggi (1973)

Ci sono musiche che appartengono al subconscio, sottofondi subliminali che molto difficilmente possono giungere alle orecchie indipendenti, slegate dal contesto. E non sto parlando di colonne sonore. E' la library music italiana.
Così mi viene in mente che tanti anni fa, quando mi capitò di vedere programmi di repertorio Rai degli anni '70, vecchi servizi, documentari e reportage in notturna, avevo notato delle musiche incredibilmente strane e misteriose. E mi ero chiesto da dove venissero fuori.
Nel numero estivo di Blow Up c'è stato uno splendido servizio curato da Mattioli che ha tracciato un percorso storico di quest'area, che è essenzialmente legata ad un manipolo di ricercatori e compositori italiani che negli anni '70 erano impiegati dal servizio pubblico televisivo per musicare questi servizi. Un lavoro fondamentalmente diverso dalla colonna sonora tradizionalmente intesa; ai suddetti venivano commissionati gli incarichi di musicare questi programmi ed erano liberi di sperimentare al 100%, senza censure nè filtri. Spinto dalla curiosità, sono andato a cercarmi i dischi più consigliati ed ho scoperto qualcosa di eccitante ed inedito, nonostante si parli di 40 anni fa.
Robe belle ed oscure, da stare in piedi da sole e in certi casi anche terribilmente avanti. Anche un paio di star delle soundtracks si applicarono al servizio, come Morricone ed Umiliani. Proprio quest'ultimo, sotto pseudonimo forse per motivi contrattuali, realizzò una manciata di dischi di library nella prima metà della decade. Problemi d'oggi presumo fosse legato ad un documentario a sfondo sociale, intuibile anche a scorrere i titoli delle tracce, immagino dedicati ai diversi paragrafi. Ed è un lavoro molto percussivo ed elettronico.
Ad ascoltare il primo, Produzione, c'è già da restare sorpresi: 3 minuti e mezzo di proto-techno-trance con percussioni tribali, cassa pompante e girandole di synth, in anticipo di 15 anni sui primi inglesi che esportarono la fiorente scena rave! Ma scorrendo in avanti le gemme si susseguono: la psichedelia lunare di Attività e il suo proseguimento Attività #2, per tamburi rombanti e stantuffi elettronici. L'harpsicord inquietante su base martellante di Problemi sociali, il loop delirante di flautino e i trilli sintetici di Abbandono dei campi, i rintocchi minacciosi di Mafia oggi, Cuore e raffiche e Pendolo ed angoscia, il power-electronic ante-litteram di L'ultima raffica.Andava molto bene anche quando Umiliani si tratteneva in aree musicali, come nell'incalzante funk minimale di Non mollare, nel teatrino sarcastico di Azione sindacale o nel jazz congelato di Conflitti.
Non c'è che dire, una branca che merita un buon approfondimento.

mercoledì 5 ottobre 2011

Yume Bitsu - Yume Bitsu (1999)

Vero autentico festival delle chitarre luccicanti, per questo mix fra psichedelia onirica e shoe-gaze parossistico. Erano un quartetto senza basso di Portland, e andavano a caccia di voli pindarici.
Disco lungo e dilatatissimo, l'omonimo indugiava in temi di sicuro fascino quando c'era uno straccio di forma canzone e qualche strofa cantata (I wait for you con la sua bella melodia circolare e Truth con un crescendo irrefrenabile di frequenze). Surface I e II erano l'archetipo del loro ambient-rock galattico, con il synth in primo piano, il tema arioso di Team Yume un incrocio fra Mogwai e Slowdive.
Si puntava tutto sulle atmosfere e si lavorava ossessivamente sulle timbriche, con valide varietà assortite. Solo nella finale The Frigid, Frigid, Frigid Body affiorava un certo manierismo, di certo dovuto alla lunghezza spropositata (18 minuti, la metà sarebbe stata più che sufficente).
Una durata inferiore e la conseguente maggior concentrazione avrebbe fatto molto bene al disco, che comunque resta un sottofondo molto piacevole.

martedì 4 ottobre 2011

Richard Youngs - The naive shaman (2005)

Artista inglese che da oltre vent'anni propone un miscuglio abbastanza personale di folk, psichedelia e minimalismo. Nel momento in cui veniva osannato da Blow Up ho cercato di ascoltare qualcosa ma la sua terribile prolificità mi ha spaventato e allora mi sono avvicinato a quello di cui si parlava meglio, ovvero questo The naive shaman.Ora è chiaro che dovrei riprovare con altro, ma sinceramente quando il primo approccio non va tanto bene tendo a diffidare, specialmente se è indicato come uno dei migliori. Il problema di questo disco è che, nonostante le sonorità alquanto interessanti, è di una noia scoraggiante. Trattasi di 5 lunghe tracce ipnotiche per droni, chitarre manipolate e litanie vocali in soluzione di continuità. Già la voce di Youngs non è esattamente di quelle memorabili, e le melodie non sono sufficentemente affascinanti per farsi ricordare nonostante il martello minimale.
Evidentemente devo aver sbagliato titolo, e mi occorrerebbe una dritta differente.

lunedì 3 ottobre 2011

Neil Young - Dead Man Soundtrack (1996)

Subito dopo il monumentale Arc, questa colonna sonora è stato uno dei momenti più alienati della carriera di Young, durante la sua seconda giovinezza nei '90. La generazione grunge gli rendeva tributo e lui, ringalluzzito, sfornava fra i suoi lavori più indimenticabili dopo una decade piuttosto fiacca, quella degli '80.
Un progetto veramente atipico, quello di musicare Dead Man. Armato della sua gloriosissima e sporca Les Paul, chiuso in una stanza a visionare le parti editate del film, ispirato e libero proprio perchè non vincolato alla forma canzone classica. Ci sono 5 movimenti per chitarra e uno breve per organo, inframezzati da lunghe parti recitate, prelevate a forza dal film. Basta semplicemente togliere queste ultime dalla scaletta e ne esce un capolavoro per lente saturazioni, arie sommesse e feedback relativamente controllati. Non serviva modificare l'approccio e Young se ne rese conto facilmente; il movimento più significativo è Guitar Solo #5, un quarto d'ora maestoso dell'arte younghiana, così semplice e lineare eppure unica ed inconfondibile.