lunedì 29 giugno 2020

Sisters Of Mercy ‎– Floodland (1987)

Quando sembrava che i SOM potessero spaccare le classifiche, dopo un debutto lungo di buon successo, Eldritch dovette fare i conti col suo caratteraccio. Hussey e Adams lo piantarono in asso per andare a fare i Mission, così si ritrovò a preparare un album di fatto solista. Patricia Morrison, una ex-Gun Club, figurava nella line up ma pare non abbia suonato neanche una nota di basso. Floodland ha pertanto una peculiarità; sembra suonato ma in larghissima parte è digitale.
Un disco controverso, portato all'eccesso, che passa da estremi ad estremi. La concessione al ballabile marziale, ammiccante alla melodia, dell'opening Dominion / Mother Russia, non prometteva per niente bene. Flood I, dall'incedere lugubre e minaccioso, segnava il tratto solenne e piuttosto enfatico, facendo pensare che le chitarre fossero scomparse. Ma a partire da Lucretia My Reflection torna la magia nera di Eldritch, la pregnanza di pathos proiettata in un cielo notturno. E il lied pianistico 1959 lo metteva in mostra in un inedita veste di dark-crooning struggente e melanconico.
This Corrosion, 11 minuti supersonici per corali ed orchestra, in teoria doveva essere il super-hit ma era pur sempre il 1987 e non era al grandissimo pubblico che Eldritch puntava. Flood II e Driven like the snow confermano la tendenza maggiore del disco, ovvero di una glacialità ed una compostezza generale che segnava un profondo cambiamento rispetto agli inizi: il songwriting restava alto, gli arrangiamenti perdevano qualcosa ma Eldritch guadagnava in status. Il gorgo finale di Never Land (A Fragment), di un celestiale che più nero non si poteva, ne era il degno suggello.

sabato 27 giugno 2020

Black Heart Procession ‎– The Waiter Chapters I-VIII (2017)

Interpellato sullo stato dell'entità BHP, Pall Jenkins ha dichiarato che è piuttosto arduo definirlo in quanto Tobias Nathaniel da tempo vive a Belgrado, mentre lui è rimasto a San Diego. Fermi discograficamente dal 2009, i due hanno reincrociato gli strumenti per un paio di tour europei gli anni scorsi, ma ad oggi sembra improbabile un ritorno, almeno per adesso.
Tempo di retrospettive quindi, a partire dalla ristampa di 1 per il ventennale. The Waiter Chapters invece ebbe origine nel 2008 come limited tour only cdr, ed aveva la peculiarità di contenere gli episodi inediti #6 e #7. Quasi 10 anni dopo è stato il momento della ristampa in vinile con l'aggiunta dell'#8, come a chiudere una serie. La saga del cameriere ebbe svolgimento lungo i primi 5 album di BHP, e quando venne pubblicato Six non soltanto non ero a conoscenza della prima edizione della raccolta, ma in fondo non mi posi la questione per la quale era assente.
Il lato più dimesso, solenne e abbandonato a sè stesso di Jenkins e Nathaniel ha avuto nei Chapters uno degli output più noir nonchè memorabili. Il fatto che siano anagraficamente distaccati non impedische che l'antologia abbia una coesione mirabile. I tre inediti, immagino outtakes di The Spell e Six non aggiungono nè tolgono nulla alla storia. Ma l'occasione di riascoltare le prime 4 puntate è di quelle speciali e riporta a dolci ricordi di 20 anni fa.

giovedì 25 giugno 2020

Screams From The List #96 - Cupol ‎– Like This For Ages (1980) + B.C. Gilbert / G. Lewis 3R4 (1980) + Ends with the sea (1981)

Per niente facile orientarsi nell'universo Wire post-154. Se Newman andò abbastanza banalmente a suo nome, Lewis e Gilbert diedero la stura ad un fiume inarrestabile di musica per almeno 4/5 anni, pubblicando con ogni probabilità tutto ciò che registrarono. Sulla seconda puntata della List finirono così per ben due volte; dell'essenziale progetto Dome ho già scritto con entusiasmo, ed era una faccenda autoprodotta. Al contempo la 4AD li mise sotto contratto e nell'estate 1980 fecero uscire un mini, Like This For Ages, a nome Cupol. La title track, un flusso di coscienza diretto erede degli incubi angosciosi di 154. Furono i 20 minuti di Kluba Cupol a gettare la maschera: L&G si erano dati all'avanguardia pura, con un monolite altamente percussivo, fra industriale ed etnico, che di musicale ormai non aveva più nulla.
Fu con questo mini-shock che guadagnarono l'ingresso nella List. In autunno tornarono con l'LP 3R4, ma il monicker Cupol era già stato abbandonato in favore dei semplici nomi personali. L'impatto percussivo è svanito a discapito di un'ambient foschissima, nebbiosa, minimalista.
Nell'aprile 1981 tornano con un 7", Ends with the sea. Torna una vaga forma di struttura armonica, con delle chitarre, un canto vero e proprio, seppur sempre immerso in un contesto alieno.
Per Ivo l'esperimento fu sufficiente e non ci fu proseguimento nella collaborazione; sicuramente le vendite furono scarsine e le parti si salutarono. Nel 1988 la label comunque raggruppò tutti e tre i vinili in un cd antologico a nome 8 Time, che quindi divenne il prodotto più indicato a finire sulla list, perchè sicuramente più reperibile. Preso nel suo complesso, suona quindi piuttosto eterogeneo, ma meno datato di altre sperimentazioni coeve.

martedì 23 giugno 2020

Siouxsie And The Banshees ‎– Hyaena (1984)

Nello stesso anno in cui dava alle stampe The Top, uno dei lavori più eterogenei e controversi dell'intera saga Cure, Robert Smith campeggiava in bella vista con la sua cofana nel quadrilatero S&TB, non più in veste di guest ma di effettivo, e co-autore di tutti i pezzi di Hyaena. E dava un gran bel contributo ad una band che iniziava a sentire un po' troppo la pressione della Geffen e sfoderava l'ultimo colpo di reni prima di un decadimento inesorabile.
In gran parte Hyaena è il risultato di una maturazione che aveva portato ad una consapevolezza: non andare oltre i propri limiti, ma dato che nella vena migliore ormai era stato dato quasi tutto, provare a fare qualcosina di stravagante e inatteso. Dazzle è un opening abbastanza canonico ma l'intera sezione di archi ad ispessire già dava il senso di barocchismo di lì a venire. Take me back, col suo organo saltellante e gli impasti vocali virtuosi è un divertentissimo divertissment. Il centro pieno è la pianistica Swimming Horses, talmente entusiastica da essere promossa come singolo (l'altro fu la beatlesiana Dear Prudence, un inspiegabile pugno in un occhio), ed oggi ancora memorabile. Al canzoniere gotico di mestiere vanno assegnate Blow the house down e l'epic Bring Me The Head Of The Preacher Man. Il buon Bobby fece il suo pregevolissimo lavoro di cesello chitarristico, arabescato come da situazione generale. Peccato che la Siouxsie non gli fece aprire bocca; quella sarebbe stata la vera innovazione.

domenica 21 giugno 2020

Matt Christensen ‎– Coma Gears (2014)

Assimilata la sorpresa con Honeymoons e indagato superficialmente sugli Zelienople, la voglia di ascoltare altro di MC non è tardata. Nel voler approfondire il discorso, però, affiorano i seguenti problemi: 1) un sassofonista jazz omonimo, anch'egli statunitense, dal quale è facile discernere vista l'area di operatività distante anni luce, ma che crea comunque sovrapposizioni 2) la relativa oscurità in cui il chitarrista naviga, dal momento che si tratta sostanzialmente di un dilettante (per dire, neanche una su Pitchfork!) 3) finchè si prende Discogs come riferimento, le uscite non sono tantissime ma se si finisce sulla sua pagina Bandcamp, la lista dei titoli è infinita.
Vale così lo stesso discorso che faccio per Aidan Baker. Un titolo a caso che mi piace e vada come vada. Sorpresa, Coma Gears è un'altro bellissimo disco, e diverso da Honeymoons. Ormai l'ho inquadrato, MC: è uno di quei soggetti che ha il suo fortissimo stile personale, che cicla e magari ricicla all'infinito le stesse idee, ma ha il tocco magico di conferire un impronta che lascia il segno. Il suo songwriting spiritato, a passo di lumaca, scazzato e deciso al tempo stesso, è qualcosa che si ama o che si odia. Coma Gears è un disco che infonde una sorta di trance a tratti desertica, e quindi dai connotati americani decisi, ma che già tradisce la fascinazione per l'ambient-rock britannico delle leggende più citate in Honeymoons in vesti più ruvide (in un paio di pezzi, Worry e Blame The World sembrerebbe quasi dei demo inediti dei Loop di Heaven's End).
Niente ritmi, un deciso uso di tastiere atmosferiche a fare da tappeto e sostenere la sua Telecaster, sopraffina ed indiscussa protagonista nel dispensare le note giuste, in sequenze e numeri. E la conferma di avere in questo impiegato nei servizi sociali (nonchè avido bevitore di caffè) uno dei migliori non-inventori degli ultimi anni.

venerdì 19 giugno 2020

The Sun And The Moon ‎– Le Soleil, La Lune (1988)

L'one-shot di Mark Burgess ed il batterista John Lever dopo lo split dei Chameleons, all'insegna di un suono più ruvido, con quasi zero synths e meno prodotto di Strange Times. I due chitarristi della situazione, più interessati a costruire walls of sound e dare più di una coloritura fine sixties, erano meno dotati dei grandi Fielding e Smithies, ma l'imprinting era ancora profondamente camaleontiano, diciamo meno sovrannaturale ma col marchio a fuoco di Burgess ben definito. La buona produzione, per essere il 1988, era in qualche modo anticipatrice di un certo suono indie-brit degli anni '90 a venire. Death of Imagination e A matter of conscience le perle da annoverare nel miglior canzoniere del mitico nasone, pregne di quel fatalismo umanissimo e solennità terrena che l'hanno reso un mito assoluto.

mercoledì 17 giugno 2020

Caudal – Ascension (2014)

Uno dei progetti collaterali più interessanti di Aidan Baker, proprio perchè divaga su aree da lui non direttamente esplorate in precedenza ma non impedisce di far emergere i tratti più talentuosi della sua sensibilità. Si tratta di un classico power-trio strumentale col bassista Sweeney ed il batterista Salazar, che pur essendo relativamente sconosciuti (e non certo giovanissimi, a giudicare dalla foto) fanno un lavoro eccellente soprattutto nei 20 minuti di Uprise, una sfuriata kraut-wave per batteria motorik, basso alla Hook e chitarra psycho-shoegaze. La personalità di Baker però esce alla grande nei 17 minuti di Slow Bow, una bomba atmosferica di indolenza e stratificazioni chitarristiche, che sviluppa magicamente stati di trance nel modo in cui (purtroppo in poche occasioni, in proporzione alla discografia un tantinello esagerata) Baker sa fare. Chiude 451S2, che riprende il martello ritmico su un tappeto timbrico ambientale, una sigla di chiusura un po' straniante ma efficace.
Disco eccellente, non certo per innovazione ma per esecuzione ed efficacia.

lunedì 15 giugno 2020

Deep Freeze Mice ‎– Saw A Ranch House Burning Last Night (1983)

Quarto album dei DFM, avvenuto in una fase delicata della storia decennale della band; la transizione attraverso l'unico cambio di line-up, col batterista fondatore Summers presente soltanto in una parte del disco e poi dipartito. A causa di questo, Jenkins & compagnia si arrangiarono usando una drum-machine gestita da tal Dawn Leeder, nelle liner notes addetta a unreal drums, percussions, spaghetti bolognese. L'ironia super-british dei Mice va sempre ricercata ma era una certezza così come il loro art-vaudeville-wave-pop, puro ed intransigente. Il battito elettronico non andava ad intaccare più di tanto il loro stile: You took the blue one, Sagittarians, Under The Cafe Table, Hitler's knees gli highlights, con un Jenkins sempre più ispirato a guidare le vignette surreali marchio di fabbrica. Ogni disco dei Mice che scopro, penso che siano stati incredibilmente sottovalutati ed ignorati, a causa anche dell'epoca in cui esistirono.
La ristampa (ovviamente autoprodotta) in cd del 2015 ha accoppiato alla track-listing ben 12 bonus-tracks di imprecisate differents sessions e di un live a Leicester del 1982, contenente quindi estratti dei primi 3 album, col ripescaggio fra l'altro delle leggendarie I met a man who spoke like an UCCA form e Peter Smith is a banana, rese con una grinta davvero notevole.

sabato 13 giugno 2020

Om – BBC Radio 1 (2019)

Ho apprezzato gli arabeschi ed i misticismi di Advaitic Songs, ma li ho ritenuti un piccolo passo indietro rispetto all'ispirazione divina di God Is Good. Passati 8 anni, speravo in un nuovo album, invece lo scorso Ottobre è uscito un live alla BBC di mezz'ora, che propone per 3/4 materiale di AS, riservando a GIG soltanto la divina Cremation Ghat.
Non molto da dire, quindi, se non una più che valida occasione per tornare all'ascolto, per far scaldare il nuovo polistrumentista Tyler Trotter (uno del giro Zak Ryles, nonchè militante nei Watter), nonchè per saggiare le acrobazie di un sempre più scatenato Emil Amos. E confidare in un ritorno in studio, chè di questi tempi abbiamo sempre più bisogno di un conforto interiore.

giovedì 11 giugno 2020

Hair & Skin Trading Company ‎– Over Valence (1994)

Lo spirito più genuinamente ipnotico degli ultimi Loop fu mantenuto in vita dagli H&STC con un trittico di albums fra il 1992 ed il 1995. Il primo fu un po' troppo raffazzonato, il terzo fu una deriva un po' troppo rumoristica; Over Valence, il mediano, il migliore. Si tratta di un lungo dispiego di psichedelia acida in 2/3 capitolati d'impostazione: l'evocazione ai limiti dello shoegaze (Go Round, On Again Off Again), la sfuriata con chitarre pesanti e ritmi frenetici, l'ambientazione desertica degna dei Loop (Take Control, Sub Surface), mixate in maniera saggia durante la track listing. Purtroppo non ebbero quasi nessun riscontro, nè di pubblico nè di critica; ma questo album va comunque ricordato come vero erede dei Loop post-mortem.

martedì 9 giugno 2020

Skaters ‎– Mountaineer Skyness Of Majestic Planes (2008)

Ovviamente la creatura non faceva parte degli Skaters, però bella l'idea (o l'occasione, dipende) di fare una foto di band con tale gradevole presenza. Se poi si pensa a ciò che facevano gli Skaters, lo fu ancora di più. Come ebbe a scrivere Valerio Mattioli in Noisers, sono stati di gran lunga i più weird, lerci e lo-fi performer della scena noise americana degli anni Zero. Ne ebbi prova ascoltando il suo disco consigliato e ne ho conferma con questo (una C46 in edizione limitata a ben 30 pezzi), citato invece da PS. Davvero poco da dire: 42 minuti di lamenti vocali incrociati, stratificati, allungati, passati sotto una poltiglia di fango sonoro dentro la quale ci vuole non poco per entrare. Nella side B le cose si evolvono grazie a qualche bongo che dà un idea di ritmo ed una maggiore movimentazione, e poi la sorpresa a 2 minuti dalla fine, con un loop di synth che in qualche modo anticipa ciò che James Ferraro porterà alle estreme conseguenze col suo (sopravvalutatissimo a mio avviso) lavoro personale. Una volta ascoltato, MSOMP mi ero promesso che non lo avrei ascoltato più. Ma poi ho capito di non averlo capito, ed allora l'ho rimesso su. E' il gusto dell'orrido, che a volte ci frega.

domenica 7 giugno 2020

Fall ‎– Live At The Witch Trials (1979)

Primo di 31 (ma Discogs ne conta 97 fra live, raccolte e miscellanee), in un anno che dire storico è riduttivo, ed i Fall erano già un entità a sè stante, con MES ancora non totalmente dittatoriale (la dipendenza dal chitarrista Bramah è tangibile e le tracce totalmente di suo pugno sono solo 2), seppur la formazione già bella cambiata rispetto ad un anno prima.
LATWT denota un influenza beefheartiana di fondo che non è possibile ignorare, depurata dal blues e filtrata attraverso la lezione del punk. Like To Blow e No Xmas For Jonh Keys sono il top, come già intuito nella micidiale quaterna coeva delle Peel Session, e Burns un eccellente batterista, il Drumbo regular della situazione. La tensione scema solo alla fine con la jam Music Scene, una jam tirata un po' troppo per le lunghe, ma l'eccellenza Fall a venire era già bella progettata.

venerdì 5 giugno 2020

Mark Kozelek & Jimmy LaValle ‎– Perils From The Sea (2013)

Una delle migliori performance di Markone degli ultimi 10/15 anni è stata questa collaborazione con Jimmy The Album Leaf Lavalle (in verità non certo uno dei miei preferiti), sfociata in questo lungo Perils From The Sea. Merito da dividere certamente con quest'ultimo, che gli ha confezionato 11 semplicissimi quadretti intimisti a base di tastiere analogiche + beat scarni; un ambientazione generale molto raccolta che ha probabilmente messo a freno la già dilagante logorrea di Markone, spingendolo a fare quello che avrebbe dovuto fare: cantare e basta, col trasporto emotivo dei giorni migliori. Un autentico exploit, che genera perle di spleen come Gustavo, Ceiling Gazing, He Always Felt Like Dancing, Somehow the wonder of life prevails. L'effetto più sorprendente è che, pur mantenendo un aurea piuttosto omogenea, il disco scorre piacevolmente nonostante la lunghezza imponente. Un exploit destinato a non esser ripetuto.

mercoledì 3 giugno 2020

XTC ‎– Skylarking (1986)

Lasciando perdere tutti quegli aspetti tecnici che hanno caratterizzato le ristampe (il famigerato discorso delle polarità invertite, che potrebbe essere preso ad esempio massimo di come non si riesca più a parlare di musica in senso stretto e si debbano trovare per forza delle stronzate del genere per riempire gli articoli), di Skylarking mi sta bene anche un volgarissimo mp3 a 192 kbps, questo è il formato in cui lo possiedo e non me ne frega niente. La produzione di Rundgren la posso apprezzare lo stesso (in primis le parti di batteria che nel 1986 non potevano avere un suono più fuori moda quanto inebriante nella sua secchezza), la forza delle sublimi e sofisticate pop-songs va da sè (Summer's cauldron, The man who sailed around his soul, Earn enough for us, The meeting place, risultato finale Partridge batte Moulding 3-1, ci può stare), la compattezza e variegatura delle atmosfere l'inevitabile conseguenza. Certamente, non tutto funziona al 100%, qualche riempitivo e qualche giro a vuoto c'è, quindi non metterò Skylarking nella lista dei migliori dischi di tutti i tempi, ma di certo lo apprezzo come ascolto estivo.

lunedì 1 giugno 2020

Parquet Courts ‎– Wide Awake! (2018)

Due anni dopo la gradevole (passatista, sia ben chiaro) rivelazione di Human Performance, i newyorkesi PC hanno saputo replicare con un altra buona dozzina di canzoni, portando il loro suono ancor più indietro nel tempo, quasi a rilanciare il guanto di sfida. La televisioniana Total Football, l'onirico sixties di Mardi Gras Beads, l'highlight Back To Earth (antichissime reminescenze Arthur Lee & Love), la title-track alla Modest Mouse più effervescenti, l'XTCiana Extinction, l'art-punk saltellante di Normalisation, gli episodi più felici di un'autentica macchina del tempo che non ha alcun ritegno nel negare il presente, rigorosamente. Forse proprio per questa purezza e durezza, i PC hanno tutta la simpatia possibile, e le loro composizioni, per quanto sembrino esser state realizzate in provetta, sono performance veramente umane.