mercoledì 29 dicembre 2010

Levitation - Need for not (1992)

Travagliatissimo quintetto inglese capeggiato da Bickers, personaggino inquieto che era stato sbattuto fuori dagli House Of Love per aver dato fuoco ad una pila di soldi...Ed in effetti il suono dei Levitation era alquanto nevrotico, lasciava poco spazio alle melodie lineari, proponeva break e piccole orchestrazioni acrobatiche che facevano ricomparire il tanto famigerato fantasma del progressive, così abiurato ai tempi....
Ciò nonostante la stampa li esaltava e le porte del successo sembravano potersi aprire. Oltretutto ricordo un'intervista a Ciccio Smith in un Rockstar del 1992, in cui li nominava come un ascolto preferito. In certi punti (il bellissimo break strumentale di World around, o lo spleen galattico di Resist) faceva capolino per l'appunto una lieve influenza Cure. Il chitarrismo arzigogolato di Bickers e il dispiegamento di tastiere didascaliche (Pieces of Mary) portavano ad alcune derive psichedeliche. Proprio quelle che, esattamente come il prog, venivano isolate quando non derise dalla stampa inglese. Occorre anche dire però che i Levitation avevano il punto di forza propulsivo in Francolini, un batterista autenticamente posseduto dal demonio, che suonava ogni rullata come se fosse stata l'ultima della sua vita.
Con tali premesse, Need for not sarebbe potuto diventare un capolavoro, ma non lo fu perchè le idee, anche quelle migliori, finiscono per amalgamarsi male e far perdere spesso il focus del lavoro. Insomma, mancò omogeneità al risultato finale e i Levitation forse avrebbero potuto rimandare il target al disco successivo, non fosse stato che nel 1993 un Bickers sempre più schizofrenico durante un concerto confessò al pubblico il suo disagio e si chiamò fuori, decretandone di fatto lo scioglimento.

martedì 28 dicembre 2010

Laughing Hyenas - You Can't Pray A Lie (1989)

Barbari, selvaggi, caotici, i LH erano la naturale reincarnazione americana dei Birthday Party all'epoca del primo noise-rock. Quindi di discendenza hardcore, quindi spogli di qualsiasi velleità barocca e/o gotica. In compenso, il vocalist Brannon era una versione grandguignolesca di Cave, dotato di un ruggito aggressivo monocorde e costante, senza quasi mai mollare la presa coi denti, e pensare che in quei pochi attimi in cui canta normalmente (Dedication to the one I love) mostrava di avere anche un bel tono. Chiaro che alla lunga finiva per essere il tratto distintivo maggiore della band, rischiando quasi di oscurare il trio che lo sosteneva che era di assoluto valore. La chitarrista Strickland proponeva un rifferama ipnotico e ultra-tagliente, la ritmica di Munroe e Kimball aveva ottima pasta da maneggiare.
Poi c'era l'elemento blues, per dirla alla Cows, newyorkesi quasi coetanei che lo presero allo stesso modo. Non voglio fare paragoni con il compianto Cpt. Beefheart, e non perchè siamo in tema di necrologio, ma perchè dopotutto qui le strutture erano inserite in un contesto compatto e con pochi scopi se non di incutere timore e sarcasmo.
Quindi, noise-blues da macelleria, che forse suona un po' limitato nella produzione troppo compressa ma fa ancora il suo bell'effetto nevrotico.

lunedì 27 dicembre 2010

Lanterna - Lanterna (1995)

Niente a che vedere con Genova, bensì Henry Frayne. Un chitarrista dell'Illinois che nei primi anni '90 provò a sfiorare il successo con i Moon Seven Times, band shoegaze che incise 3 dischi su una sussidiaria major e poi scomparve nel nulla.
Da allora Frayne ha condiviso il suo lavoro di ingegnere del suono presso una radio con il discorso Lanterna, un progetto che, pigramente, ha realizzato 5 dischi in 15 anni, con l'aiuto del batterista Gamble, anche lui ex-M7T.
Questo debutto è al 95% strumentale ed è un bellissimo viaggio. Le chitarre sono ricche di delay come da vecchio copione shoegaze, ma Frayne ostenta un gusto esplorativo davvero unico, senza mai uscire dalle righe, senza velleità sperimentali alcune, soltanto con la voglia di far rilassare la mente.
E' un disco lungo e ricco di spunti, talmente leggero che come finisce viene voglia di rimetterlo su dall'inizio. Anche perchè il primo pezzo, Silent hills, è una bellissima divagazione ethereal-morriconiana. Quando Frayne ha voglia di muoversi un po', rivisita la new-wave con le cascate elettriche e la frenesia di Turbine. Di fascino gotico si nutre la lenta 1985, Dark Spring è un volo sul canyon. End of the tunnel, Dragon season, Slides, sono soltanto fra le prime scelte in mezzo a questo prato multicolore in cui si respira aria pungente e sbarazzina, in cui ambient, un po' di elettronica, qualche svisatina blues e/o folk e tanto altro concorrono all'estrema godibilità di Lanterna. Il cui finale, Puerto de la luna, è un solo chitarristico di quelli che l'estate suoneresti sul balcone di casa, come degna sigla di buonanotte, contro i grilli e le cicale.

domenica 26 dicembre 2010

Mark Lanegan - Whiskey for the holy ghost (1993)

Il fotogramma è importante: il vocalist capellone che smette i panni di frontman elettrico e si ritira nella campagna, a catartizzare i problemi e gli eccessi. A dimostrare che Winding Sheet non era solo un una tantum, ma uno stato d'animo, una nuova veste.
Per me l'inquadratura perfetta sta in Riding the nightingale, il preferito: chitarre acustiche cristalline, motivo tenue ossessivo con una sola variazione, ed una performance vocale da brividi come solo Lanegan può fornire.
Whiskey è un compendio folk multi-umore che si adatta a qualsiasi stagione. Solo El Borracho è pienamente elettrica, un vortice quasi violento. Ma dopo si fa il vuoto col trittico memorabile di Kingdoms of rain, Carnival e la sopra-citata Riding. Come nel precedente, Johnson è il deus-ex-machina musicale che si occupa di arrangiare e suona più o meno tutto. Sunrise è un tripudio silente di organi e voci femminili, Judas Touch è la sua Needle and the damage done.Prevale il disincanto, l'ambientazione allegra e rasserenata, in netto contrasto col periodo difficile che l'uomo stava attraversando. Ancora oggi non so se preferire questo o Winding sheet, l'unica cosa certa è che dopo Lanegan non saprà più tornare a questi livelli.

Lambchop - I hope you're sitting down (1994)

Mi è sempre stato molto simpatico, Wagner, con quel cappellino col maiale o il cavallo disegnato in fronte. Non è che sia un fanatico del country, a meno che non si parli di Will Oldham ai tempi d'oro. E' che quando uscì il debutto della sua orchestra Lambchop si fece un gran parlare ovunque di questo disco che, recuperato dopo 16 anni suona ancora contrastante.
I Hope è un disco lunghissimo, talmente lungo che ci si dimentica delle sue piccole gemme incastonate lungo il percorso. Sono gli arrangiamenti certosini e raffinati a fare la sostanza, in un impianto logicamente semi-acustico, ma Wagner a tratti dimostra anche la stoffa dell'autore di razza. Because You Are the Very Air He Breathes con le sue chitarre lunatiche very very Young, Hickey con la sua atmosfera notturna e le slide a languire, Let's go bowling con il suo refrain circolare, Soaky in the pooper con i fiati a sostenere un motivo tenue e fragile.
Alla lunga si soffre dei tanti riempitivi o standard poco più che evitabili, cosa che ritengo fosse dovuta ad un auto-indulgenza che si respira più o meno ovunque.

giovedì 23 dicembre 2010

La Otracina - The Risk of Gravitation (2008)

Sembra quasi incredibile che lo space-rock, vecchio e consumato com'è, possa ancora generare mostri dalla forma smagliante e con la forza giusta.
E' il caso di questo progetto newyorkese, curiosamente guidato dal batterista/cantante Kriney, che sa essere veramente cattivo nelle sue orbite, riuscendo quasi a sorpassare per impeto anche i grandi Comets On Fire di Field recordings from the sun, seppur con uno stile sensibilmente diverso (meno compatto, si potrebbe dire).
Un power trio che ha visto parecchi cambi di formazione, anche se il bassista Sobel mantiene il posto da qualche anno. Non è chiaro se in The Risk of Gravitation ci fosse ancora l'italiano Morgia, comunque è un disco davvero impressionante per energia e grinta sprigionata. Dopo un breve frammento free-space-jazz, i La Otracina partono con la martellante Raze the sky, che si sgrana in una durissima jam dai volti multipli. Kriney svolazza su pelli e tamburi con grande competenza, si susseguono acidi assoli sia di chitarra che di basso. Lo spazio lasciato all'improvvisazione è notevole, ma le strutture sembrano comunque ben definite.
Il roboante caos di Behind the Ocular Curtain è un ammasso di iperboli elettriche dall'effetto allucinante. Un'impronta pesantamente blacksabbathiana/bluecheeriana affiora nei 10 minuti Crystal Wizards of the Cosmic Weird, anche se la fase discendente in picchiata è uno dei momenti più emotivi del disco. Fight for the night è il pezzo sicuramente meno ostico, con la sua ritmica metronomica costante che stride rispetto agli sballi terrificanti della media.
An ancient confusion chiude con un abominevole impro fatta di pulsazioni atomiche, interferenze radio e testosterone randomizzato.
Parlare di free-jazz, in queste fasi di libertà disorganizzata, mi sembra un po' eccessivo, però credo che bisogna dare ai La Otracina il merito di avere un approccio tutto proprio a quello che, come si diceva, è un genere vecchio come il cucco e praticamente impossibile da innovare.

mercoledì 22 dicembre 2010

LA Dusseldorf - LA Dusseldorf (1976)

Naturale che vengano dei dubbi.
Un anno soltanto dopo il superlativo Neu! 75, Dinger debuttava con i LA Dusseldorf, reclutando il fratello e Lempe, che già in precedenza avevano collaborato negli shows dei Neu!.
Per cui, se la carica eversiva ed innovativa di '75 mi è sempre sembrata più farina del sacco di Dinger, questo invece mi fa riflettere e non poco. Quattro brani, di cui tre molto lunghi, e pochissime idee. E manca un certo Rother, eccome se manca!
Sostanzialmente per me i LA Dusseldorf sono stata un enorme delusione. Non tanto per la relativa accessibilità delle melodie, che ci potevano anche stare, ma per la monotonia immane che pervade il disco dall'inizio alla fine. Gli arrangiamenti sono ricchi di tastiere e c'è qualche chitarra acidula, le ritmiche sono metronomiche come da copione anche se manca il classicissimo motorik, ma Dinger come cantante pop non funziona per niente e i pezzi sono estenuanti nelle loro tiritere. Non c'è più nessuna traccia della voglia di avventura dei Neu!.

lunedì 20 dicembre 2010

Kustomized - The battle for space (1995)

Quartetto dalla vita relativamente breve su Matador, fronteggiato dall'ex batterista dei Mission Of Burma, Prescot, reinventatosi come cantante / chitarrista.
Punk'n'roll screziato di wave primitiva per i Kustomized, qui al 2° disco di 3. Grezzi e ruvidi, senza dubbio pagavano un dazio notevole al gruppo madre del leader, dandone una versione però molto meno creativa, senza le sottili sperimentazioni. Qualche scoria dei primi Husker Du, se non addirittura dei Wire di Pink Flag. Man mano che il disco scorre i limiti però vengono fuori impietosamente, per fortuna che la traccia numero 7 salva il disco da un disastro: The place where people meet è un devastante treno in corsa, degno dei Killing Joke più feroci. Nel finale si cerca di divagare un po' dalla noia generale con la marcia spettrale di La geune o col violino che s'insinua nel tessuto joydivisioniano della lunga Air freshener. Ma sono solo piccoli salvagenti che non impediscono ai Kustomized di cadere nel dimenticatoio dei '90.

domenica 19 dicembre 2010

venerdì 17 dicembre 2010

King Crimson - Red (1974)

Che strana combinazione di eventi, Red. Nato da una situazione di precarietà estrema, esce quando i KC di fatto sono già sciolti. La sua realizzazione avviene con un Fripp sfiduciato e stanco, che delega come mai aveva fatto in passato. Wetton e Bruford perciò prendono in mano la baracca, Cross aveva appena abbandonato e che cosa succede? Ne consegue il disco migliore di tutta la carriera, insieme ovviamente al primo storico. Due apici lontani anni luce, e pensare che erano passati appena 5 anni e i KC (anzi, Fripp) avevano vissuto molto velocemente.
Innanzitutto, la title-track, un mostro tentacolare, un apertura shock. Un violento strumentale ricco di tempi dispari (courtesy un Bruford stratosferico) e bombardamenti chitarristici che di fatto inventa il rock matematico, che influenzerà non poco un istituzione degli anni '90 come i Don Caballero. La drammatica Fallen angel è principalmente farina del sacco di Wetton, che impone le sue eleganti linee vocali e il basso legnoso, e si fregia anche di ospiti di lusso come Charig e Miller ai fiati. Un altra intro granitica alla Red presenta One more red nightmare, che include invece il grande ex McDonald con un assolo di sax ed è forte di una struttura avvincente e progressioni armoniche da brividi. E' quasi paradossale che Fripp abbia la consapevolezza di non avere nulla da perdere, e sfodera comunque l'ennesima prova fenomenale.
Providence è un live di qualche mese prima, che quindi comprendeva anche Cross ed è avanguardia pura, una specie di free-jazz in crescendo, che disorienta e minaccia.
Il mellotron e l'enfasi cosmica dell'inizio di Starless fanno pensare ad una nuova Epitaph, con la differenza della robusta voce di Wetton, fino a quando la fase ostica non prende il sopravvento. Un'altro dei momenti topici di tutta l'opera del KC, i secondi 6 minuti del pezzo sono un escursione ossessiva per i deliqui di Fripp, la ritmica pesante ed un altro recupero, il sax del sempre impeccabile Collins.
Un finale tragico e solenne, che chiude in grandezza il circolo della prima fase. Red è un capolavoro che a quasi 40 anni dalla sua genesi appare sempre attuale e decisivo negli sviluppi futuri.

mercoledì 15 dicembre 2010

Khanate - It's Cold When Birds Fall From The Sky (Live 2005)

Doveva essere un esperienza terminale vedere i Khanate dal vivo e farsi imbarcare nella loro orrorifica moviola, con tutti gli effetti collaterali del caso.
Non so quanto pubblico assistesse a questi temibili sets, ma un dettaglio che si coglie molto bene, in corrispondenza dei numerosi silenzi, è che non si sente pressochè volare una mosca.
Questo documento magnificamente registrato (peraltro in location diverse) raccoglie 3 mastodonti registrati durante il loro ultimo tour. Due sono Capture e Release, ovvero l'EP che era la loro pubblicazione più recente, e Pieces of quiet dal primo album. Rispetto al capolavoro Things viral, l'EP si caratterizzava per una maggior durezza in Capture e in una rarefazione più organica in Release.
Ma non è che ci sia molto da descrivere in queste profonde catastrofi. Nella prima, il grido acutissimo di Dubin si fa ancora più raggelante col delay. Nella seconda, spicca la fase centrale in cui Plotkin e O'Malley incrociano le corde in una quieta (de)composizione, senza neanche il supporto di Wyksida. Il batterista, per l'appunto, è figura e perno cruciale come si può evincere dai video presenti su Youtube, è lui che fa il navigatore della macchina ultra-doom più sperimentale di sempre.
E ostica. Ma io oggi non riesco a smettere di ascoltare It's cold e di recuperare i 3 album pubblicati in vita. La grandezza dei Khanate è stata anche nel sapersi fermare al momento dello zenith artistico; non era detto che la formula potesse evolversi (anche se le outtakes pubblicate l'anno scorso su Clean hands go foul facevano intendere possibili, grandi sviluppi) e ciò che hanno prodotto sta lì a fregiarsi magnificamente.
Mortali, insuperabili.

lunedì 13 dicembre 2010

Kepone - Skin (1995)

Noise-Punk a rotta di collo per questo trio virginiano che fece tre dischi a metà nineties sulla gloriosa Quarterstick, succursale della T&G che ad un certo punto rischiava quasi di superare la casa madre come qualità media dei prodotti.
Chitarre torrenziali, ritmiche serratissime e voce che si divide fra urla feroci e cori doppiati in stile hardcore, queste le principali caratteristiche di Skin, l'album del mezzo, a mio avviso il loro migliore. Un ibrido interessante in quanto non erano abbastanza devastati da essere newyorkesi ed erano tecnicamente bravi per essere punk. La compattezza complessiva del disco è un punto di forza, ma come spesso succede sono le varianti ad attirare più curiosità, nonostante la bontà della proposta generale. La malsana Thin solution scomponeva l'omogeneità precedente con una perversione sonora impressionante. Piazzati a metà del disco, i due esperimenti (per modo di dire) aiutano a riprendere fiato. Ed's sad party è un assolo tribale di batteria, assolutamente inusuale per l'ambiente underground americano, che quando vede l'ingresso di basso e chitarra si tramuta in un wall of sound minimale quanto efferato. Idiot ball drop invece è un malinconico ed accademico solo di piano, dai clangori sotterranei che crescono di volume fino a sotterrarlo.
Nello stile più convenzionale i pezzi che convincono maggiormente restano la spettacolare Velveteen e la problematica Blue-Devil.In sostanza un discreto gruppo. Certo che però nel 1995 di grandi dischi ne uscivano e anche parecchi...

domenica 12 dicembre 2010

Tre Anni di T.M.

Un 2010 tormentatissimo per T.M.
Il 19 aprile alle 22.10 Blogger, su insistenza della stramaledetta DMCA, ha chiuso il T.M. originale. Immediatamente ho aperto il #2 con ingenuità, in quanto non immaginavo che ad una nuova infrazione mi avrebbero chiuso anche quello. Per cui ho dovuto aprire un nuovo account personale e, con tutte le precauzioni del caso, varare il #3.
Nel frattempo, scopro che molti blog che seguivo da tempo hanno subito lo stesso destino di #1 e molti links vengono cancellati senza alcuna notificazione.
Vita dura?
Macchè, il divertimento è immutato.... :-)

I 10 dischi più scaricati ad oggi
1. Kasabian - 2004 Kasabian
2. Godspeed You Black Emperor! - F#A#(Infinity) (1998)
3. Death Cab For Cutie - We Have The Facts And We're Voting Yes (2000)
4. Replacements - Tim (1985)
5. Mission Of Burma - Vs. (1982)
6. Cave In - Jupiter (2000)
7. Helios - Eingya (2006)
8. Flaming Lips - Telepathic Surgery (1988)
9. Cat Power - The Covers Record (2000)
10. Husker Du - Warehouse Songs and Stories (1987)

Keiji Haino - A challenge to fate (1995)

Questo è un artista che devo approfondire, anche se non dev'essere facile orientarsi visto che è effettivamente 30 anni che KH pubblica musica e oltretutto a valanga. Qualche anno fa approcciai questo A challenge to fate, che uscì in un momento in cui se non ricordo male veniva citato dai Sonic Youth come una specie di icona.
Occorre più di un ascolto per capirlo, almeno in questo capitolo. Tornandoci sopra con insistenza, comprendo meglio molte cose. Come altre mosche bianche giapponesi, KH è un artista a sè, un chitarrista improvvisativo. Ci sono veri e propri banzai rumorosissimi (Not beginning, The born one, You who will...) in cui le distorsioni maniacali e la vocalità schizoide incutono vero timore.
Ci sono conati orrorifici (First, Second, Third blackness) che sembrano incroci fra le urla di un lottatore di sumo, barriti di elefante e rantoli di chissà quale bestia alterata.
Il meglio di sè KH lo dà quando si tranquillizza, stacca il distorsore e va in trance. What stalking fate è un trip surreale per arpeggi inquietanti e voce estatica/angelica. My only friend, Become one hanno una serenità ancestrale, quasi da levitazione. Appena appena più marziale The curse that..., con i riverberi chitarristici a stratificarsi fino alla catarsi, un suono davvero affascinante.
Ed il finale quasi new age di Affection, col suono acuto di un triangolo (?) che scandisce un tenue coro gregoriano per circa dieci minuti. Sì, occorre approfondire con qualcos'altro.

Keiji Haino - A challenge to fate (1995)

sabato 11 dicembre 2010

Karate - Cancel / Sing EP (2002)

Concepito come esperimento di estensione temporale, Cancel/Sing è un EP di due pezzi che si sviluppano oltre i dieci minuti, in netto contrasto pertanto alla classica forma canzone su cui si erano sempre concentrati. Un paio d'anni prima Unsolved aveva cambiato totalmente le carte in tavola dei bostoniani, e dopo qualche mese dall'EP avrebbero rilanciato con Some Boots.A mio avviso, l'esperimento fu brillantemente positivo. Cancel inizia con fare ombroso e compassato, con quell'indie-jazz pulito ed ordinatissimo ed il solito Farina a svisare con maestria. Al sesto minuto però succede qualcosa di inatteso; il ritmo si fa marcia frenetica, l'ordine si sgretola lentamente, la chitarra diventa nebulosa iridescente. E' una fase mistica, una liquefazione sonora che porta magicamente il pezzo alla fine.
Sing ha una struttura simile, ma c'è una maggior tensione (e qualche reminescenza dei primi due album nel songwriting). Al decimo minuto, arriva di nuovo il trip cosmico con McCarty a svolazzare sui piatti, Farina in feedback galattico e l'effetto è ancora stupefacente. A differenza di Cancel, però, il pezzo si rianima e parte con una sfuriata degna del capolavoro In place of real insight.
Ottimo ed abbondante.

mercoledì 8 dicembre 2010

June Of 44 - Anahata (1999)

Nell'impossibilità di poter replicare il loro capolavoro dell'anno precedente, Four Great Points, e forse con le teste già altrove (chè fisicamente erano sempre stati distantissimi, così sparsi per gli Usa), i June Of 44 tentarono comunque un nuovo approccio stilistico prima di sciogliersi. Anahata vede scenari meno burrascosi che in passato, con l'impiego di chitarre quasi mai distorte e varianti sonore non da poco, come l'utilizzo frequente della tromba da parte del bassista Erskine. O come la tendenza di Scharin ad elaborare ritmiche sempre più distanti dal rock, ovvero dirette a quel world globalizzato ben impersonato nel progetto personale Him.
Anche nelle voci; il carico rauco e cupo di Mueller scompare, in favore di un recitato sgraziato (penso appannaggio di Meadows) che forse si sarebbe potuto evitare. Ma nella sostanza Anahata resta un disco non troppo focalizzato, in cui i momenti migliori sono la rilassata Cardiac Atlas, la percussività insistita di Equators to bi-polar, il dub vibrafonato di Southeast of Boston, e il quarto d'ora di Peel Away Velleity, che inizia con la tempestosità dei primi dischi, prosegue con una fase psichedelica che vede la tromba ancora protagonista e termina con una coda ambient-minimalista, a chiusura delle trasmissioni per uno dei gruppi più importanti della seconda metà dei '90.

martedì 7 dicembre 2010

Julie's Haircut - Fever in the funk house (1999)

Lungi da me essere un esterofilo a priori, ma il college-rock dei modenesi (almeno ai primi tempi come in questo caso) non mi ha mai detto un granchè. E neanche dopo quando hanno iniziato a spingere verso altri lidi meno immediati.
Ciò non toglie che Fever resti un dischetto fresco ed epidermico, ma resta anche ben poco di memorabile non appena finisce. Il problema è che l'indie-pop da cui prelevavano a piene mani era già fuori tempo massimo alla fine dei '90, e di certo la loro intenzione non era di operare una innovazione ma di divertirsi e creare jingle-jangle a presa diretta, ora più fragorosi ora più tendenti alla ballad elettrificata.
Da prendere pertanto così. Emil-college.

lunedì 6 dicembre 2010

Joy Wants Eternity - You who pretend to sleep (2007)

(2) Spuntano come funghi. Hanno nomi lunghi, evocativi e talvolta persino pomposi, etc etc....Così succede, di trovarsi nel bosco. Alla ricerca di perle nascoste in quel filone che probabilmente è stato il mio preferito dell'ultimo decennio, mi sono avventurato nella ragnatela dei similar artists che molto democraticamente gli utenti di what.cd eleggono, in questo caso specifico degli Explosions in the Sky. Ed è una pesca che statisticamente non può andare sempre bene, chè altrimenti tutto sarebbe oltremodo inflazionato. Così, per un paio di brillantissime rivelazioni (If These Trees Could Talk e You May Die In The Desert su tutte), capitano anche i meri cloni come questi JWE di Seattle, che più che dai texani mi sembrano tuffarsi a pesce nell'universo Mogwaiano senza tanto ritegno.
Pertanto, You who pretend to sleep risulta dischetto ben fatto e di gradevole ascolto per chi ama il genere, ma che alla lunga ti fa credere di essere capitato veramente in una raccolta di outtakes periodo Rock action - Happy songs for happy people, con qualche puntata neanche tanto opportuna verso il Texas tanto amato.
Passare oltre.

venerdì 3 dicembre 2010

Journey To Ixtlan - Journey To Ixtlan (2008)

Ennesimo, lampante esempio di come la psichedelia (quella vera) sia uno stato d'animo in grado di auto-riciclarsi all'infinito reinventandosi, se affidata nelle mani giuste come nel caso di questi californiani (io non ci credo che sono quelli nella foto, ma non sono riuscito a trovarne altre in rete) che sepolcrarizzano, impolverano, imbastardiscono una fusione inusitata di doom, ambient e lisergie assortite con un aureola costante di misticismo.
Più che odore di incenso e marijuana, si sente una fragranza stranissima, elaborata in chissà quale circostanza. JTI è un disco avvolgente che conquista ascolto dopo ascolto, che arrivato alla fine ogni volta mi ammanta di mistero ed incoraggia a far ripartire la tracklist per (cercare di) capirci qualcosa in più.
E dire che non ci sono artifizi di nessun genere: Pueblo è una marcia solenne scandita da bonghi e una elettrica solista sulfurea, che mi fa pensare ad un'altra mosca bianca che mi ha entusiasmato nell'ultimo anno, i Coconuts, sbalzati da NYC direttamente al deserto del confine col Messico.
Una cosa davvero atipica è il lavoro vocale, che entra in scena con il drone di organo di Spiritual delousing; una sorta di gorgoglio deforme, un growl alla moviola che sembra provenire dal sottosuolo, demoniaco! The mesa è il capolavoro del disco, davvero indefinibile, con quella sub-voce a scandire su un tappeto tranquillo di tom e deliquio chitarristico. I Blues Control ubriachi a Tijuana, per dire.
Corpse of the mesa, drone organistico da setta satanica. The cactus shrine, epica favoletta con flauto svolazzante. Pyramids of light, la versione doom dei corrieri cosmici. Dawn of the nagual, strimpellio stentoreo d'insubordinazione. Burnt coyote teeth, doom cosmico tribale dai deliri vocali incontrollati. Codex of crows, chiosa ambient da purgatorio al ballottaggio.
Un disco che ha gli stessi suoni del 1972, ma con una tale deviazione concettuale che non sarebbe potuto che uscire dal deserto californiano nel 2008. Attendo un seguito da questi folli misticisti.

mercoledì 1 dicembre 2010

Johnboy - Pistolswing (1993)

Il noise degli anni d'oro non era solo New York. Nell'assolata Austin c'era questo trio che ebbe vita molto breve (solo due album nel biennio 93-94 e poi la scomparsa), ma realizzò in particolare un esordio in grado di eguagliare gli esordi devastanti di Helmet ed Unsane in quanto ad efferatezza spietata.
Un disco apocalittico, rovinoso, una cascata continua di rumore catramato, Pistolswing. Nonostante i pezzi finiscano per assomigliarsi un po' tutti, è la loro esecuzione che toglie il fiato, un martellamento continuo che si auto-cementa grazie alle raffiche chitarristiche urticanti, le ritmiche vorticose e le vocals feroci, alla Unsane per l'appunto. Qualche maceria math-core poi rende il tutto ancora più notevole, visto che i Don Caballero esordivano quello stesso anno.
A titolo di bonus track ho inserito Bob And Cindy, il pezzo con cui contribuirono al sample della illustre Trance Syndicate I cinco anos, in quanto a mio avviso rappresenta il manifesto propositivo dei Johnboy, col suo delirio di stop & go, di stratificazioni e climax rumoristico, fino allo sfumare finale che lascia con un senso di oppressione e claustrofobia difficilmente replicabile.