domenica 27 febbraio 2011

Nurse With Wound - Homotopy to Marie (1982)

Dopo le sbornie krautedeliche dei primi due (fondamentali) album, lo scollamento patafisico di Merzbild Schwet e la collaborazione con Foetus in Insect, questo fu il primo capitolo in cui Stapleton lavorò in completa solitudine. Ed è un mirabolante, ambiziosissimo e delirante collage di surrealismo lungo oltre un'ora, che tiene col fiato sospeso per tutto il tempo. Erano passati solo tre anni dall'improvvisato debutto e l'inglese aveva maturato uno stile già inconfondibile, contrassegnato da altalene paurose fra austerità, astrattismo e irresistibile ironia (non sempre facile da cogliere, forse).
I Am Blind è un rovistare fra metalli di piccolo taglio, sibili bassi di dark-ambient e voci dall'oltretomba, salvo una brevissima incursione vocale stile karateka che fa sobbalzare dalla paura. La title-track è sostanzialmente un assolo di gong, fra recitati vocali di donne e bambini, cigolii sinistri; tutto è soppesato da pause che incutono timori di sorta.
Austral dustbin dirge segna un po' l'inizio della seconda fase del disco, che spinge molto sul cut-up. Ringhiare di cani manipolati, percussioni di ogni sorta, assorbimenti sonici, campionamenti e spirali terroristiche che continuano in The schmurz, 25 minuti di delirio inarrestabile. E' qui che si coglie il vero senso ironico di Stapleton; le citazioni non si contano e ad ogni ascolto ne affiora una che si era dimenticata nell'ascolto precedente: dialoghi femminili in spagnolo, musica classica operistica sfigurata dai larsen, micro-schegge di cartoon music, passi spettrali passi di campanelle mosse dal vento e banjos desertificati, etc etc... Assolutamente geniale.
La chiusura, The Tumultuous Upsurge, è un minuto e mezzo di cacofonia appena udibile, ma mi sembrerebbe di intuire delle grasse risate manipolate a macchina. Anche se così non fosse, me le immagino come degno finale di questo fondamentale capitolo della lunghissima carriera di questo personaggio davvero unico.

sabato 26 febbraio 2011

Nocturnal Projections - Nerve Ends in Power Lines (1981-83)

I primissimi passi dei fratelli Jefferies, pionieri in Nuova Zelanda a proporre un certo tipo di sonorità punk-wave. I NP durarono solo due anni (anche se dopo avrebbero continuato insieme nei This Kind Of Punishment) e realizzarono una manciata di singoli, il tutto raccolto in questa antologia uscita nel 1995.
Non erano per niente male, nonostante fossero molto giovani ed un filo acerbi. Peter era ancora solo un cantante ma il suo timbro nasale si faceva notare bello marcato. Graham e la sezione ritmica erano parecchio influenzati dai primi Joy Division, quelli più grezzi e venati di punk (In purgatory, Walk in straight line, Moving forward), ma verso la fine muovevano naturalmente verso un gotico greve più mutuato da Closer (Another year, You'll never know), mentre in altri episodi riuscivano a coniare qualcosa di più personale (Could be increased).Ovvio che sia una produzione minore che si perde nel mare di quegli anni, ma è interessante per i fan di Peter Jefferies udire l'artista nei suoi primi passi. Era già distinguibile dal resto.

venerdì 25 febbraio 2011

Neu! '72 Live in Dusseldorf (1996)

Col culto crescente che si sono guadagnati durante gli anni '90, poteva essere normale cercare di raschiare il fondo del barile. In realtà la pubblicazione di questo pseudo-live nacque da un lungo periodo di conflitti fra Dinger e Rother, aggravato dal fatto che in quegli anni i tre storici dischi originali erano stati ristampati dalla fantomatica Germanofon, etichetta pirata specializzata in bootleg (ed ecco perchè quando comprai Neu! 1972 non capivo perchè non ci fosse il bollino SIAE, mancassero indicazioni, ci ero caduto anch'io ma non c'erano alternative al tempo se li volevi ascoltare!). Così Dinger, in preda ad uno spirito di rappresaglia fece pubblicare dalla giapponese Captain Trip il Neu '86 e questo qui, e Rother si incazzo ancora di più.
Detto questo, occorre comunque dire che '72 Live in Dusseldorf è un episodio alquanto anomalo. Si tratta non di live, bensì di una session privata ed improvvisativa registrata dai due insieme a Eberhard Kranemann (un'altro personaggino di quelli difficilmente catalogabili, artista a tutto tondo che in seguito transiterà per breve tempo anche nei Kraftwerk, nonchè in Nurse With Wound), qui impegnato ad uno strano banjo-slide elettrico e al basso.
La qualità audio è estremamente povera, ed è immaginabile che il fan medio dei Neu! non vi abbia trovato pressochè nulla di attrattivo. Non ci sono riprese del primo album; c'è una jam di 40 minuti di minimalismo selvaggio in cui forse si cercava qualche spunto creativo, ma che invece finisce per essere il delirio freakedelico dell'ingombrante Kranemann. C'è la titolata Silence, che inizia con una litania inquietante e poi parte col tipico ritmo di Dinger, finendo però per essere una copia sbiadita di Hallogallo. Quasi inevitabile che si terminasse con un blues destrutturato inconcludente, il cui momento più interessante, ironicamente, è quello dei feedback finali.
Facile capire perchè Rother non ne fosse proprio entusiasta della pubblicazione. Non che ciò vada a scalfire l'importanza dei Neu!, ma si tratta di un documento abbastanza prescindibile, oltre che la sentenza del fatto che con Kranemann non sarebbe mai potuta funzionare.

mercoledì 23 febbraio 2011

Neil On Impression - L'oceano delle onde che restano onde per sempre (2008)

Il mondo è così piccolo che fino a poco tempo fa non ero assolutamente a conoscenza dell'esistenza di questa band mia concittadina. E la cosa non può che rallegrarmi, visto che non è mai stata esattamente un centro musical-culturale molto florido. Quindi, mia grave lacuna appena colmata, corrispondente alla speranza di vederli live presto.
Questo è stato il loro ultimo prodotto, e non c'è che dire, è davvero emozionante. Interamente strumentale, articolato e frastagliatissimo, vede il quintetto base ampliarsi ad un ottetto grazie all'innesto degli archi. Il sound è un immagignifico punto d'incontro fra il progressive (estrema complessità delle trame, seppur scevra da virtuosismi) e il classico epic-instru del 2000, con un occhiolino strizzato ai Godspeed You Black Emperor nelle fasi più solenni.
C'è uno sforzo compositivo immane, in questo variegato labirinto, che occorrerebbero parecchi ascolti per assimilarlo nella sua interezza. Grazie anche a questo i NOI riescono ad evitare fasi di stanca o di ripetitività, puntando a delle dinamiche inquiete che tengono l'ascoltatore sempre ben desto. Fra i 12 titoli del lotto, occorre citare in primis le fantastiche I deserti si muovono (la fase centrale con il beat e le rifrazioni chitarristiche è da brividi), l'orchestrale e cinematica Il giardino dei riflessi, e la meraviglia di L'esercito di carta muove ad oriente, mini-suite barocca dalle progressioni mozzafiato.
Ma come già riferito, è tutto il disco a stregare con il suo magnetismo. Una perfezione formale che sa sprigionare altrettanto calore umano.

martedì 22 febbraio 2011

Fred Neil - Fred Neil (1967)

Una sorta di anti-divo che pagò la sua riluttanza alla popolarità finendo nell'oscurità dei tempi. L'unico motivo per cui l'ho conosciuto io è dato dal fatto che Tim Buckley, nelle poche interviste rilasciate in vita, gli dichiarava e rendeva omaggio ispirativo, nonchè lo tributava coverizzando la sua Dolphins fin dai live del 1968, appena un anno dopo che Neil aveva rilasciato questo album.
Ed in effetti c'è da restarne impressionati per la somiglianza: in primis, la rilettura quasi calligrafica che il ricciolone operava di Dolphins, ma non solo. La voce profonda e ammaliante di Neil non aveva certo la stessa estensione, ma certi gorgheggi, cadenze e passaggi tradiscono più di qualcosa.
Musicalmente, però, c'erano tante differenze. L'ohioano procedeva con un folk-blues screziato di country, infinitamente più lineare ed asciutto rispetto al californiano, ma sapeva anche scrivere grandi songs come Ba-de-da, I've got a secret, Faretheewell, Everything happens, insieme alla stessa Dolphins. Un songwriting disincantato, con i piedi per terra ma in grado di generare melodie ariose e serene, di un artigianato sopraffino.
Ma non era finita qui: Everybody's talking, che diventò famosa in tutto il mondo un paio d'anni dopo grazie al film Un uomo da marciapiede, era proprio scritta da Neil che qui ne dava la versione originaria. Una buona fonte di sostentamento vita natural durante, si potrebbe dire...
Il disco si chiudeva con uno scarto importante, la vorticosa jam acid-western di Cynicrustpetefredjohn Raga, che evidenziava anche certe qualità chitarristiche fino al momento limitate all'apporto singer-songwriter.
Seguì solo un altro disco l'anno successivo, dopodichè Neil abbandonò del tutto gli studi e apparì sempre più sporadicamente in qualche concerto durante i 70's. Dedicò il resto della sua vita ad un'associazione pro-delfini da lui stesso fondata, incassando le royalties di Everybody's talking. Morì nel 2001 a 65 anni. Non ebbe l'arte ed il fulmine di Buckley, ma una vita più lunga.

lunedì 21 febbraio 2011

Necks - Sex (1989)

Mi giustifico sempre, perchè non sono un cultore del jazz. Non ho mai ascoltato i classici degli anni '60, mi sono fermato a dare attenzione a pochissimi e neanche nella loro intera parabola, insomma, non è una scusa valida. E sarà anche per questo che mi capita un disco così quasi per caso, che tange solo marginalmente il jazz, e mi strega.
Necks è un trio australiano di Sidney che debuttò proprio con questo Sex, ed ovviamente la loro provenienza era dall'area classica del genere. Ma questo è un lavoro troppo atipico per restare confinato, e si pone in una terra di mezzo in cui minimalismo ed improvvisazione si fondono misteriosamente.
Il primo sta nel compito della sezione ritmica: Buck (batteria) e Swanson (contrabbasso) fanno un lavoraccio che per dei jazzisti consumati immagino sia stato infame, ovvero mantenere lo stesso identico ritmo per un ora, felpato e sinuoso. Logico che si sia divertito di più il pianista Abrahams, che fa invece sfoggio di lenti fraseggi ricercati, ripetuti in figure pressochè puntuali ed intercalate a micro-soli di poche note, senza mai strafare. Nel sottofondo i vagiti sommessi di una tromba (non è dato di sapere chi l'abbia suonata) e percussioni sorde quasi impercettibili creano scenari indefiniti, fra nebbia e soli desertici.
Comunque, era chiaro che Sex avesse finalità collettive ben precise, ben lungi dal voler inscenare showcase personali. Sottolineando la qualità pregiatissima dei suoni (sembra quasi di averli davanti!), l'effetto finale è quello di un ipnosi piacevole, un abbandono rilassato, autentico cibo per la mente.
Al minuto 56, quando basso e batteria fermano il loro indefesso cammino in punta di dita e Abrahams ha già chiuso il copri-tastiera del piano, la voglia di farsi sedurre di nuovo è difficile da trattenere....

Mogwai - Music For A Forgotten Future (The Singing Mountain)

Su Sunday Morning, of course....

domenica 20 febbraio 2011

National - Sad Songs for dirty lovers (2003)

Il primo vero disco-rivelazione. L'anno successivo i cinque avrebbero lasciato i rispettivi lavori quotidiani, facendo una scommessa che alla lunga hanno stra-vinto.
Il primo omonimo del 2001 faceva intravedere già ottime qualità, ma c'era una sostanziale acerbità che sminuiva il risultato finale. Invece Sad Songs centrava in pieno l'obiettivo: semplici ma bellissime composizioni, Berninger il neo-maudit della porta accanto, arrangiamenti misurati ma di estremo gusto. Avveniva così il guado perfetto fra folk-rock e indie; nessuna delle due componenti sormontava l'altra, e le qualità avevano modo di librarsi in volo senza vincoli.
La prima parte del disco è indimenticabile: l'acquarello discreto di Cardinal Song, la frizzante Slipping husband, il country confidenziale di It never happened, l'ossessività di Murder me Rachel, in venti minuti si toccano gli estremi e ci si gode il passaggio di sapienza armonica dei National. Fino a giungere alla meraviglia più totale, quella Thirsty che rievoca tante cose vintage ma finisce per non avere letteralmente tempo.
Difficile mantenere il superbo livello, ma in fondo la seconda parte fa tutt'altro che sfigurare. Available odora di new-wave nerboruta, Trophy Wife è la facciata più scanzonata delle loro micro-tendenze country-folk, Patterns Of Fairytales è una estatica ballad scandita da brevi glitches elettronici (episodio isolatissimo, credo).
Due-tre episodi dimenticabili non inficiavano la qualità globale del disco, dopotutto. Senza fare nessuna rivoluzione, anzi, con la massima discrezione, i National avevano posto un palettino importante per la radiosa carriera che li aspettava, e che mi auguro continui con la qualità che hanno saputo conservare fino ad ora.

sabato 19 febbraio 2011

Gnaw Their Tongues – Rend each other like wild beasts (2009)

(scritto da G.C.)

Con questo lavoro, tripartito in tre composizioni di lunga durata (20, 12 e 8 minuti circa), la musica dell’olandese Maurice de Jong si spinge definitivamente in territori inumani.
Doom, industrial, noise sono le forme impiegate per organizzare vere e proprie sinfonie dell’orrore assolutamente chiuse ad ogni speranza.
La title track pare un Ligeti allucinato come nella sequenza finale di 2001: Odissea nello spazio; tuttavia, come detto, de Jong non lascia presagire autoconsapevolezze, rinascite e palingenesi. Dai vuoti interstellari promanano bisbigli, voci opprimenti, minacce metalliche: qualcosa di irriducibile all’uomo preme sui residui di vita per costringerla alla resa; come in Lovecraft un dio cieco e gorgogliante, in una sarabanda di flauti insensati, regge le sorti dell’universo.
Then shall they come, oh Master … è una messa nera in onore di tali divinità. Il novello Crowley accentua in crescendo percussioni stordenti, invocazioni selvagge, clangori insostenibili per placarsi solo negli attimi finali.
In Sullen silence stalks forth pestilence, una sega circolare e un rimbombo apocalittico fanno da sfondo a vociferazioni infernali, per poi incanalarsi in una cacofonia finale che lascia stremati e storditi.
Un tour de force inaudito che, assieme ai precedenti lavori dell’olandese, esornati da titoli e artworks quasi insostenibili, forma un’esperienza musicale estrema che è colonna sonora degli ultimi giorni dell’umanità; per assurdo una definizione, altrimenti difficile, pare condensata in alcuni versi montaliani di Clivo che recitano: “Nella sera distesa appena, s’ode/un ululo di corni, uno sfacelo”.

venerdì 18 febbraio 2011

Nadja - Radiance of shadows (2007)

Rappresentano il rovescio rovinoso della medaglia del neo-post-gotico moderno alla Have a Nice Life, a mio avviso. Duo canadese composto dal deus-ex-machina Baker e dalla bassista Buckareff (che a vederla si riterrebbe al massimo una brit-popper..), che forse ha solo la colpa di aver rilasciato qualcosa come una quarantina fra album ed EP in appena 8 anni di esistenza, rendendo impossibile una valutazione appena appena esaustiva del loro operato. Quindi, tanto vale affidarsi al consiglio dell'amico che ne ha sentiti molti di più e pescarne un paio, di cui questo Radiance of Shadows in effetti impressiona per la titanicità degli intenti.
Trattasi di 3 giganti di oltre 25 minuti cadauno, sinfonie apocalittiche di doom massimalista in cui mi pare di udire un sentore, per l'appunto vagamente gotico. I chitarroni saturi macellati alla Sunn O)), le movenze pachidermiche più estreme, le pause di riflessione ambientali, vaghe aperture melodiche alla Jesu, tutto è architettato per scombussolare e creare stadi avanzati di tempeste magnetiche.
Nonostante l'utilizzo della drum-machine e le lunghe inondazioni rumoristiche, i Nadja mostrano comunque un lato (ehm, potrebbe senbrare insensato, ma io lo ritengo) romantico-passionario che ho colto dopo numerosi ascolti, sgranando le dilatazioni temporali di questi tre colossi e rendendomi conto del fatto che alla base di tutto Radiance c'è fondamentalmente un lavoro di composizione curatissimo.
Basti sentire, in particolare la splendida prima fase di I have tasted the fire inside your mouth, per avere un idea. In sostanza, direi dei Lycia amplificati alla massima potenza.

giovedì 17 febbraio 2011

MX-80 Sound - Always Leave Em Wanting Less (1997)

Nel corso della loro frammentatissima esistenza (che purtroppo temo sia conclusa a causa della morte di Mahoney qualche anno fa), gli MX-80 hanno avuto questa fase in cui incisero per Atavistic l'album I've seen enough e l'anno dopo fecero uscire questo live, registrato fra Chicago e San Francisco, in cui la leggendaria unità art-wave-metal si reinventava grazie ad uno straniante post-blues-slow-core dominante sui tratti tipici del loro alienato DNA.
Al posto dell'entità terroristica che inscenava gli attacchi dinamitardi di Out of the tunnel, c'era una band matura sotto le mentite spoglie di un sound apparentemente meno agitato. Solo l'apertura riportava ai primissimi tempi, con una torrenziale Myonga Von Brontee: quasi tutto il resto era imperniato sul disco da poco uscito.
Stim aveva ormai abbandonato il sax ed il suo canto era sempre più apatico e meno coinvolto. Anderson continuava la sua missione chitarristica con un taglio trasversale, alternando le sue classiche, folli sfuriate ad operazioni più di fino cesello.
Il Blues? Sì, un po' ce n'è ma ovviamente è solo come gli MX-80 potevano farlo: We will bury you, Can't win 'em all, sembrano sarcastiche e salaci quanto basta per non farsi troppo prendere sul serio. La percentuale slow-core invece era un po' un quadrare del cerchio: la loro Promise Of Love del 1981 era stata coverizzata diec'anni più tardi dai Codeine, e qui ci sono alcune tracce che praticamente elaboravano una versione alieno-futuristica del trio newyorkese. 15 Laffs, Face of the earth, Thank you boss, sono allucinazioni moviolistiche scandite dal basso pesante di Sophiea ed i rintocchi flangerizzati di Anderson.
Non c'è un momento di pausa: l'acido strumentale di Halloween, l'ossessione circolare di Have another drink, e soprattutto i 6 movimenti di Black Feldman, disseminati regolarmente lungo la scaletta, erano 6 pause di improvvisazione post-atomica collettiva che ribadivano, se mai ce ne fosse stato bisogno, la statura artistica degli MX-80.
Quel che si dice un complesso criminalmente ignorato...

martedì 15 febbraio 2011

Mùm - Finally we are no one (2002)

Un disco che vive in una dimensione eternamente ovattata.
Dall'Islanda con calore, mi verrebbe da dire. I Mùm giocano coi suoni e fanno tornare quasi bambini, al punto che immagino le loro musiche come un sottofondo ideale per comitive d'asilo. E' bello lasciarsi un po' andare ad atmosfere così camer(ett)istiche, con l'elettronica sfrigolata mai invasiva, e gli archi come nella splendida I can't feel my hand anymore, ad esempio. La voce femminile così bambinesca, poi, gioca la sua parte decisiva. Bellissima We have a map of the piano, con quel break strumentale e l'incipit di chitarra e piano al centro.
Tutto suonato in punta di dita, senza mai salire sopra le righe. Ecco, forse il limite dei Mùm sta proprio qui; seppur capaci di scrivere melodie lucenti ed ispirate, mostrano un filo di corde di ripetitività (la finale, eccessivamente lunga The land between solar system), indugiando nelle varie composizioni quasi come jam sessions. Che poi, per carità, magari il loro obiettivo è proprio quello; di portare l'ascoltatore in un piano onirico avvolgente che lo culli con sicurezza e linearità. L'ascolto è piacevolissimo, ma mi lascia con un retrogusto di incertezza...Elettronica spicciola o forma canzone? Vabbè, chi se ne frega, stiamocene in questo comodo limbo e giochiamoci su...

domenica 13 febbraio 2011

Mountains - Choral (2009)

Duo chicagoano che incide su Thrill Jockey una ambient vintagista che nulla aggiunge alla storia della categoria, ma fatta in maniera eccellente con questo Choral.
Tutto è realizzato con strumenti classici e senza neanche l'ombra di un elettronica di epoche moderne: la title-track iniziale risiede in una denso drone in stile quasi krauto, con strati tastieristici che sono inviti al cielo. Un bell'arpeggio di chitarra acustica costituisce l'intelaiatura per Map Table, e fa da sostegno ritmico alle esplorazioni fragorose di Telescope e Add infinity.
Melodica
è una contemplazione notturna di gusto sopraffino, e la chiusura di Sheets two è nient'altro che un magico interscambio sottovoce fra i riverberi rintoccati di una chitarra liquida e un tintinnio (mi pare) di piano elettrico.Estremamente semplice ma di presa sicura per chi ama il genere. Di gran lunga inferiore il successivo Etching. Spero non abbiano perso questa delicata ed affascinante linfa.

sabato 12 febbraio 2011

Moon Seven Times - The Moon Seven Times (1993)

Prima di Lanterna, Frayne e la sua chitarra mesmerica erano al servizio dei M7T, che erano fautori di un post-gotico-atmosferico di grande fascino con un discreto potenziale commerciale (lo shoegaze era ancora abbastanza in voga e il loro sound ne era imparentato solo di striscio). Non durò molto e di loro si persero le tracce dopo lo scioglimento, lasciarono però due buoni album di un prodotto che non era derivativo e sapeva generare buoni ambienti.
La soave cantante Canfield proveniva da un oscura formazione dark-gothic e ricordava un po' la Timms dei Cowboy Junkies, suo marito Gamble era un batterista inquieto adattissimo a movimentare un minimo le acque. Frayne srotolava tappeti ondulati di riverberi e armonici, con umiltà e gusto. Ne conseguiva un debutto evocativo, con un filo di ripetitività che appariva dietro l'angolo, ma scacciato puntualmente dalla bravura del gruppo nel saper coniare una formula abbastanza personale.
Vapori chiaroscurali.

venerdì 11 febbraio 2011

Mono - Hymn To The Immortal Wind (2009)

Riconosco che i Mono in passato abbiano fatto buone cose, ma questo Hymn mi impone associazioni mentali deprecabili. Un parallelo inquietante per un filone glorioso, quello di appartenenza; mi ricorda il declino del progressive nella seconda metà degli anni '70, i Genesis post-Gabriel, gli Yes dopo Close to the edge, in caduta libera verso panorami estetizzanti e privi di ogni tensione positiva dell'imperfetto.
Per fortuna l'epic-instru sa ancora regalare grandi emozioni e qualche nuova leva di deciso vigore che lo mantiene ben lungi dal prosciugarsi. In questo caso, ritengo che il recente passo falso dei giapponesi non sia esattamente un campanello d'allarme, ma soltanto un episodio infelice.
Hymn è sterile e pomposo, si muove a passi pachidermici sviluppando pochissime idee che girano a vuoto, all'infinito. Un orchestra di 30 elementi li supporta provocando un ispessimento del suono che sembra fare la voce grossa, indugiando su temi drammatici e solenni di rigore.
Non so, forse sono influenzato dall'aver visto i Godspeed! solo due settimane fa. Ma anche dopo diversi ascolti, questo disco mi comunica poco o niente, e lo dice uno che del genere ed i suoi dintorni è massimo estimatore.

mercoledì 9 febbraio 2011

Moby - Animal Rights (1996)

Un Moby molto diverso da quello che si impose con Everything is wrong e quello che spopolò le classifiche di tutto il mondo di Play. La storia narra che in quel periodo fosse parecchio risentito nei confronti della critica che non sembrava prenderlo sul serio, e per reazione il newyorkese se ne uscì con un disco devastante che gelò tutto e tutti.
Una mossa coraggiosissima, ma a mio avviso azzeccata visto che Animal Rights fu un autentico killer. Escludente le struggenti estremità di Now I let it go e Love song for my mom, due splendidi e delicatissimi strumentali per chitarra e violino suonato dall'unico ospite di tutto il disco, è una raccolta di violenze brade assortite fra punk, metal e hard-rock.
Moby si dimostra inatteso polistrumentista, in particolare cantante esasperato e guitar hero non da poco. Assolutamente irresistibili le furiose cavalcate di Someone to love, Heavy Flow, You, e soprattutto la fenomenale cover dei Mission Of Burma That's when I reach for my revolver, secondo me superiore all'originale. Moby si sgola e comunica tutta la sua rabbia con concretezza spaventosa. Face it e Soft sfoderano riff panzer degni dei Black Sabbath, l'efferata Say it's all mine alterna strofe evocative con chorus pesante, la schizoide My love will never die ripete il suo salmo ossessionante fra una selva di feedback.
Ovviamente si tratta di un episodio in cui i fans del Moby più poppy non troveranno particolare interesse, ma nonostante sia rimasto uno one-shot credo che Animal rights sia un capolavoro di ferocia arty, purtroppo mai replicato.

martedì 8 febbraio 2011

Miranda Sex Garden - Fairytales of slavery (1994)

Ai tempi di questo terzo album, ormai non erano più Le MSG degli inizi, bensì un quintetto in cui le fondatrici superstiti erano la Blake e la McCusker. Il sound si era fatto sempre più spesso, prominente e tendente ad una forma di gotico moderno sfumato in tante direzioni diverse.
Gli arditi esperimenti delle londinesi avevano seguito un percorso tutto personale: se Suspiria le aveva indirizzate verso un barocco atipico fatto di madrigali immersi in torbide atmosfere, Fairytales of slavery affondò pesante in mari agitati e tempestosi. La tornitruante Cut, l'ipercinetica Peep show, l'epica Cover my face, mostravano un lato aggressivo molto stridente con la voce angelica della Blake. Con la decadenza inquietante di Fly, l'evocativa Freezing, la danza straniante di Wheel, ottenevano invece quel punto g-otico che forse si faceva leggermente sfocato in altri frangenti. Un vero peccato, perchè proprio qui finì il loro rapporto con la Mute e di conseguenza la loro visibilità europea (non ho mai sentito il loro disco finale del 2000).
Con le doti che avevano e la suggestione potenziale inespressa, avrebbero potuto fare di meglio. I loro dischi migliori restano quelli di mezzo, cioè Iris e Suspiria.

lunedì 7 febbraio 2011

Minutemen - Double Nickels On The Dime (1984)

Quando si parla di dischi in cui c'è davvero tutto dentro, non ci si può esimere dal citare questo colosso di fondamentale divertimento, di sana ironia dissacratoria ed esempio lampante della libertà che può avere un trio affiatatissimo, dalle doti tecniche rimarchevolissime.
Furono il contraltare chiaro dei Black Flag, e soltanto la morte di Boon fermò una corsa che, chi lo sa, avrebbe potuto evolversi verso nuovi lidi. Oppure no, chè Double Nickels era stato davvero uno sforzo sovrumano di creatività e sarebbe potuto anche diventare una gabbia dorata in cui riflettersi, ma a me piace pensare che avrebbero potuto emulare il loro idolo Captain Beefheart e proseguire un percorso inimmaginabile.
E' impossibile mettersi a scavare in questi 40 e passa pezzettini di trascinante crossover, fin troppo logico, occorrerebbero decine e decine di ascolti per assimilarlo e forse non basterebbero neanche. E' sufficiente prendersi un oretta e rinfrescarsi di fronte all'allegria contagiosa di questo punk-funk-jazz-blues dei Minutemen, qui al loro massimo splendore.

domenica 6 febbraio 2011

Milk - Tantrum (1992)

Dalla galassia dei primi nineties (eh, sembra essere passata veramente una vita!) un altro di quei tanti gruppi di cui non esiste più neanche una misera testimonianza in rete.
A causa del fatto che incidevano sulla gloriosissima Eve Recordings (rimembro sempre, la label che fece debuttare i God Machine nel 1991), immagino fossero inglesi e so per certo che fecero 3 ep e due dischi, di cui questo Tantrum fu l'ultimo. Nel retrocopertina si vedono 3 figuri, quindi si può dedurre anche la formazione autrice di un alternative-grunge viscerale che macinava sudore e tensione senza sosta.
Un chitarrismo febbrile e fischiante (a tratti violentemente hendrixiano) funge da perno al sound, che purtroppo però era prodotto davvero male: la batteria compressa retaggio degli '80 da poco passati, le vocals strozzate (vagamente JazColemaniane) di stile ridotte al lumicino dell'appena udibile. Un vero peccato, visti certi episodi davvero trascinanti come Claws, Surgery, Billy and Bobby, Book one page one che in altre vesti avrebbero senz'altro fatto un figurone.
E non è detto, chè certe sonorità in Inghilterra poi non hanno attecchito mai tanto, a parte casi limite come i Therapy?.

venerdì 4 febbraio 2011

Metroschifter - Fort Saint (1995)

Furono una piccola istituzione del post-hardcore americano anni '90, ma crebbero lontani dai centri importanti e forse restarono molto underground perchè erano di Louisville, incidevano per la piccola locale Doghouse ma non avevano praticamente nulla a che vedere con Slint e compagnia. C'è l'inizio di Equation, però, che è una piccola citazione in loro onore, delle sequenze inquietanti e interrogative tipiche di Spiderland. Forse più una gag che reale tentativo di avvicinarsi a quelle sonorità, perchè i Metroschifter restavano attaccati alle origini hardcore con vocals alla Fugazi, chitarre compatte e ritmica serrata.
Qualche pezzo poi funziona anche molto bene (ottime Link, Whatever's, le spirali di flanger di $39, lo spleen di Love). Nulla di epocale, ma nel suo genere un buon prodotto.

mercoledì 2 febbraio 2011

Message To Bears - Departures (2009)

Ancora Oxford, ma questa volta con ancestralità: Jerome Alexander e la sua gentilezza, conosciuto tramite caldo consiglio di Allelimo, sono state una bella sorpresa degli ultimi tempi.
Specialmente nell'ambito acustico, ai giorni nostri è sempre più difficile creare qualcosa di interessante, ma MTB ci riesce con una grazia e un tocco leggero degno di altri tempi. Innanzitutto la chitarra; Alexander è un fine cesellatore di fingerpicking che sostanzialmente non scopre nulla di nuovo ma sa ricavare armonie tendenti al malinconico-riflessivo di una bellezza stupefacente. Al di là delle fitte trame di nylon, gli ingredienti aggiuntivi sono pochi e perfettamente piazzati. Qualche arco (Running through woodland, Pretend to forget) a volte prende il sopravvento, come nella magnifica Hope, elegia per violino ed harmonium. A volte assume contorni quasi neoclassici (November), altre riecheggia il trasognato cantautorato-ambient di Helios (At the top of this hill), altre ancora stabilisce paralleli geografici importanti (Find our way home, vicina a certe cose dei Tenhi). Alla resa dei conti forse il nome che più si avvicina è quello dei Balmorhea, ma credo che MTB abbia una dote di composizione più ultra-terrena dei pur bravissimi texani.
Nonostante sia fatta di pochi e scarni mezzi, la musica di Alexander finisce per essere ricchissima di emozioni e di respiro vitale, un giaciglio su cui adagiarsi e lasciarsi trasportare, magari in mezzo ad un bosco come in questo video.

martedì 1 febbraio 2011

Meanwhile Back In Communist Russia - My elixir, my poison (2002)

Band di Oxford che ebbe vita breve all'inizio del decennio scorso, e che magari sopravvivendo avrebbe ottenuto una visibilità maggiore, in virtù di uno stile che ascoltato ora, dimostra ancora tutta la sua grande personalità. Un substrato elettronico (drum machine al 90%, synth quanto bastava) si divideva la scena con le chitarre, le tastiere d'ogni tipo e il recitato suadente della Grey, un simbolo che elude il paletto del "tutto strumentale" con risultati alquanto fascinosi. Qualche parallelo con i Radiohead di Kid A mi sembra di sentirlo a tratti, ma My elixir my poison convince per le trovate ad effetto impressionistico.
Un giro sinistro di piano fender e micropunte di effetti minacciosi introduce con Th5 e già la curiosità si fa strada. Anatomies cresce lentamente con un giro di piano e l'armonia corale degli strumenti, bellissima. Chinese lantern paga un po' di dazio ai Mogwai, ma resta un caso isolato. Già Realization li esalta di nuovo con un controtempo in penombra, mentre l'ossessiva Heliotrope possiede un giro di accordi che mi ricorda gli Arab Strap più solenni. L'arrendevole Cusp è soltanto un preparativo alla fenomenale Roses for her. Il battito sintetico è insistente, il piano tintinnante prende la scena con l'aumento di volume e viene doppiato da una chitarra fendente, col recitato dimesso che assume valenza ancor più inquietante. Da brividi.
Due movimenti lunari, eloquenti riprese dei Radiohead più enigmatici (Holomovement, New adventures), predispongono il campo per l'ultimo capolavoro Heatstroke. Atmosfera drammatica fin dall'inizio, sfonda con quello che era un po' il loro punto di forza, cioè l'inarrestabile crescendo che qui sfocia in una potente esplosione di chitarre lancinanti.
Su tutto il disco aleggiano sensi di fatalità incombente, di straniante disorientamento e di avventura su terreni tutti da scoprire. Sono stati fra i migliori a coordinare elettronica fredda e calore umano in una perfetta, omogenea soluzione.
Un vero peccato che la loro corsa si sia fermata proprio qui.