(scritto da G.C.)
Con questo lavoro, tripartito in tre composizioni di lunga durata (20, 12 e 8 minuti circa), la musica dell’olandese Maurice de Jong si spinge definitivamente in territori inumani.
Doom, industrial, noise sono le forme impiegate per organizzare vere e proprie sinfonie dell’orrore assolutamente chiuse ad ogni speranza.
La title track pare un Ligeti allucinato come nella sequenza finale di 2001: Odissea nello spazio; tuttavia, come detto, de Jong non lascia presagire autoconsapevolezze, rinascite e palingenesi. Dai vuoti interstellari promanano bisbigli, voci opprimenti, minacce metalliche: qualcosa di irriducibile all’uomo preme sui residui di vita per costringerla alla resa; come in Lovecraft un dio cieco e gorgogliante, in una sarabanda di flauti insensati, regge le sorti dell’universo.
Then shall they come, oh Master … è una messa nera in onore di tali divinità. Il novello Crowley accentua in crescendo percussioni stordenti, invocazioni selvagge, clangori insostenibili per placarsi solo negli attimi finali.
In Sullen silence stalks forth pestilence, una sega circolare e un rimbombo apocalittico fanno da sfondo a vociferazioni infernali, per poi incanalarsi in una cacofonia finale che lascia stremati e storditi.
Un tour de force inaudito che, assieme ai precedenti lavori dell’olandese, esornati da titoli e artworks quasi insostenibili, forma un’esperienza musicale estrema che è colonna sonora degli ultimi giorni dell’umanità; per assurdo una definizione, altrimenti difficile, pare condensata in alcuni versi montaliani di Clivo che recitano: “Nella sera distesa appena, s’ode/un ululo di corni, uno sfacelo”.
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