Nel corso della loro frammentatissima esistenza (che purtroppo temo sia conclusa a causa della morte di Mahoney qualche anno fa), gli MX-80 hanno avuto questa fase in cui incisero per Atavistic l'album I've seen enough e l'anno dopo fecero uscire questo live, registrato fra Chicago e San Francisco, in cui la leggendaria unità art-wave-metal si reinventava grazie ad uno straniante post-blues-slow-core dominante sui tratti tipici del loro alienato DNA.
Al posto dell'entità terroristica che inscenava gli attacchi dinamitardi di Out of the tunnel, c'era una band matura sotto le mentite spoglie di un sound apparentemente meno agitato. Solo l'apertura riportava ai primissimi tempi, con una torrenziale Myonga Von Brontee: quasi tutto il resto era imperniato sul disco da poco uscito.
Stim aveva ormai abbandonato il sax ed il suo canto era sempre più apatico e meno coinvolto. Anderson continuava la sua missione chitarristica con un taglio trasversale, alternando le sue classiche, folli sfuriate ad operazioni più di fino cesello.
Il Blues? Sì, un po' ce n'è ma ovviamente è solo come gli MX-80 potevano farlo: We will bury you, Can't win 'em all, sembrano sarcastiche e salaci quanto basta per non farsi troppo prendere sul serio. La percentuale slow-core invece era un po' un quadrare del cerchio: la loro Promise Of Love del 1981 era stata coverizzata diec'anni più tardi dai Codeine, e qui ci sono alcune tracce che praticamente elaboravano una versione alieno-futuristica del trio newyorkese. 15 Laffs, Face of the earth, Thank you boss, sono allucinazioni moviolistiche scandite dal basso pesante di Sophiea ed i rintocchi flangerizzati di Anderson.
Non c'è un momento di pausa: l'acido strumentale di Halloween, l'ossessione circolare di Have another drink, e soprattutto i 6 movimenti di Black Feldman, disseminati regolarmente lungo la scaletta, erano 6 pause di improvvisazione post-atomica collettiva che ribadivano, se mai ce ne fosse stato bisogno, la statura artistica degli MX-80.
Quel che si dice un complesso criminalmente ignorato...
Al posto dell'entità terroristica che inscenava gli attacchi dinamitardi di Out of the tunnel, c'era una band matura sotto le mentite spoglie di un sound apparentemente meno agitato. Solo l'apertura riportava ai primissimi tempi, con una torrenziale Myonga Von Brontee: quasi tutto il resto era imperniato sul disco da poco uscito.
Stim aveva ormai abbandonato il sax ed il suo canto era sempre più apatico e meno coinvolto. Anderson continuava la sua missione chitarristica con un taglio trasversale, alternando le sue classiche, folli sfuriate ad operazioni più di fino cesello.
Il Blues? Sì, un po' ce n'è ma ovviamente è solo come gli MX-80 potevano farlo: We will bury you, Can't win 'em all, sembrano sarcastiche e salaci quanto basta per non farsi troppo prendere sul serio. La percentuale slow-core invece era un po' un quadrare del cerchio: la loro Promise Of Love del 1981 era stata coverizzata diec'anni più tardi dai Codeine, e qui ci sono alcune tracce che praticamente elaboravano una versione alieno-futuristica del trio newyorkese. 15 Laffs, Face of the earth, Thank you boss, sono allucinazioni moviolistiche scandite dal basso pesante di Sophiea ed i rintocchi flangerizzati di Anderson.
Non c'è un momento di pausa: l'acido strumentale di Halloween, l'ossessione circolare di Have another drink, e soprattutto i 6 movimenti di Black Feldman, disseminati regolarmente lungo la scaletta, erano 6 pause di improvvisazione post-atomica collettiva che ribadivano, se mai ce ne fosse stato bisogno, la statura artistica degli MX-80.
Quel che si dice un complesso criminalmente ignorato...
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