martedì 31 maggio 2011

Explosions In The Sky - Live in Estragon 29-05











Ed ecco la serata della commozione.
Con colpevolissimo ritardo domenica sera ho finalmente potuto vedere per la prima volta uno dei miei monumenti in musica, quello che ha prodotto il mio disco n. 1 del decennio zero, quel The earth is not a cold dead place che non finisce mai di emozionarmi, anche al millesimo ascolto.
Confesso di aver assistito al concerto in preda ad uno stato di trance estatica, sintonizzato su una dimensione parallela in cui tutto il mondo circostante scompariva. C'erano solo gli Explosions, il palco e i loro scenari immagignifici.










A fare da supporto c'è quel gran visionario di Bob Lowe aka Lichens, che stende i suoi tappeti e propina uno dei suoi trips metafisici-levitanti. A differenza di quando lo vidi un anno e mezzo fa prima degli Om, in cui i loops partivano da arpeggi di chitarra, questa volta genera le sue spirali con elettronica analogica e poi vocalizza rapito, a modo suo, fino a che le sovrapposizioni hanno saturato l'ambiente. Una mezz'oretta che probabilmente non tutti avranno gradito, ma d'altra parte Lowe va preso così com'è.












Pochi minuti e i nostri idoli salgono sul palco, in punta di piedi, con fare semplice. Rayani va al microfono e proclama la sua presentazione in italiano, ben preparata e senza incespicare. Pochi secondi e attaccano Yasmin the light. La magia può iniziare.
Ai quattro si aggiunge, defilato di fianco alla batteria, un bassista dall'aspetto vagamente metal-tamarro, con barba e capello lungo, che suona in una buona metà del set per permettere libertà maggiore a James con la ritmica alla sei corde.


















La concentrazione richiesta dalle esecuzioni non trascura l'effetto coinvolgente dei ragazzi, che nei frangenti più fragorosi diventano quasi aggressivi e very very loud. James sta a centro palco e suda come una fontana, l'energia delle sue pennate frenetiche fa quasi impressione, fino a fargli sganciare la cinghia di sostegno nel bel mezzo di Catastrophe and the cure.
Rayani, al lato destro, è un moto perpetuo in circolo. La sua Strato oscilla spesso a pochi centimetri da terra, e lui è veramente rapito nello snocciolare le parti più enfatiche, fatte di genuinità, splendore e candore emotivo.












Smith è il più compassato della prima fila, fermo e concentratissimo sul manico, a lavorare di cesello, sulle note più alte, a scalpellare di fino sulle frequenze più cerebrali.
Sullo sfondo, un lontano Hrasky siede a fare il guardiano del parco protetto, della riserva mondiale dell'epic-instru e dei suoi pionieri.
La scaletta pesca egualmente dal 2° al 4° album con due estratti e tre dall'ultimo. Le meraviglie scorrono in soluzione continua, e perdo la concezione del tempo. Da quello che io simpaticamente definisco il disco del secolo, tirano fuori l'epocale Your hand in mine (detentore del primo ed unico clip musicale a farmi commuovere seriamente), e quella The only moment we were alone che di recente è stata promossa dalla Findus per la pubblicità dei pisellini primavera e dei bastoncini di pesce (ah, che primizia immeritata per il pubblico italiano, ma almeno un po' di royalties in cassa per loro...)
Potevo immaginare che ci volesse così tanta energia e concentrazione per gli Explosions, ma alla fine, dopo Let me back in, i paladini lasciano il palco per non tornare più.
Di fronte al richiamo insistente del pubblico, Rayani ricompare e con uno sguardo che cerca comprensione candidamente dichiara che non ne hanno più.
Non me ne dispiaccio, anzi condivido. Gli Explosions sono un gruppo unico, un bel bis sarebbe stato apprezzato ma come dimenticare le secchiate di sudore che sprizzava James, i suoi sguardi stravolti, la dedizione immensa sugli strumenti, la generosità?
Abbandoniamo l'Estragon. C'era chi voleva First breath after coma, chi Six days at the bottom of the ocean, la mia speranza segretissima era The long spring ma onestamente non si poteva chiedere di più da parte di chi ha cura, ha cura, ha cura infinita....


















Elephant9 – Dodovoodoo (2008)


(scritta da G.C.)

In un memorabile racconto di Borges, Pierre Menard, l’omonimo protagonista decide di riscrivere, parola per parola, riga per riga, il Don Chisciotte di Cervantes. Il nuovo testo, posteriore di tre secoli, pur verbalmente identico, sarebbe risultato paradossalmente ben più ricco del precedente poiché saturo di significati storici e filosofici intercorsi tra la prima e la seconda stesura.
I norvegesi Elephant9, più modestamente, decidono di riscrivere, anche loro quasi alla lettera, un disco di progressive jazz degli anni Settanta e ci riescono perfettamente. Eilertsen (basso), Lofthus (batteria; ottimo) e soprattutto l’organista Ståle Storløkken (già con i ben più arditi Supersilent e collaboratore dello storico chitarrista Terje Rypdal) allestiscono un ensemble compatto dal suono piacevolmente deja entendu; ognuno ricerchi le influenze che i Nostri solleticano, Keith Emerson, Egg, Weather Report (gli ultimi due pezzi, Doctor honoris causa e Directions, sono rifacimenti di Joe Zawinul) oppure Soft Machine.
A differenza dell’opera di Menard il tempo non gioca a favore del trio nordico: negli anni Settanta la forma libera, anche caricata di valenze politiche libertarie, riscattava dai lacci della canzone classica, e l’improvvisazione e la suite erano dichiarazioni d’indipendenza precise. Oggi, polverizzati gli stili e annientato l’impegno radicale, rimane esclusivamente il rimando esteriore a quel periodo irripetibile. Il disco brilla allora per ciò che evita: ipertecnicismi, riferimenti paleosinfonici e simile paccottiglia colorata. Ne viene perciò un’opera sorprendentemente sobria, ovviamente ben interpretata e, innegabilmente, come detto, piacevole, a partire dal pezzo eponimo. Gli amanti del genere avranno di che godere. Ma non si gridi al miracolo.

lunedì 30 maggio 2011

Seefeel - More like space - Fractrure Tied - Starethrough EPs (1993/94)

Sublimi Seefeel, evolutori dello shoegaze ad una forma artistica superiore in salsa di elettronica ambientale dai riflessi molteplici.
Londinesi, schieravano una line-up convenzionale nella lista degli strumenti ma il loro suono non lo era quasi per nulla. I battiti digitali, le linee (lievemente dub, ma molto bianco) di basso sintetizzate, la chitarra tirata e trasfigurata all'infinito di Clifford, i vocalizzi estasiati della soave Peacock erano un biglietto da visita sufficente per saltare sulla sedia nel 1993, al momento del loro debutto con More like space (parlo della title-track iniziale) sulla benemerita, talentuosa Too Pure. Il secondo pezzo, Time to find me, riusciva a fare persino meglio, galleggiando in uno spazio raffinatissimo, obliquo e circolare, fra cinguettii elettronici. Come alive e Blue easy sleep completavano, la prima con una versione narcolettica dei My Bloody Valentine e la seconda con un lungo drone di organo.
Ma il meglio doveva ancora arrivare. Fracture segna l'importante ingaggio da parte della Warp, ed è segnato da una incessante percussività su scenari ambientali montuosi e sussurri manipolati. Tied ne è il contraltare rallentato, con dissonanti sibili periodici a scandire.
Sempre nel 94, il loro capolavoro, lo Starethrough EP. La title track sembra un richiamo alla foresta, anzi è il paradisiaco richiamo della Peacock che sovrappone le sue voci intanto che le percussioni tengono in piedi un minimale e irriconoscibile dub anemico. Ed è ancora la fantasia a regnare incontrastata, con il clima lunare di Air eyes, i bordoni quasi dark-ambient di Lux 1 e soprattutto l'ipnosi da harpsicord di Spangle, che vede la Peacock esaltarsi di nuovo nella propria allegorica moltiplicazione.

giovedì 26 maggio 2011

Second Layer - World Of Rubber (1981)

Soltanto di recente, leggendo la monografia di Bertoni su Blow Up, sono venuto a conoscenza del fatto che fra il primo e il secondo dei Sound il leader Borland e il bassista Bailey realizzarono un disco a nome Second Layer. Ed è stata una scoperta davvero piacevole, perchè quando ormai si pensa di aver conosciuto tutti i fondamentali della new-wave inglese capita sottomano un ripescaggio che fa riflettere.
In effetti, il talento di Borland è sempre stato di dominio pubblico (per modo di dire, vista l'inspiegabile nicchia da cui i Sound non riuscirono mai ad uscire) ma questo suo contraltare così bizzarro e sfuggente non me lo aspettavo proprio. World of rubber non è certo album d'avanguardia o chissà quale sperimentazione; resta in un area ben circoscritta tipica di quegli anni, seppur penalizzato da una produzione (non so quanto volutamente) piuttosto scarsa. Semmai piace perchè sfugge seriamente il Sound-sound, galleggia in acque torbide, si perde in nebbie fittissime, disorienta, con l'ausilio di una primitiva drum-machine e un attitudine spiazzante.
Borland sembra il fantasma del vigoroso-melodico waver: il suo canto è basso e pigro, spesso atonale; la sua elettrica è altrettanto diversa, spingendo sul dissonante/distorto fino a seminare il panico. Le bass-line ipnotiche ed ossessive (per quanto elementari) di Bailey sono le spine dorsali su cui montare tutto il teatrino sperimentale. Qualche effetto elettronico, qualche nastro al contrario, pochi mezzi ma tante idee da immagazzinare in questo divertissment.
In più di un titolo sembra aleggiare l'influenza dei PIL dell'immenso Metal Box, con l'ovvia differenza della voce, nonchè un perenne senso di angoscia opprimente. Sembra quasi che in questa sede Borland stesse dando sfogo a quelle pulsioni sotterranee-depressive che finiranno per portarselo via dal pianeta, mentre sotto al sole cercava il successo con i Sound.
Il coinvolgimento è assicurato in molteplici strati. Solo per citare il minimo sindacale degli episodi, direi la caracollante Zero per quanto riguarda l'aspetto più convenzionale, Japanese headset per lo choc agghiacciante, Black Flowers per la sua minimale estasi letargica.
Un nuovo pretesto per rendere omaggio alla memoria del povero Adrian.

mercoledì 25 maggio 2011

Seabrook Power Plant - Seabrook Power Plant (2009)

E' intrigante, quando la tecnica mostruosa si unisce alla sperimentazione e al disorientamento a tutti i costi. E' il caso di questo trio newyorkese che presumo abbia radici jazz ma se le lascia alle spalle per coniare uno stile a dir poco indefinibile. Al limite potrei pensare ad una versione allucinata degli Ahleuchatistas, ma non aiuta a rendere l'idea e soprattutto non rende giustizia.
Trattasi dei due fratelli Seabrook e del contrabbassista Blancarte. Jared alla batteria e Brandon è il leader, un prodigioso chitarrista che però stupisce quando imbraccia il banjo e viene posseduto da un demone a velocità supersonica.
Math-Folk-core? Una buona metà del disco è contrassegnata dalle incursioni di questo strumentello da sempre relegato a tutt'altri ambiti. L'effetto è quasi divertente nella sua assurdità (sentire Ho Chi Minh Trail per credere) , nonchè esaltante in quanto mai pervenuta una cosa del genere alle mie orecchie.
Più di una parola andrebbe spesa sulla sezione ritmica, non meno virtuosa al paragone. Ma è sempre Brandon a catalizzare anche quando imbraccia l'elettrica e svaria con eclettismo su trapanate in stile Orthrelm, liquidismi alla Ian Williams epoca Don Caballero, serrate sulfuree alla Blind Idiot God e addirittura un grevissimo doom con I don't feel so good, fino all'eclissi spiritata del finale capolavoro di Doomsday shroud.Inafferrabili.

martedì 24 maggio 2011

Scenic - Acquatica (1996)

Ancora perle incriminate di sconoscenza risalenti agli anni '90. Gli Scenic erano un quintetto strumentale guidato da una visione sublime, creatore di soundscapes itineranti, come un giro del mondo in un'ora e un quarto. Le loro radici erano situate nella new-wave più radicale (Licher era stato nei primi Savage Republic), e ai tedeschi più trippy dei '70. L'evoluzione li portò ad un suono onirico e sfuggente, seppur ancorato alla concezione di rock tramite la line-up convenzionale.
Anticipatori di un certo post-rock del decennio successivo (penso ai primi God Is An Astronaut, ad esempio), ricorrevano a melodie ariose nei pezzi più strutturati (da menzionare le splendide Deserted shores e Improvia, i due rovesci della medaglia in fatto di umori, meditativa la prima e festaiola la seconda) quanto ad intermezzi sperimentali infarciti di etnica, ambient, drones siderali (spettacolari fra questi ultimi The Ionic Curve e Aca Aludoma o l'ultima parte di Et tu, dronius che arriva dopo diversi minuti di silenzio) in soluzione di continuità.
Un grande album-concept dedicato alla Grecia, in cui si respira aria di deserti e canyon americani, di Mediterraneo e arcipelaghi.

lunedì 23 maggio 2011

Saxon Shore - It doesn't matter (2009)

Inizia con un bel giro di piano riverberato, Nothing changes. L'educato svolgimento ricorda le parti più morbide dei primi Mogwai, così come il crescendo fino all'assordante esplosione noise. Ovvero, i luoghi comuni più facili e prevedibili.
Il quintetto americano (componenti misti da più stati) cerca di trovare il suo spazietto con una buona preparazione di fondo e tanta voglia di emozionare. E gli storici scozzesi sono un punto di riferimento anche nel passo marziale di Thanks for being away, più simile alle cose degli ultimi 7-8 anni. Ma nella parte centrale del disco hanno la forza di tentare la mescola delle carte, e subentra una venatura shoegaze quasi inaspettata (This place, con una guest vocalist non proprio fenomenale), quando non squisitamente wave-4AD (Bar clearing good times), o simile ad una versione post-rock dei Piano Magic (Tokyo 4:12 a.m.).
Non mancano momenti molto suggestivi, come le elegie cameristiche di Goodnight so long e Small steps, o lo slow-core spaziale di What keeps us up. Peccato però che non manchi neanche una bruttura imbarazzante come Sustained combustion....
Ma tanto siamo alle solite: i Saxon Shore sono riservati esclusivamente ai fanatici del settore e faranno molta fatica a trovare consensi critici.

domenica 22 maggio 2011

Disappears - Live in Bronson 19-05-2011











Inizia proprio dal Bronson il secondo tour europeo dei Disappears dell'anno. Il quartetto forse più tradizionalista che sia mai uscito dalla Kranky oltretutto si fregia della presenza di Shelley dei Sonic Youth in sostituzione del batterista originario di cui hanno dovuto affrontare la defezione.
Fosse stato un gruppo qualsiasi, forse non mi sarei neanche mosso. E' la presenza di Brian Case che mi ha attirato: essendo un fan sfegatato dei 90 Day Men, non c'era miglior occasione di rivederlo anche se non è che impazzisca per i Disappears; il cui sound è quanto di più distante dal glorioso quartetto che anni fa vidi due volte in quel di Bologna, che a distanza di tempo resta una delle espressioni più originali mai sentite negli anni '00.
Un sound acido, urticante ed ossessivo che ricorda lo psycho-pop della seconda metà degli anni '80 (penso a Jesus and Mary Chain e Spacemen 3), oppure ai Loop nelle pieghe più scure, e addirittura ai Fall quando le ritmiche si fanno più spiccatamente post-punk (anche per il declamare atonale di Case che può far tornare in mente E. Smith). Non trovo sinceramente molte affinità con i Sonic Youth come letto su alcuni articoli, dal momento che i Disappears hanno un feeling molto europeo. Quindi, musica più immediata e parecchio più elementare dei 90 Day Men. Non che sia un difetto, ci mancherebbe. E' solo questione di gusti, in fondo.











Ad ogni modo, la prova live è elettrizzante e funziona bene. Il Bronson è desolatamente vuoto, assistono neanche una cinquantina di persone ma il problema "chiacchiericcio bar" non esiste. I Disappears invadono il locale con volumi a dir poco assordanti ed una carica propulsiva contagiosa con i loro passi serrati.
Mi pare che Shelley sia al suo primo concerto, vista la sua continua ricerca di sguardi del bassista che maneggia bene un Gibson diavoletto. Case ha il microfono impostato su un pesante riverbero che distorce anche i brevi annunci parlati e svolge un'esclusiva funzione ritmica con la sua Jaguar, muovendosi costantemente come un matto. Alla sua sinistra, il chitarrista solista (che somiglia ad un giovane Brian Ferry con tanto di ciuffo) impagliato a gambe unite su una ES di cui rompe il Mi cantino al secondo pezzo: senza fare una piega, continuerà tutto il live senza neanche sostituirla.











Con le orecchie che mi fischiano per i volumi assurdi, vado a fare due chiacchiere con Case al banchetto del merchandising e gli ricordo con nostalgia le puntate dei 90 Day Men. E' sempre la personcina squisita di allora e quando non suona fa il barista a Chicago, un lavoro che gli permette di avere tempo libero per dedicarsi ai Disappears. Gli chiedo che fine abbiano fatto gli altri due componenti scomparsi dalle scene e scopro che il batterista Kay ora fa del metal (!), e lo fa peraltro molto bene a suo avviso, mentre di Lansangan si sono perse le tracce.
Mi rammarico del fatto che non sia venuta gente a vederli, ma lui alza le spalle con fare disarmato e declama un Oh, it's ok!

sabato 21 maggio 2011

San Agustin - The expanding sea (2003)

Il lavoro dei georgiani è una di quelle musiche che richiedono molta calma. Per ascoltare questo kilometrico live occorre armarsi di pazienza e cogliere le sfumature del suo articolato cammino.
Non potendo trovare una definizione precisa, li riterrei dei Dirty Three con un altra chitarra al posto del violino (Daniell, discreto visionario) e con uno spirito meno barocco.
Si sa, quando si fa dell'impro pura il rischio della noia è sempre dietro l'angolo. Ma i San Agustin presero una loro strada (non so se esistono ancora, è da 8 anni che non pubblicano) puramente personale: tutti i pezzi sono senza titolo, qualche album anche, gli artwork scarnissimi. In questo live vengono riprese registrazioni effettuate in 15 giorni, nel corso di un tour europeo del 2001. Il loro stile è fatto di lunghi drones iniziali, melodie appena abbozzate, carburazioni lente, e le fiammate mai sopra le righe. Si sente una radice lontana di folk & blues che affiora, ma le elucubrazioni affondano a piene mani in un sentore desertico che richiama non a caso lo sporco trio australiano. I due chitarristi girano attorno se stessi senza mai invadere il rispettivo campo, c'è un valido batterista che sembra avere un retroterra jazz.
Nonostante qualche momento di stanca, Exploding Sea trova luce propria manmano che il disco prosegue fino a raggiungere il climax finale nella splendida Zurich, immortalata nell'equinozio di primavera. Proprio come un caldo risveglio della natura.

mercoledì 18 maggio 2011

Sackville – The Principles Of Science (1999)

Breve ed intenso, l'EP finale di una carriera altrettanto breve e poco fruttifera per il quintetto di Montreal che nonostante l'importante esposizione di Constellation Records finì per sciogliersi.
Coordinati su un gentile e pacato folk elettrificato, sapevano toccare alcune giuste corde dell'anima per spiccare discretamente in un genere affollato come quello di competenza, con un violino essenziale a dare quel tocco di country cameristico che non guastava affatto, ed un uso curato delle educate vocals.
Se penso ad un collettivo odierno come i Balmorhea, occorre dire che i Sackville erano perfettamente in sintonia con i tempi e credo che li abbiano influenzati (si ascolti Blue Lips, per credere), sebbene più flemmatici. Da menzionare la tenue ballad autunnale If his shadow moves on the water e soprattutto la meravigliosa Four alarm fire, degna delle creazioni più riflessive dei grandissimi, indimenticati Rex.

martedì 17 maggio 2011

Sabres Of Paradise - Sabresonic (1993)

Uno dei massimi guru della musica rave inglese, Weatherall, insieme a due membri di Aloof, alle prese con una digitalizzazione meno marchiana, diciamo pure con una versione raffinata di techno. Il progetto non durò molto ma questo Sabresonic fu uno dei migliori dischi del genere degli anni.
Il bpm sostenuto è ancora piuttosto presente (Still fighting, Smokelbeck), e le sequenze molto circolari come da copione, ma la scaletta sapeva variare nel modo giusto. In Smokelbeck ad esempio c'è un bel giro di flauto sintetico che stempera il flanger ossessivo del beat. Ano electro (Andante) e il suo contraltare (Allegro) fanno bella mostra di catarifrangenti chincaglierie soniche, R.S.D. è un electro-dub all'altezza degli Orb contemporanei. La perla del disco però non ha quasi nulla a che vedere con la techno: Clock factory tiene fede al proprio titolo con un quarto d'ora minaccioso ed ipnotico, circondato da ticchettii, rintocchi e sveglie dilatate. A metà del tempo, il ritmo lento-zoppicante accresce il clangore meccanico dell'orologeria. Suggestivo.

domenica 15 maggio 2011

Russian Circles - Station (2008)

Discreto terzetto chicagoano che, in barba agli inevitabili paragoni che ci si stanca anche soltanto a ripetere, propone il proprio strumentale miscuglio quiet/loud con bravura e perizia.
In questo caso, vanno molto meglio col versante meditabondo. Il risultato finale di Station è un po' inficiato dai due pezzi (Station e Young Blood) che mostrano i muscoli con i chitarroni e le fasi serrate, in cui i RC vanno ad anonimizzarsi in campi minati tipici dei Pelican. In Harper Lewis si rischierebbe lo stesso destino, ma è la struggente seconda parte della composizione a riscattare il bilancino.
L'apertura di Campaign è un bucolico soundscape in pieno EITS-style, cosicchè i pezzi migliori sono i due restanti: l'ipnosi galattica di Verses e l'elementare stasi gotica di XAVII, di effetto sicuro.
Solo per intenditori stretti.

mercoledì 11 maggio 2011

Arthur Russell - World of Echo (1986)

Forse non basta una vita intera a scoprire tutta la musica bella che è stata prodotta. Non tanto per la cronica mancanza di tempo, ma per i nomi che sfuggono, di cui si legge qualcosa che non colpisce l'immaginazione, o semplicemente per passaparola mancanti. Fino a pochi mesi fa non sapevo neanche chi fosse stato A.R., prima di essere folgorato da questo disco.
Russell era un casinista inguaribile ed incontentabile. Un critico scrisse che in tutta la sua vita "non arrivò alla versione definitiva di nulla". World of Echo in effetti è una lunga serie di bozzetti registrati in completa solitudine, ma se questa è l'incompletezza, allora mi piace parecchio.
Voce, violoncello filtrato ed effetti elettronici. Stop. Le ariose songs, così orecchiabili ed accattivanti ma rese arzigogolate dall'impianto inusitato, catturano continuativamente.
E' tutto molto spaziale: il cello passa attraverso distorsioni e trattamenti riverberanti (uno dei capolavori, Being It, gioca anche sui passaggi stereofonici da un canale all'altro), gli effetti elettronici sembrano proprio quelli mutuati dalla disco di cui era agitatore ma ovviamente in queste atmosfere galleggianti hanno tutt'altro esito. La voce, flebile, si inerpica sulle scale melodiche con fare trasognato (See-through, altro titolo che svetta). Let's go swimming fu uno dei suoi singoli da ballo di maggior successo, ma qui acquisisce una veste neo-classica da brividi.
Ne cito solo un trio, ma tutti e 18 gli episodi sono tasselli di un prototipo levitante che sbandierava un talento innato quanto inquieto.

martedì 10 maggio 2011

Run On - Start Packing (1996)

Indie-rock interessante da New York, nella formazione che comprendeva il giovane chitarrista Licht, in seguito destinato a prove soliste e in coppia con L.M. Connors, all'insegna della sperimentazione e all'impro di ricerca a 6 corde.
Scrisse Blow Up, a proposito, che erano l'aggiornamento più plausibile alla new-wave dei Jefferson Airplane. Non male, come trovata giornalistica: sebbene avessero 0% di tasso psichedelico nelle vene, i Run On avevano un senso della melodia spiccatissimo ed infarcivano le loro pop-songs con soluzioni strumentali diagonali. La cantante Garner aveva una voce fragile ma epica (memore di Patti Smith), e Licht era protagonista disturbatore coi suoi feedback maniacali (mixato piuttosto basso, occorre dire).
Sono tanti i nomi che possono venire in mente ascoltando Start Packing, ma nel complesso i Run On viaggiavano con disinvoltura per un percorso tutto loro.

lunedì 9 maggio 2011

Ruins - Stonehenge (1990)

Questi folli nipponici. Un power duo tiranneggiato dal batterista / vocalist Tatsuya, con svariati bassisti alternatisi nel corso di quindici anni, fino a restare praticamente da solo ai giorni nostri.
Il tentacolare proveniva dai grandissimi Aburadako di 1985, e varò il rovinoso progetto assieme a Kimoto, debuttando con Stonehenge. Ambiziosissimi ed efferati: sulle prime una versione hardcore dei Magma, spogliati di qualsiasi orpello che non avesse a che fare con la ritmica e potenziati all'esponenza, ma da cui ereditavano le strutture arzigogolate e le vocals enfatiche e teatrali, peraltro in un linguaggio inventato proprio come da Vander & Co.
Ma al di là delle affinità coi francesi, che spesso (a mio avviso) sembravano sfociare in una vera e propria parodia, di odore di seventies qui se ne sente davvero poco. La frenesia folle e i treni ringhianti dei Ruins possiedono il tecnicismo e l'applicazione maniacale tipica dei post-punk giapponesi, e credo che strumentalmente abbiano esercitato una discreta influenza su altri tech-duo che emergeranno nel decennio successivo in altre parti del globo (il primo nome che mi viene in mente sono gli americani Hella, ma anche i Lightning Bolt).
Furia, cervelloticità ed energia inarrestabile. Altro che rovine.

domenica 8 maggio 2011

Rrope - Rrope (1994)

Quartetto ultra-indie di San Francisco, due soli dischi in attivo e una catalogabilità quasi impossibile. Soltanto qualche influenza dei primi Sonic Youth si materializza nella prima parte del disco (Ok Nic), ed esclusivamente per quanto riguarda i maelstrom chitarristici. A volte le vocals e le micro-impennate di tono possono ricordare i Mission Of Burma (Step right up, #23), ma sono solo piccole parentesi perchè i Rrope avevano una creatività eversiva ed ostica che li rese più o meno unici.
Le alternanze forte/piano (Mercury), disorientanti così come le amare risoluzioni di vaga reminescenza louisvilliana (Mission revue), tradiscono un sottile approccio avanguardistico applicato al noise-rock più diagonale. Non a caso, il batterista Gendreau era già allora un veterano della sperimentazione in studio e dei field recordings col progetto Crawling With Tarts.
E la sua esperienza risalta nettamente nella secondo parte del disco, estremamente più ostica, molto meno rock della prima. Fra minacciosi encefalogrammi che oscillano attorno allo zero (Battery Davis, con un flebile giro chitarristico quasi slintiano), stralunati e fratturati strumentali (W. Acre Lament), assurdi collage di pseudo-jazz ed organetti dementi (Axis In Collapse - Ivy Bottles), wall of sound deliranti (Only go around), contiene la miglior sintesi possibile di tutto il Rrope-sound inclusa incursione post-melodica, Stumpfingers.
Un altro nome prezioso nella lista dei grandi ignorati degli anni '90.

sabato 7 maggio 2011

Royal Trux - Twin Infinities (1990)

E' incredibilmente complicato scrivere qualche impressione personale su un disco nella Top Ten di tutti i tempi di PS. Ci si deve scontrare con un preconcetto talmente ingombrante che si rischia di non focalizzare il punto, di non ragionare lucidamente e annotare qualcosa di insensato.
Dopo 3 giorni di ascolti di Twin Infinities, il dubbio resta irrisolto e probabilmente lo rimarrà per sempre. Poco male, PS scrive al riguardo uno di quei dischi che richiedera` decenni per essere completamente assimilato e questo mi consola.
Quindi, in sostanza, non scriverò nulla di fondato. Quando si parla di questo disco, di solito si pone l'accento sull'influenza delle droghe pesanti di cui faceva uso la coppia. Ebbene, la cosa interessante è che in un intervista allo stesso PS Hagerty affermava annoiato che quando lui e la Herrema scrissero e performarono Twin erano assolutamente sobri. Fosse vero o meno, il punto è che questo difficilissimo monumento di freakeria resterà sempre troppo underground per essere discusso e trattato da più persone.
A meno che PS non sia profetico: in tal caso magari ne riparliamo fra altri 20 anni....

mercoledì 4 maggio 2011

Fausto Rossi - L'erba (1995)

Un disco lussureggiante, con testi da brividi, quasi eccessivi, fra autocoscienza e sociale, autodifesa e invettive.
La rinascita di questo artista sempre discontinuo, secondo episodio a proprio nome e cognome. L'erba al primo ascolto spiazza, ma cattura l'attenzione grazie alle liriche e al canto. Ma è da prendere sul serio anche musicalmente; Rossi ha sempre amato circondarsi di musicisti abilissimi, e qui non è stato certo da meno. Un melodismo di ricerca, contrassegnato da una produzione piuttosto nitida, che mette in primo piano il pulsare eclettico di un basso penetrante e le elucubrazioni di una elettrica solista che a tratti si fa addirittura frippiana, come nella title-track iniziale.
Con la struggente e drammatica Solo un respiro autentica il suo status di unicità. Perchè il mio amore è uno stentoreo atto di denuncia e spirale di flanger smorzati.
La desolazione di Chiudi gli occhi si regge su un dolente giro chitarristico. Oppure si applica la rossitudine ad uno pseudo-blues (La scienza il progresso la nuova nobiltà), o al funk (Il vuoto davvero). E alla fine, una sommessa cover di John Cale, Close watch.Inevitabile l'impossibilità di riscuotere un qualsiasi tipo di successo, escludendo il riconoscimento del pubblico indie di allora (grazie anche al fatto che fu disco del mese di Rumore). Nonostante una sommaria accessibilità musicale, quei testi le masse non avrebbero mai potuto assimilarli.

martedì 3 maggio 2011

Rome - Rome (1996)

Chicago, Thrill Jockey, 1996. Tre comuni denominatori che corrispondono a Millions dei Tortoise, ma anche a questo dimenticatissimo trio che realizzò un solo disco e poi, a quanto mi pare di verificare, è scomparso nel nulla. Oppure è stato risucchiato dal buco nero sprigionato da queste sulfuree, spaziali emissioni.
Non erano soltanto coraggiosi e avventurieri, questi romani d'america. Erano veramente avanti, ai tempi in cui il post-rock imperava e la brillante label dava loro l'opportunità di avere una certa visibilità nonostante fossero piuttosto distanti da quelle coordinate.
Alquanto difficile definirli: una specie di dub modificato geneticamente, sfigurato, corroso da samples e da slabbramenti rumoristici, in cui il basso suona in modo del tutto anticonvenzionale, e la ritmica è fratturata. Suoni autenticamente lunari (per l'appunto uno dei migliori pezzi si chiama Lunar White), ai limiti dell'industrial in certi tratti (Intermodal, Radiolucence), refrattariamente statici-ambientali (Leaving perdition, con una lucente melodica in evidenza). L'ultima traccia, Deepest laws, assume i contorni della suite con prima parte a base di gorgoglii allucinanti e seconda improntata su un beat di cassa costante, rullate quasi tribali e samples ronzanti.
Non so quanta percentuale di improvvisazione ci fosse in questi solchi imprevedibili; ma dopo 15 anni occorre rammaricarsi del fatto che non c'è stato un proseguio a questo brillante saggio di avanguardia.

lunedì 2 maggio 2011

Rollerball - Catholic paws/catholic pause (2005)

Interessantissima formazione di Portland attiva da oltre un decennio, di cui purtroppo conosco soltanto questo disco. Affermo purtroppo in quanto, appuràtane qui la qualità, ritengo doveroso approfondire. Peraltro anche info esaurienti in rete, a parte i soliti laconici e asettici MS e FB, sono pressochè inesistenti.
Ma forse non è del tutto involontario. I Rollerball sono una di quelle entità che lascia parlare esclusivamente la loro musica, che rifugge i riflettori e si muove in completa libertà. In CP/CP è molto difficile catalogarli in un contenitore, vista la volatilità della proposta: fra schegge impazzite di jazz canterburiano, astrattismi, elettronica, teatralità, quello degli oregoniani è un viaggio nella natura più selvaggia del free-art. Indugiano sulla forma canzone e poi subito dopo virano verso arditi esperimenti di operette psichedeliche, verso sparute impro-etnicità, se non a rumorismi indiscreti, tutto contrassegnato dal dualismo vocale fra uomo e donna. Il disco inizia alla grandissima con lo splendido barocchismo di Erzulie, quasi dei Black Heart Procession fronteggiati da un Mike Patton d'annata. Sul fronte accessibile spiccano anche l'electro-post-soul di Tipping the tree, il puro canterbury-style di Sores, la coralità stentorea di Tambien, il post-raffinato alla Hood in Quad Four.
Ma a far decollare il disco ci pensano i titoli sperimentali, inusitati numeri di avanguardia dissacrante, tesi come corde di violino, sballati come freak e a dir poco geniali. Il torvo sussurro di Quench, il gorgoglio percussivo di Fucker, i dissonanti dub di So this is that e End of young birds, l'etnica sfigurata di Mantis segue, gli astratti vaudeville di Jack to Jac, Break in your neck e Maime, e mi fermo qui che credo di averli citati più o meno tutti.
Quindi mi urge ascoltare altri loro dischi, dal momento che ne hanno realizzati una buona decina fra lunghi ed EP, chè qui siamo di fronte a mosche bianche dall'ottima tecnica ma soprattutto dalla fantasia potenzialmente illimitata.

domenica 1 maggio 2011

Rivulets - Rivulets (2002)

Poco più di un soffio, le songs di Rivulets sembrano confessioni in penombra, ad espiare esistenzialismi turbati.
A livello cantautoriale, occorre sempre una grossa personalità per emergere. Amundson è cresciuto in Alaska e forse si porta dentro un bagaglio fatto di desolazioni glaciali, di lentezza dovuta al freddo. Un Kozelek scuro, meditabondo e quasi incerto nello sciorinare il canto, fragile.
A parte qualche tonfo sordo di percussione (Tightrope), uno scampanellìo di glockenspiel (Four weeks), una spazzolata di rullante ed un flautino (Barrelling towards), i rivoletti d'esordio scorrono sull'esclusivo percorso di voce e chitarra acustica, di funzionalità.
A svettare sono Swans, Past Life, e soprattutto la stupenda How who, i bozzetti cui Amundson ha cura di sostenere con i toni bassi di rintocchi (credo di un contrabbasso) e bordoni intimorenti di synth.
Nel suo sito, Amundson adotta il curioso slogan di organic shoegaze project. Saranno i dischi successivi a suggellare la sua personalità, sempre più tesa ad un solenne contorcimento interiore.