martedì 7 giugno 2011

Shit and Shine - Jealous of Shit and Shine (2006)

Di solito li si definisce con aggettivi netti come "apocalittici", "aberranti", "colossali" e via dicendo, e non a caso giacchè questo collettivo suole suonare dal vivo con un numero variabile di batteristi (da 4 a persino 15) a supporto dei tre membri fondatori, due dei quali appaiono sempre con una simpatica maschera di coniglio ben calata in testa.
Anzichè rientrare nella schiera di terroristi noisers del decennio zero come Wolf Eyes, i SAS hanno intrapreso una loro saga incentrata sugli strumenti tradizionali, con un ricorso non eccessivo all'elettronica, grosse enfasi sul ritmo e ripetitività che definire ossessive è dire niente (vedi il secondo disco, Ladybird, una furia interminabile senza variazioni). Jealous invece è stato il vero salto di qualità in avanti, proponendo quello che poteva rischiare di diventare una pantomima ed invece si è dimostrato un progetto di estremo interesse.
Lo spirito avanguardistico dei Chrome di Half machine lip moves si agita in più meandri, al punto che se Helios Creed fosse nato negli anni '80 credo che ora suonerebbe proprio così. Gli sfracelli irregolari di When extreme dogs go wrong, l'industrial-punk di No darling, it's a pentragram, lo scanzonato carambolare di Unchained ladies shopper, il collage cupo e rimbombante di There are 2 bakers now, lo scherzetto saturante di Kitten mask, il funk robotico di Hot Vodka, sono quasi sempre condotti da una chitarra acidula ed impertinente che a tratti ricorda il grande terrorista ante-litteram della new-wave. Inoltre, nonostante l'atmosfera sia quasi sempre oppressiva ed incuta sensi di terrore, non si può non notare l'ironia di fondo che affiora spessissimo, anche nell'uso delle voci trovate o come nell'emblematica chiusura, quella Seeing life through a young man's eyes che potrebbe anche essere una sigla per cyber-cartoni animati.
Il punto focale del disco però resta l'episodio principe dello Shit&Shine-style, cioè il mastodonte minimale, Practicing to be a doctor. Questa volta dura soltanto 30 minuti ma a mio avviso è molto più riuscito di Ladybird, in virtù di un percorso che riesce a scavare meglio nell'inconscio dell'ascoltatore. Il riff è ispido e metallosissimo, ma si provi ad inserirlo in un contesto pulito e risulterà quasi pop! Con i molteplici drum-kits che fanno la loro catena di montaggio a sincrono, l'elettronica diventa lo strumento di assolo, fra trapanate in stile dentistico e sveglie belle trillanti. La voce declama il titolo del pezzo con un demenziale, afono baritono ed il piatto forte è servito. Alla metà precisa le chitarre fanno un break di un paio di battute e poi riprendono la grattugia urticante. L'effetto è allucinatorio ma Doctor non mi riesce a stancare neanche dopo diversi ascolti, tanto è riuscito nel suo intento (se mai ce ne fossero stati...).
Lo stop è improvviso, netto, fatale.

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