mercoledì 26 dicembre 2012

Japan - Oil On Canvas (1983)

Registrato talmente perfetto che viene il serio dubbio che sia veramente un live (e il pubblico si sente pochissimo e così lontano....), Oil on canvas fu il canto del cigno per i Japan, documento dell'ultimo tour alla vigilia dello scioglimento.
Beh, credo che pochissimi al mondo abbiano avuto dei rimpianti in merito. E certo non a causa dei Japan, ma era ora che Sylvian prendesse il volo e fu intelligente da sganciarsi anche quando il successo commerciale sembrava in arrivo (e paradossalmente questo disco fu il loro best-seller).
Detto, questo, l'assemblaggio è discretamente rappresentativo, performato con estrema professionalità, senza modifiche notabili nelle esecuzioni rispetto alle versioni in studio. Non voglio entrare in merito alla scelta dei pezzi, semmai sembra mancare un po' il trasporto emotivo; comprensibile vista la situazione umana che regnava all'interno. Neo principale l'esecuzione della divina Nightporter, alla quale togliere il pianoforte è equivalso a toglierle il respiro (non me ne voglia Barbieri).
Quindi, un addio che si poteva realizzare meglio.

martedì 25 dicembre 2012

Jackie-O Motherfucker - Valley of Fire (2007)

Ormai non è che ci si possa aspettare più di tanto dai JOMF, dopo le prodezze di una decina d'anni fa. Col padre-padrone Greenwood sbilanciato sempre più verso il folk bucolico, tocca ai compari di turno incidere più o meno sugli svolgimenti armonico-anarcoidi.
Probabilmente una maggior stringatezza negli ultimi 7-8 anni sarebbe stata più indicata, ma avendo chiacchierato una mezz'oretta buona con il gradevolissimo Greenwood un paio d'anni fa quando sono venuti a suonare a Cesena, lo capisco e lo appoggio nelle sue scelte. In fondo c'è sempre qualcosa di interessante in ogni capitolo di questa lunga saga.
In Valley of fire c'è soprattutto questo pezzo incredibile di 20 minuti, We Are / channel zero che esplora dimensioni allucinogene ed espansioni animose con enorme riuscita. Oppure i 9 di Sing, avvolgente space-rock scandito da una stentorea recitazione femminile. Poco più che dignitosi gli altri due titoli in scaletta, rassicuranti melodie agresti (di cui una cover dei Beach Boys) che forse funzionano meglio da disintossicante temporaneo fra le lievi tempeste elettro-magnetiche sopra citate, piuttosto che per il loro valore intrinseco.

lunedì 24 dicembre 2012

Jack Or Jive - Kenka (1996)

Abbandonate le (pur poche) velleità dark-gothic delle prime prove e rivelatisi al pubblico europeo con il live Kagura, i JOJ pervenivano qui al loro capolavoro, fatto di 14 incantevoli ed abbandonati quadretti per piano e voce.
E a mio parere, tutti di una bellezza e struggimento imponente. Ma occorre sostenere anche che questa è musica che o la si odia o la si ama. Principalmente per la voce di Chako, che potrà ipnotizzare quanto irritare, ma in un certo senso è un po' come fu per i Cranes. I pezzi sono tutti eterei e soffusi, anche se asciutti e privi di qualsiasi fronzolo: musica per levitazioni e melanconie mitteleuropee, per autunni grigi o contemplazioni solenni.

domenica 23 dicembre 2012

Irata - Irata (2010)

Originale formula di hard-rock strumental-contaminato privo di virtuosismi e tutto giocato sul parossismo delle frasi e sui fantasismi atmosferici, che variano dalla compattezza metropolitana dell'apertura Infinite eight (il miglior pezzo) e Slide alle aperture medio-orientali di Lemeloing e Eye of Ra, con una gamma piuttosto ampia al suo interno.
Dicevo, privo di virtuosismi: se il chitarrista Duff ogni tanto sale in cattedra con qualche mini-assolo, si tratta sempre di frasi funzionali e mai pedanti. Leggo in rete che si parla anche di heavy-progressive, ma io non me la sento di condividere: anche se lo stile degli Irata è senza dubbio bello espanso, non ci sono elucubrazioni sufficienti a giustificare la parola prog
La compattezza generale degli schemi, la potenza della sezione ritmica ed una produzione più che impeccabile rendono questo disco un piccolo capolavoro di ciò che non rivoluziona nulla nè introduce innovazioni, ma è fatto dannatamente bene.


sabato 22 dicembre 2012

Richard A Ingram - Consolamentum (2010)

Uno dei 3-4 dischi di pseudo-ambient che ho ascoltato a ripetizione negli ultimi 2 anni è questo splendido Consolamentum, adattissimo per i momenti più quieti ma non per questo così accomodante, anzi.
Ingram è ex-chitarrista degli Oceansize, gruppo inglese di math-prog-pop (almeno così viene descritto, chè non li ho mai ascoltati) ormai disciolto. Descritto da SIB di Blow Up con notevole fantasia come caso limite di dubstep astratto, in quanto possessore di affinità di stati d'animo, il disco è un avventura personalissima fra i meandri dell'elettroacustica ricca di sfaccettature e di misteri tangibili, che poco concedono all'ascolto superficiale ma tantissimo rivelano ai confini del tortuoso sentiero.
Con De Montfort ad esempio, sembra di sentire un Basinski schizofrenico ed in preda a concretismi incontrollabili, a margine di una bellissima frase di piano. La letargia di The consolamentum, per corde striscianti e rarefazioni galattiche, si srotola lungo grevi accordi lentissimi. Beziers è la suite-picco con i suoi 13 minuti di stasi cosmiche, rianimate da un'acustica disturbata ed un climax emotivo da brividi nel finale.
Uno squarcio di serenità arriva con The melioramentum, chiude ...Gd Wll Rcgnz Hs wn con un'altra galassia melodrammatica di drones su cui Ingram conferma anche le sue doti di scrittura, grazie ai netti accordi che catturano il pensiero. 
Sublime, peccato che le prove successive non siano state altrettanto magiche.

venerdì 21 dicembre 2012

Inade - The incarnation of the solar architects (2009)

Dark-ambient policromatica, da parte di un duo tedesco abbastanza veterano: le prime incisioni risalgono ad un ventennio fa.
A volte può destare stupore il constatare che è possibile mantenere fresco e ricco di soluzioni un ambito musicale inflazionato: è vero che il genere in questione è ancora relativamente giovane (escludendo isolate intuizioni degli anni '70, si potrebbe dire che viaggia fra i 25 e i 30 anni), ma sembra davvero arduo ipotizzare commistioni di chissà quale formato.
Pertanto, il lavoro degli Inade si fa apprezzare per la propria varietà, senza esagerare in un verso nè nell'altro, cioè aggiungendo parchi ed essenziali contributi di voci e percussioni e dando un senso di dinamicità all'intero discorso, evitando così di restare fissi nelle fosse melmose degli abusati standard.
Anzi, a tratti verrebbe quasi da mettere in discussione il file under preventivo; un plauso è d'obbligo.

giovedì 20 dicembre 2012

In The Nursery - Koda (1988)

Magniloquente ed imponente, anche emotivo e raffinato, il progetto dei due gemelli inglesi Humberstone prosegue imperturbabile da ormai 30 anni. Una parabola nata in piena era gotica ma sviluppatasi sotto l'ala della classica-sinfonica e con un gusto tutto particolare per le marzialità ritmiche, quando presenti, in questo Koda riconosciuto come uno degli album migliori di tutta la carriera.
Non so se ci fu un concetto dietro la realizzazione, ma ne ho il sospetto perchè mi sembra di cogliere un continuum nell'avvilupparsi delle tracce. Quasi come se fosse una soundtrack, ma non direi per il cinema, bensì per rappresentazioni teatrali. In Koda In The Nursery è un'orchestra sintetica che sprigiona calore mitteleuropeo ma lo fa con rigore simil-teutonico, incupisce con i suoi toni grevi ma in un attimo restituisce il suo sguardo alla volta celeste. Da menzionare fra i momenti più belli Te deum e Libertaire, in cui le ondate emotive riescono a sorpassare l'empasse che di tanto in tanto emergono in sonorità così spiccatamente sintetiche....

mercoledì 19 dicembre 2012

Implodes - Black Earth (2011)

Per me autore di uno dei migliori 3 dischi di tutto il 2011, il quartetto chicagoano degli Implodes è stata una delle recenti sorprese più belle in ambito sub-rock. Saper infondere emozioni ed eccitazione anche dopo ripetuti ascolti nell'ambito di queste sonorità (prettamente chitarristiche) in cui difficilmente ci sarebbe ancora qualcosa da dire è impresa da tanto e va loro dato onore di questo.
Black earth è una mistura potrei dire di shoegaze-space-dark perennemente immerso in quest'aurea drogata, intervallata da esaltanti aperture folk ed ambient che spettacolarizzano il prodotto finale. La disposizione della scaletta è forse il segreto del successo di un disco di cui peraltro ho letto soltanto pareri positivi fra carta e rete; per ogni pezzo a piena strumentazione ritmica c'è uno splendido ambientale dronico mai scontato e sempre diverso dal precedente. 
Ma va dato loro merito anche di aver condensato i minutaggi (la più lunga dura 5 minuti e mezzo) e di aver composto pezzi veramente belli ed epici come Meadowlands, Song for fucking Damon, Marker, Hands on the rail, che avrebbero fatto una gran figura anche nudi, senza la grossa patina sulfurea delle effettate emissioni chitarristiche. E non si può tacere delle incantevoli parentesi folk, come l'iniziale Open the door, il primo minuto di Screech Owl, o il bozzetto di Experiential report.
I nomi di riferimento possono essere tanti, sono già stati scritti e non m'interessa ripeterli: da parte mia riesumerei il ricordo degli amati, dimenticatissimi Magnog, tanto per restare in casa Kranky, a distanza di 15 anni.

martedì 18 dicembre 2012

If These Trees Could Talk - Above The Earth, Below The Sky (2009)

Chissenefrega se il genere ha già espresso tutto il suonabile, noi ne vogliamo ancora.
La citazione è tratta da uno che la pensa come me. Ne vogliamo ancora a patto che sia di livello eccelso, e come già lasciava intravedere il mini d'esordio gli ohioani sanno raggiungere certe cime espressive e soprattutto non hanno fretta. In 6 anni totalizzano 2 album e mezzo, che secondo me è il ritmo ideale che quasi ogni  musicista si dovrebbe dare.
I momenti di emozione fortissima non si contano, ma una spanna sul resto risiede nelle due tracce consecutive che formano il titolo del disco, in Thirty-six silos e in The flames of Herostratus, dai tratti vagamente Isis atmosferici.
Continuate così, ignari...

lunedì 17 dicembre 2012

Idaho - Live in Watt Club, Athens, GA, USA (04-08-2000)

Visto che You were a dick è stata una mezza delusione (e devo dire la prima in quasi 20 anni, quindi ci può anche stare) preferisco buttarmi su un bootleg del 2000 di qualità medio-bassa, tanto per gradire. Il periodo è uno dei migliori in assoluto per Martin, con Hearts of palm in auge e con il ritorno di Barry, appena disintossicatosi.
E la scaletta è quasi un best-of del quadriennio precedente, con l'aggiunta di God's green earth in grande spolvero, una rara Bass Crawl, e le 3 migliori di Alas.
Devono averli amati in quel Watt Club, perchè sono in possesso di un altro bootleg registrato nel Novembre successivo.

domenica 16 dicembre 2012

Iceburn Collective - Polar Bear Suite (1997)

Dopo Meditavolutions l'episodio più fulgido della seconda fase degli Iceburn. Il livello di astrattismo ed interplay fra i 5 raggiungono vette altissime (non a caso fu registrato live), ed anche se gli schemi farebbero pensare ad un disco di free-jazz a cavallo degli anni '70, ci pensano le distorsioni di Densley ed alcune scudisciate doom-metal (vedi l'inizio di Polarity) a stabilirne l'attualità.
Tre suite intorno ai 20 minuti, altissima percentuale di improvvisazione, in una situazione che quasi intimorisce per l'impatto che offre. Non è esageratamente ostinato ed estremista come lo furono gli ultimi 2-3 dischi a fine  decennio. Di sicuro però gli hardcorers che li seguivano all'inizio stentavano a credere alle loro orecchie...

sabato 15 dicembre 2012

Gerardo Iacoucci - Symbolisme Psychédélique (1977)

Pianista, direttore d'orchestra ma soprattutto free-jazzista, il laziale Iacoucci è uno dei più oscuri fra i librarysti meritevoli di menzione. Mattioli definisce questo disco come folle horror-jazz, opinione senz'altro condivisibile anche se la seconda componente mi sembra resti ben confinata in un paio di episodi come la girandola di spinetta di Angoisse e l'assolo di batteria sghembo di Obsession nocturne.
Poi è ok se si vuole inquadrare lo stile pianistico di Iacoucci in un ottica free-jazz, però è tutto così intriso di allucinato astrattismo che diventa quasi impossibile incasellare questi 11 brevi schocks auditivi. Si inizia con un theremin in libertà, cui segue questo piano psychedelico spettralmente riverberato che prelude allo stillicidio con drones terrifici (Alchemie et alambics) nonchè ai peggiori incubi della facciata B. 
Che si disorienta da sola fra strappi inopinabili, schicchiolii gelidi di violoncelli, bordoni industriali simili a perdite di gas, borbottii sparsi di sax, sequenze di timpani tribali; su tutto però regna sempre sovrano il piano  geniale di Iacoucci, che sbotta frasi veloci ed isolate ma semina sempre lo scompiglio.
Ai livelli di Zanagoria e di Di Jarrell, in termini di terrorismo sonoro.

giovedì 13 dicembre 2012

I.A.M Umbrella - Gift Of Roots And Wings (1993)

Coppia mista attiva nella prima metà dei nineties di cui praticamente non si sa nulla. Li sentii sulle frequenze di Tedio Domenicale, le uniche info concrete sono su Discogs, e altrove ho raccattato che erano californiani. Punto. Ma come può capitare in questi casi, è la musica che dopo vent'anni parla ancora da sola per tutto ciò che non si sa. 
Pubblicarono tre dischi, di cui due su etichette tedesche. Era evidente che avessero una forte connotazione europea, in quanto trattavasi di una specie di ambient tribal-esoterica; non era mai troppo cruda per diventare dark ed era troppo astratta per passare il confine dell'industrial. Il risultato è spettacolarmente creativo, anche perchè quando entrano in scena le percussioni (presenti diciamo in metà circa della scaletta) e il flauto suonato dalla donzella Hay le atmosfere si agitano e confondono ulteriormente le torbidissime acque del viaggio. Kitch era il factotum della situazione, in quanto di fatto si occupava di tutti gli altri strumenti, comprese le manipolazioni elettroniche ed i suoni trovati.
Nè ritual nè etnico, ma un'abilissima fusione di tutto quanto sopra citato, I.A.M. Umbrella era un progetto davvero avventuroso. Da scoprire, per gli estimatori del genere o di affini come Voice Of Eye.

mercoledì 12 dicembre 2012

Human Don't Be Angry - Human Don't Be Angry (2012)

Io sono apertamente contrario alla reunion. Ragazzi, non fatelo per favore: non andate a toccare tutti quei ricordi indelebili, non riesumate quella sigla che tanto mi ha fatto sognare. A meno che non stiate morendo di fame, ma non credo sia il vostro caso; continuate le vostre carrierine soliste con i collaboratori più o meno saltuari e percorrete strade diverse.
Ora, questo episodio (piuttosto modesto, ad essere sincero) è in sostanza una lieve divagazione di Middleton dal sentiero di più o meno mediocre cantautorato che ha felicemente intrapreso. Nel 2006, a scioglimento avvenuto, Moffat disse che quasi sicuramente sarebbero tornati a collaborare sotto altre vesti e situazioni. Eccola qua, ed ora basta un dischetto in cui il barbuto suona la batteria in 3-4 pezzi e subito la stampa si scatena e scrive di odore di reunion, di pre-seduta di riscaldamento, di etc etc...
Se le premesse sono queste, no, ripeto, non fatelo. Fra i pezzi con la batteria elettronica, si salva la bella First personal singular. Le cose vanno appena appena meglio nelle vesti dimesse col contributo minimale di Moffat, con la dolente After the pleasure dome e quella Asklipiio che per un momento riesce a scomodare paragoni del.......primo Middleton, quello di 5.14. Ma tutto il resto sembra davvero scarto di magazzino.
Vi ho avvertito.

martedì 11 dicembre 2012

Hugo Largo - Drum (1987)

Nulla a che vedere con This Mortal Coil o Cocteau Twins, degli Hugo Largo sintetizzai già il mio pensiero al riguardo del secondo ed ultimo Mettle. E non è che fosse tanto differente da Drum, ovvero: meraviglie dispensate come se nulla fosse, a partire dall'iniziale Grow Wild, il suo intreccio di bassi proto-post-rock e la sirena Mimi Goese ad incantare. 
Ok, unico paragone possibile certi Dead Can Dance, ma con cautela; le delicatezze degli HL poco avevano a che fare con la musica etnica, bensì si dirigevano in un'area mistica ed estatica. Altri vertici oltre all'intro sono la tesa Scream tall, con splendide punteggiature di violino, la vaporosa Country. 
Drum fu prodotto dal giovane Michael Stipe, che in un paio di occasioni si ode emettere qualche controcanto, e che li portò persino in Italia. Anni ruggenti, gli indipendenti....


Hood - Rustic Houses Forlorn Valleys (1998)

La prima vera perla del catalogo Hood, pregna di quelle intuizioni che lo renderà autentico progenitore del capolavoro Outside closer. Quindi atmosfere rarefatte e melanconiche, ambient-rock, infusi Bark Psychosis, elettronica sparsa e iniezioni massicce di violini.
E grandi, evocative composizioni, in un flusso di coscienza dai confini sottilissimi, quasi un continuum filosofico-esistenziale. Rette dalle fragili arpeggiature di chitarra, le composizioni scorrono delicatamente ambientate in un contesto, per citare il titolo, rustico. Me li immagino, intenti a suonare in un vecchio cottage immerso nelle brughiere autunnali. 
Su tutto, Your ambient voice e The Leaves Grow Old And Fall And Die. Ma sono sopra di neanche una spanna sul resto.

lunedì 10 dicembre 2012

Il Quinquennale di TM


La classifica dei preferiti dai visitatori

1) BLACK KEYS Magic Potion
2) GODSPEED YOU BLACK EMPEROR! F#A#(Infinity)
3) DEATH CAB FOR CUTIE We Have The Facts And We're Voting Yes
4) WILCO Yankee hotel foxtrot
5) REPLACEMENTS Tim
6) MISSION OF BURMA Vs.
7) HELIOS Eingya
8) MERCURY REV Deserter's Song
9) CURE Three Imaginary boys (Deluxe Edition 2005)
10) FLAMING LIPS Telepathic Surgery


...e 760.000 motivi per continuare ad esistere....

domenica 9 dicembre 2012

Heroin in Tahiti - Death Surf preview (2011)

Sample di 3 tracce pubblicato su Bandcamp dal duo romano che include uno dei miei giornalisti preferiti degli ultimi anni, forse quello che più ha illuminato le mie ricerche oscure in quell'universo ora imprendibile che una volta veniva definito underground.
Si scrive di solito che i giornalisti sono musicisti frustrati che non sono riusciti a concretizzare le loro idee e/o intuizioni. Valerio Mattioli ed il suo compare Francesco De Figuereido semplicemente imbracciano le chitarre, azionano i loro generatori elettronici e ci danno dentro con una psichedelia di ennesima generazione, quindi figlia di questi anni, quindi si diceva ipnagogica.  L'influenza di Sun Araw è palpabile a livello di attitudine anche se qui si resta sullo strumentale, ci si muove perfettamente a metà strada fra i rimbombi dei primi dischi e gli esotismi sfatti degli ultimi.
Dirò di più, con una puntina di blues (Death Surf), che in questo contesto stona non poco. Ma qui il fattore stoner rientra nelle regole del gioco.

sabato 8 dicembre 2012

Helmet - Born annoying (1993)

Essenziale, essenziale anche se compilato e disomogeneo, Born annoying fu un omaggio che gli Helmet si sentirono in obbligo di fare ad Hazelmayer dopo essere passati su major ed aver ottenuto un ottimo riscontro commerciale.
Le tracce sparse, i demos, i singoletti, c'è più o meno tutto ciò che fecero nei primi anni e non confluì sul ciclopico Strap it on. E anche se il pezzo forte è proprio un outtake da esso (Taken, manco due minuti micidiali con un grandissimo Stanier), è testimone di una felice incertezza direttiva da parte di Hamilton.
Tralasciando le cover (Oven è un po' troppo calligrafica per insinuare i Melvins, ma Primitive ha molto più tiro dei Killing Joke), c'è varietà di stili. Shirley McClaine e Geisha to go richiamano proprio il gruppo di Jaz Coleman in una chiave ultra-massiccia con ottime aperture melodiche a dimostrare che Hamilton sapeva anche scrivere buoni pezzi, Rumble è un tour de force strumentale pauroso. La rovinosa title track è presente in due versioni, l'originale del 1989 e una ri-registrata nel 1993: quasi superfluo dire che la prima stravince.
La versione originale di Your head, invece, fa da passaggio di testimone alla seconda fase degli Helmet, quelli di Meantime: alternative noise di qualità, ma incomparabile alle prime prodezze.

venerdì 7 dicembre 2012

Hella - Hold Your Horse Is (2002)

Guazzabuglio math-rock da rimanerci secchi al primo ascolto. Il primo nome che viene in mente sono i Don Caballero, di cui questi primi Hella si potrebbero definire una versione stilizzata.
O polverizzata, perchè le gragnuole strumentali di questi due matti avevano un sound molto simile ma differivano da Che & Williams proprio per la micro-frammentazione. Il chitarrista Seim impazza con i suoi velocissimi legati e gli accordi secchissimi, il batterista Hill si rende protagonista di un immane lavoro di scomposizione e ricostruzione di poliritmi.
Si sa, quando c'è una tecnica importante si corre spesso il rischio di stancare. Ma appresa proprio la lezione dei DC (o degli Slint di Tweez, di cui si possono udire reminescenze), qui gli Hella hanno saputo realizzare un discone di lucidissima follia che sorprende ad ogni angolo che si gira.

giovedì 6 dicembre 2012

Helios - Live at the Triple Door (2008)

Viste le sue capacità cinematiche, immagino un live di Kenniff con dei video proiettati alle sue spalle, in una sala in rigoroso silenzio. Non so com'è il Triple Door di Seattle presso cui ha registrato questo live autoprodotto, ma a giudicare dagli applausi c'erano pochi intimi e sì, per fortuna facevano silenzio.
Ci sono otto tracce e lo potremmo anche definire un piccolo best of, perchè se dovessi introdurre qualcuno all'arte di Kenniff indicherei sempre Eingya. Lo immagino muoversi con grazia fra la sua languida chitarra, le delicate tastiere e un laptop che dà il via alle ritmiche e ai loop di supporto.
Le esecuzioni non sono un granchè diverse dagli originali, ma c'è anche un inedito straniante, la sinfonia cosmica stratificata di Even today. Ci sono alcune perle principali del repertorio, A mountain of ice, The toy garden, Come with nothings. E viste le sue conclamate capacità di produttore, il suono è limpido come se stesse suonando qui, ovunque ci si trovi.
E' per i fan più accalorati dalla magia del ragazzo.

mercoledì 5 dicembre 2012

Heliogabale - The Full Mind Is Alone The Clear (1997)

Quartetto francese attivo da una ventina d'anni nell'underground alternativo più sui generis, ma che nel decennio scorso diradò notevolmente le uscite al punto che pensavo non esistessero più. Non ho sentito gli ultimi prodotti, ma questo The full mind è da rivalutare assolutamente se non da riscoprire; in tempi non sospetti Blow Up ne parlò molto bene e ci credo.
Basta solo citare il fatto che il chitarrista Thiphaine, autentico master della situazione, ha collaborato nel 2009 con gli Oxbow in occasione del loro Songs of the french, e la garanzia è sicura. E' lui il protagonista indiscusso dell'art-noise degli Heliogabale, in grado di rivaleggiare ad armi pari con Duane Denison in termini di incisività e creatività. Ma il resto del gruppo non sfigurava affatto, con la sezione ritmica a snocciolare tempi dispari e a godere della produzione di Steve Albini, altra sicurezza in termini di rendimento. Alla voce la Andrès riusciva a mantenere una certa angosciosa femminilità nonostante la crudezza degli ambienti. Un assetto micidiale che non ha nulla da invidiare ai nostri Uzeda, dovendo trovare un parallelo a tutti i costi.
Il disco è lungo, muscolare ed articolato ma non cede neanche un attimo in tensione. Si sfiorano incroci pericolosi fra Jesus Lizard e la prima PJ Harvey, fra Shellac e Oxbow nel giro di pochi secondi. 
Per chi ha amato queste sonorità nei '90 e se li fosse persi, è un must.

martedì 4 dicembre 2012

Heligoland - Heligoland (2000)

Lato oscuro dei Talk Talk, uomo ombra fondamentale, Tim Friese-Greene ad inizio anni '90 si eclissò dalle scene. E come Hollis tornò a fine decennio con un nuovo progetto in cui finalmente si metteva in mostra.
Conosco Heligoland da poco tempo; al primo ascolto mi sarei aspettato tutto tranne che un disco di indie-rock chitarristico fragoroso ed angolare, con pochissime uscite da questo seminato (l'astrattismo fiatistico di Relapse, quasi una ripresa al bromuro di Chameleon day),
Aveva prodotto Ferment dei Catherine Wheel e da allora aveva collaborato come tastierista nei loro dischi successivi. Il lavoro delle sei corde è meno d'impatto rispetto a quello del gruppo di Dickinson in favore di un approccio più arty, e alla fine l'impressione è che la maggior influenza siano i Radiohead di The bends e degli EP ad esso circostanti, zona My iron lung.
Il che non fu un gran risultato, a dirla schietta. Anche perchè la voce di Friese-Greene è veramente scarsa, e con un canto serio i pezzi forse avrebbero funzionato meglio. Ma era lecito aspettarsi qualcosa di più spessorato.

lunedì 3 dicembre 2012

Heirlooms Of August - Forever The Moon (2011)

Saluto con enorme piacere il debutto solista di Jerry Vessel, umile gregario giunto ad un disco da protagonista. Fu bassista per tutta la vita dei Red House Painters e ne fu l'unico a strappare un credito compositivo a Kozelek, risultando co-autore di quel colosso di bellezza che fu Helicopter.
L'avevo dato per disperso da tanti anni, ma in realtà era tornato come membro live dei Sun Kil Moon ed ora Kozelek gli pubblica Forever the moon per la sua Caldo Verde. Ed è un disco intimo e vibrante di emozioni folk con arrangiamenti alt-country, in un tripudio raggiante di acustiche, slide e violini.
Basterebbe la title-track a far saltare sulla sedia, una meraviglia sognante degna dei primi RHP. Anche perchè curiosamente la voce di Vessel, seppur sempre doppiata da una gentil donna, ricorda alla lontana proprio il tono più intimo e confidenziale di Kozelek. Ma ci sono anche Marianna's peace, Ukulele Song e Incidental music for oboe a tenere alto il vessillo della media compositiva, mentre il resto si muove in un cantautorato meditativo che, salvo qualche caduta stucchevole, è riconducibile anche a Barzin.
Chissà, è possibile che Vessel avesse in serbo questi pezzi da molti anni, magari proprio da quegli anni?

domenica 2 dicembre 2012

Head Of Wantastiquet - Dead Seas (2010)

Lo vidi suonare dal vivo ancor prima di sapere chi fosse, lo statunitense Paul Labrecque. Un paio di anni fa, in quel buco infame in cui cacciarono a performare i Red Sparowes invece di ospitarli al Locomotiv. 
Questo non più giovanissimo chitarrista si mise a sedere nella più religiosa concentrazione con archetto e banjo elettrificato e iniziò una lunga suite a base di stratificazioni per chitarra acustica, loops e pedalistica varia. La composizione in sè mi sembrò alquanto noiosa ma la progressione del suono verso le rovine galattiche su cui andò a sbattere mi impressionò e non poco.
Su disco, Labrecque denota uno spirito folk forestal-agreste piuttosto mistico e visionario, che privilegia le atmosfere alla seppur buona tecnica, fatte salve alcune incursioni di elettrica che vanno a sconfinare in territori quasi psichedelici o in bordoni dronici appena appena increspati.
Così, le 11 composizioni finiscono per essere abbastanza varie da non annoiare, ma neanche per entusiasmare. Potrebbe sembrare scontato affermare che in questa branca è già stato creato tutto e non c'è più nulla da aggiungere, ma mi limito a concludere che Labrecque è un free-folk-menestrello dignitoso.