venerdì 23 maggio 2014

Pausa

Mi fermo per un po' di tempo. Troppa musica nuova da scoprire, curiosità da togliersi, vecchi cuori da rispolverare, cimeli di Vlad da ascoltare (per non parlare di quelli da ascoltare, e subito). In pratica, mi devo aggiornare e il tempo per la musica scarseggia.
Nel frattempo, nella speranza di andare a visionare qualche concertino e soprattutto di non assistere a qualche cataclisma che vìoli le nostre liberà di espressione, una classifica di gradimento degli ultimi 15 mesi alla quale probabilmente ne seguiranno altre per soddisfare in prevalenza la mia curiosità statistica:


Grazie ai circa 100 visitatori quotidiani
Arrivederci, a successivamente.....

giovedì 22 maggio 2014

Zzzz - Palm Reader (2005)

Dopo lo scioglimento dei grandi Sweep The Leg Johnny, Sostak ci riprovò con questa nuova formazione. Il suo stile al sax, non virtuosistico ed estremamente pulito e funzionale, forse poteva avere più sbocchi creativi in un contesto in cui fosse la regola e non l'eccezione. Gli Zzzz non ebbero fortuna perchè a Palm Reader non ci fu alcun seguito ma l'esperimento era molto interessante; con lui c'era una pianista / cantante ed un'ottima sezione ritmica, niente chitarre.
Trattavasi di un art-alternative un po' teatrale e mutante, pieno di controtempi e contrappunti, al limite del prog-rock meno pomposo (ambito che gli Sweep avevano peraltro sfiorato nei loro ultimi giorni, e non molto lontano da certi spunti in Panda Park dei 90 Day Men dell'anno prima). Il diaologo fra sax e piano, oltre che fra voce maschile e femminile, era il piatto forte. C'era da migliorare a livello compositivo, ma le premesse erano buone (Railroaded e Ultratumba).
Senonchè di Sostak, da allora in poi, non sono più giunte notizie.

mercoledì 21 maggio 2014

Zzz - Running With The Beast (2008)

Millesimo gruppo new-wave della new-wave della new-wave, con la particolarità di essere olandesi. Al primo ascolto dei primi pezzi (Lover, Spoil the party) ho pensato oh ecco, finalmente qualcuno che prova ad imitare i Teardrop Explodes. Quelli di Everybody wants to shag, intendo, postumi e più elettronici, complice il pesante apporto di tastiere (anche il farfisa) ed una voce che alla lontana può ricordare quella di Cope.
Nella seconda metà del disco però le cose non girano per il verso giusto e si degenera in una mutuazione un po' troppo esuberante, mixando troppe cose in poco spazio e senza il criterio giusto. Il disco è frizzantissimo e coloratissimo, ma manca un po' di personalità (e poi perlomeno Closer bisognerebbe lasciarlo riposare in pace, che diamine).

martedì 20 maggio 2014

Zu - Carboniferous (2009)

Non sono mai stati così duri e rumorosi come in questo, ultimo album (a proposito, che fine hanno fatto?), al punto che le complesse acrobazie dei dischi precedenti qui si sono quasi dissolte per far spazio ad un magma sonoro spaventoso.
Averli visti dal vivo è stata un'esperienza così totalizzante che quasi mi contraria, Carboniferous. Sì lo so, mi è capitato con altri gruppi e questo mi auto-giustifica. Le tensioni spasmodiche che si dipanano quasi senza tregua non lasciano molto spazio all'immaginazione: si traducono semmai in una specie di un noise-rock futuristico che, se perpetrato, potrebbe portare novità rilevanti in futuro. Ma su disco erano meglio prima.

lunedì 19 maggio 2014

Zs - New Slaves (2010)

Avamposto dell'avanguardia free-noise, i newyorkesi Zs sono uno di quei gruppi che ascolti, riascolti, assimili, magari li digerisci anche ma poi c'è sempre qualcosa che ti sfugge, che non riesci ad inquadrare.
Qualcosa a metà strada fra gli Aufgehoben e i Black Dice: dei primi hanno l'impeto free e fragoroso alternato a pause sconcertanti, dei secondi hanno l'attitudine di rimasticamento globale e le intrusioni elettroniche. Il sax, che raramente si sente col suo suono naturale, è lo strumento guida di questo serpente impazzito che da dove lo prendi ti sguscia via. La chitarra sferza stridente ed acidissima, le percussioni assecondano le strutture rovinose con una maestria che non è così ovvio riscontrare.
La title-track si protrae per 21 minuti in preda ad una unica, colossale convulsione meccanica. La Black Crown Ceremony invece si distende lungo 20 minuti di sinistre stagnazioni. Questi sono gli estremi di New slaves, all'interno di cui sorgono altre questioni di impossibile risoluzione. 
Super-originali.

domenica 18 maggio 2014

Zoogz Rift - Water II (At a safe distance) (1987)

Forse influenzato dall'annessione al catalogo SST, nella seconda metà ZR finì per indurire leggermente le proprie sonorità. Per capirlo basti ascoltare il riff dell'iniziale, compattissima Sleazeball e della rocciosa Halloween, lo strumentale Walk don't run, o la costipatissima Strictly el segundo. Oppure notare come il suo timbro vocale sia spesso distorto e sgolato. Probabilmente il suo disco più rock.
Comunque, ben lungi da parentele hardcore o affini, anche Water II è un manualetto di stranezze assortite come ci si poteva aspettare. Ci sono ancora i collages dell'assurdo (Ah peeked in duh..., con tanto di citazione di Frank Zappa, la demente Sweet nausea lick), forse all'appello mancano le sue gustose vignette kitsch ma ad elevarsi c'è I can't do this with you looking at me, strumentale allucinato per synth e ritmica sghemba. Ed il valore aggiunto costituito da un suono di batteria sano e secco, non scontato per i dischi di quegli anni.

sabato 17 maggio 2014

Zoogz Rift - Idiots on a miniature golf course (1979)

Nonostante una carriera di infima popolarità all'ombra dei grandi padri putativi Zappa e Beefheart, l'opera geniale di questo mattacchione resiste al tempo e all'usura, mostrando tutto il suo eclettismo e le trovate sardoniche che ha saputo mettere in musica.
Debutto in solitaria, Idiots è un ineffabile miscuglio in cui ci si può trovare un po' di tutto, ma che condenserei in un gag-cabaret-jazz-funk-math-rock spensierato e auto-complicato, con dei bravissimi musicisti a spalleggiare il folle (in rilievo sax e vibes a colorire, nonchè la perfetta sezione ritmica). Musica che sfiora il demenziale ma se ne allontana un passo prima, che diverte e disorienta. Possiamo trovarci delle vignette esilaranti talmente kitsch di cui non si può fare altro che amare (l'eccezionale What can we feed to the lions, The rabbit and the lady, Dinkle dance, Lazy Susan), numeri di soft-jazz da club dell'assurdo (Golden showers, You can go fuck yourself), funk caustico (The night they all came out), hard-rock da cartone animato (Ostriches have sex too you know) anticipi clamorosi su Primus (The great apes ate grapes), e sui Minutemen (Judge Bludge). 
Immagino che la comprensione delle liriche potrebbe dare soltanto valore aggiunto al significato dell'operazione, ma per il momento mi accontento del fenomeno in sè.

venerdì 16 maggio 2014

Zola Jesus - Versions (2013)

Così, la Danilova ha finito per utilizzare il suo talento diventando di fatto una performer pop, nel senso che il materiale successivo agli esordi ha denotato una spiccata propensione al melodismo. Nulla di male, sia ben inteso; peccato che a ciò non sia corrisposta un'adeguata dote compositiva soddisfacente.
Che sia smania di successo o vocazione naturale non interessa, ciò che conta è che la strana dark-girl degli inizi si è trasformata in una performer dalla bella voce espressiva ma dai contenuti un po' banali. Questo Versions potrebbe quindi apparire diabolico, visto che insiste su pezzi di Conatus rivestendolo però di arrangiamenti da camera.
Detto che neanche il miglior quartetto d'archi di tutta la storia potrebbe ricavare oro da materiale scadente, Versions alla fine non è neanche malaccio. L'appiccitaticcio viene smussato e il battito digitale presente in alcuni titoli stride col contesto in maniera discreta. Ormai non la considero più una grande promessa, ma per lo meno con questo si è un po' riabilitata.

giovedì 15 maggio 2014

Zola Jesus - New Amsterdam (2009)

Fin dalle prime, acerbe prove, la neanche ventenne Danilova sembrava promettere bene. Con un background atipico (studiava canto lirico) ed un immaginario un po' torbido ed inquietante, sembrava che si materializzasse una nuova forma artistica di dark-lady molto originale.
Più che un primo album New Amsterdam raccoglie un EP registrato in uno studio professionale più alcune tracce presumibilmente registrate in cameretta, molto lo-fi ed autarchiche. Il primo blocco denota una certa monotonia di fondo: battito costante dei tom e nient'altro, un basso fuzz scansionato ai limiti della macchinazione ed il canto, una specie di fusione atomica fra Siouxsie, Lydia Lunch e PJ Harvey. In 4 pezzi sostanzialmente uguali, spicca più il concetto che non i risultati: prove tecniche di studio e poco altro.
Meglio, molto meglio le tracce casalinghe: New Amsterdam e Lady Maslenitsa, fatte di drum-machine ed organo, sono molto belle ed avvincenti. In Nativity e Be your virgin lo spettro dei Suicide si fa pressante, Little girl e Lady in the radiator sono gospel desolanti a base di elettronica poverissima. Canta con una varietà ed un espressività troppo forte per passare inosservata: i dischi successivi hanno smussato le asperità, e l'impressione è rimasta che avesse bisogno di un partner compositivo che ne esaltasse le qualità.

mercoledì 14 maggio 2014

Zeni Geva - Desire For Agony (1994)

Total castration li fece conoscere al pubblico occidentale, Desire for agony li confermò come eminenza jappo-noise (non japa-noize) di massima rilevanza. Ormai trasferitisi in California, Null e i suoi due compari continuavano a cavalcare la tigre imponente di una follia lucida ed analitica.
Non c'è spazio per la riflessione nè per i calcoli in questo monolite. Se il precedente aveva comunque provato a dissolvere qualche fumo sulfureo, Desire for agony non fa proprio prigionieri. E' una colata di cemento armato che riprende la lezione dei primi Swans e la indurisce, con l'arma in più costituita dalle urla belluine di Null, vera e propria peculiarità. Le loro erano lobotomie che forse oggi non fanno più così paura, ma restano uniche a tutt'oggi.

martedì 13 maggio 2014

Zebulon Pike - Intranscience (2008)

Interessante band americana che cerca di bilanciare metal, post-rock, tecnicismo e progressive senza risultare pacchiana nè narcisistica.
L'apertura di Mirrors of blessed miracles (11 minuti) è fuorviante di come si sviluppa il disco: una girandola in classico stile prog-metal, con i chitarroni dominanti ed una ritmica dispari, di alto tasso tecnico. A parte un breve break di calma a metà strada, resta il meno interessante della lista, sospeso in un maelstrom di piroette acrobatiche un po' abusate.
Star Ocean (16 minuti) migliora decisamente le sorti. Se la complessità delle partiture può chiamare in causa il progressive, l'influenza che odo maggiormente è quella delle zone louisvilliane e dintorni e prosecutori. Qualcuno si ricorda di Engine Kid e A Minor Forest? Furono band che a metà '90s presero la lezione innovativa degli Slint e la fecero invadere dai loro retroterra metallari. I ZP rincarano la dose ed articolano due specie di suite (The Avian Magi, 12 minuti) che suonano molto terrene vista la possenza della strumentazione ma sanno essere cerebrali al tempo stesso. Bravi.

lunedì 12 maggio 2014

Z'Ev - Opus 3.1 (1990)

Fin troppo facile ascrivere i dischi di Z'Ev alla categoria industriale. Ed è un errore, perchè i suoi innumerevoli suoni non hanno nulla a che vedere con le alienazioni e le concettualità dei suoi contemporanei. Partito come batterista jazz in gioventù, a fine anni '70 il californiano ha iniziato a pubblicare dischi composti esclusivamente di percussioni. Oggi è tutt'ora attivo, anche se ormai per la maggior parte dei casi in collaborazione con altri artisti (la lista è interminabile, provengono da ogni latitudine e continente, dai Larsen a Merzbow per dire).
Registrato in una chiesa di Amsterdam, Opus 3 sfrutta alla grande il riverbero naturale del contesto. La gamma dei suoni creati è di una varietà impressionante, al punto che in più di un occasione sembrerebbe di udire qualche emissione elettronica. L'atmosfera svaria fra tempestosità e ritualistica, e l'impressione è che sia davvero tutto composto con mira e precisione.
Chiaro che si tratta di un ascolto molto ostico, ma il risultato è a dir poco imponente.

domenica 11 maggio 2014

M. Zalla - Mondo Inquieto (1974)


Sono molto legato a questa sigla di Umiliani perchè fu suo il primo disco di library che ascoltai consapevole del fatto che essa fosse library: il primo amore non si scorda mai.
E Mondo inquieto prosegue tranquillamente con questa love story senza confini, ormai. Con una cover che sa un po' di lager nazista, è un altra commissione carica di tensione drammatica, per archi, percussioni e pianoforte. Molto lineare e condensato, a tratti persino gotico, forse senza tante sorprese ma strapieno di arie ispiratissime, del carisma del Morricone più alto, per intendersi. A parte il saporito jazz di Boicottaggio e lo sberleffo di sax di Sotto il talone, il mondo inquieto degli anni '70 italiani faceva veramente paura; Umiliani lasciava per un attimo la sua classica spensieratezza, si travestiva da M. Zalla ed imprimeva il suo marchio artistico.

sabato 10 maggio 2014

You May Die In The Desert - International Waters (2012)

Non nascondo un pizzico di disappunto per l'atteso (da me) seguito ai bellissimi EP che erano usciti negli anni precedenti. Per lo meno mi aspettavo una riconferma, ma i 3 di Seattle hanno operato una serie di scelte quantomeno discutibili: 1) intitolare l'album nello stesso modo dell'ep del 2010, creando casino; 2) riprendere gli stessi 4 brani presenti sullo stesso, ri-registrandoli e così facendo ulteriore casino. 3) optare per una produzione stranissima, contrassegnata da una compressione esagerata dei suoni che penalizza prima di tutto il batterista, a mio avviso il punto di forza del terzetto, e poi anche le frequenze alte in generale.
Comunque, se prendessi International Waters LP come il debutto di un qualsiasi gruppo epic-instru, direi che siamo fuori tempo massimo ma il livello è eccelso a prescindere. I 4 inediti presenti in scaletta si focalizzano su una maggior ricerca ritmica ed una chitarra più stridente e chiasssosa, ma con un impatto compositivo inferiore al passato. Con questi si sarebbe potuto fare un buon EP e non stare ad abbassare il livello di International Waters, West of 1848, Monolith e True north che restano infinitamente superiori nelle versioni del 2010. Amen.

venerdì 9 maggio 2014

Yamantaka // Sonic Titan - YT//ST (2011)

Potrebbe essere una via alternativa al progressive moderno, la formula creata da queste due ragazze canadesi di cui una di chiara origine asiatica. L'eredità culturale della terra di provenienza (Giappone?) si fonde con un identità psichedelico-melodica di mirabile impatto, con puntate energetiche fino a lambire lo stoner-rock. La voce, cristallina e acuta, non può non ricordare il famigerato j-pop che può esser giunto alle nostre orecchie in qualche ristorante asiatico, o come sottofondo a qualche cartone animato giapponese.
Il risultato è quasi commovente, perchè le ragazze hanno anche talento compositivo: dopo un minuto di raccoglimento cosmico, la malinconica Queens fiorisce in tutto il suo splendore e viene raddoppiata da Oak of Guernica, un casuale incidente fra i primi Slowdive e i Porcupine Tree di Up the downstairs.
Il cantato in lingua d'origine di Reverse crystal / Murder of a spider stride fortemente con il supporto stoner, per poi evolversi in una solenne levitazione astrale. Il disco riserva una sorpresa dopo l'altra, perchè la seconda metà è l'opposto della prima: il motorik incessante di Hoski Neko, la brutale esplosione di A star over Pureland e l'hard-prog di Crystal Fortress chiudono in crescendo un piccolo capolavoro di globalizzazione musicale.

giovedì 8 maggio 2014

Xiu Xiu Larsen - Duede (2012)

Uscito a 5 anni di distanza dal precedente e secondo episodio della saga, l'ultimo XXL ne conserva tutte le qualità e i limiti, anche se nel suo complesso l'impronta predominante è decisamente quella del gruppo di Palumbo. Lo snodo centrale sta nella lunghissima Oi! Dude!, cavalcata acida ed ossessiva ai limiti dello space-rock che si protrae per oltre 18 minuti; Film me in the laundry 1, Absortion e Krampus mixano in equa misura i tipici contrasti larseniani fra sferzate sintetiche e delicatezze post-rock, ormai un po' vintagistiche. La mano di Stewart si fa marcata nel pezzo migliore del lotto, quella Disco Chrome che compatta e granitica sferra un colpo da k.o con tanto di voce lirica, e nel compassato Vaire in cui la voce fa capolino proprio al tramonto.
L'impressione generale è comunque quella di un divertissment, mentre Spicchiology era più coeso e concentrato. Appena sufficiente.

mercoledì 7 maggio 2014

Xiu Xiu - Dear God, I Hate Myself (2010)

Oltrepassata la soglia del decennale d'attività, Xiu Xiu ormai sembra destinato a sopravvivere grazie alla nomea e al mestiere. Lontani ormai i tempi dei fasti e dei fuochi creativi, Stewart si destreggia con abilità fra il suo arsenale strumentistico, il suo stile fratturato e la sua voce sempre più marchio di fabbrica.
Raramente Dear God sorprende (Hyunhye's theme), affascina per le costruzioni e le arie (Falkland Rd., Impossible Feeling), quasi mai shocka come riuscivano le prime prove. Più che normalizzazione la parola giusta sarebbe una onesta seduta su shemi collaudati che per carità, restano sempre personalissimi ed unici, ma sembrano svoltare pericolosamente su un accessibilità che fa storcere il naso a più riprese (Chocolate makes you happy è troppo wave). Un po' di riconoscimento commerciale se lo meriterebbe anche, però.....

martedì 6 maggio 2014

Xela - In Bocca Al Lupo (2008)

Con questo disco i fans della prima ora di Twells se la sono dati a gambe, sostituiti dagli amanti della dark-drone-ambient più rovinosa e scura.
Il concetto, a partire dal titolo, è horror, meglio se italiano, una suggestione che ossessiona Twells fino ad intitolare i 4 lunghi movimenti in latino, di ispirazione religiosa.
Per gli amanti della categoria, il risultato finale è abbastanza valido. Stupisce, semmai, l'eclettismo dell'inglese, in grado di passare dagli eterei esordi ad incubi del genere e di rilanciare ulteriormente. Dopo l'esilio tremebondo delle prime 3 tracce, la finale Beatae Immortalitatis muta il concetto in un drone-noise (chitarristico?) con tanto di batteria e movimentazioni inaspettate. E' il colpo di coda che fa impennare il giudizio finale di un disco il cui ascolto merita davvero l'augurio del titolo.

lunedì 5 maggio 2014

Xela - For Frosty Mornings and Summer Nights (2003)

Un paio d'anni fa John Twells ha ufficialmente sciolto Xela, il suo monicker quasi decennale. E io dico peccato, a prescindere da cosa farà in futuro (per adesso le ultime cose appartengono al duo Jack Dice, che non ho ascoltato), perchè era ormai diventato uno dei solisti più interessanti per l'appunto, dell'ultimo decennio. Il suo primo album, racconta in un intervista, fu pubblicato in seguito all'entusiasmo di amici che lo spinsero a cercare una label, ed è uno splendido esempio di chill-out non commerciale, non molto dissimile da ciò che Kenniff svilupperà poco tempo dopo aka Helios. Come il titolo suggerisce, musiche adatte a tutte le stagioni, rigidamente elettroniche ma dotate di vibrazioni umanistiche, che sostanzialmente mirano a rilassare l'ascoltatore e trasportarlo oltre, non si sa dove ma in altri luoghi del pianeta. 
Musiche che non sono propriamente ambient, nonostante le premesse. Insomma, un esordio fulminante da cui Twells però si discostò molto presto: dopo un incerto secondo album, con The dead sea svolterà bruscamente verso lidi molto, molto più oscuri.

domenica 4 maggio 2014

Robert Wyatt - '68 (2013)


Non è poi tutta questa reliquia che si dipinge, '68, ma per i wyattiani duri e puri è sempre una bella roba. Sono 4 pezzi accomunati dalla sorgente, ovvero che furono registrati a Los Angeles durante il suo soggiorno solitario. Non sono tutti inediti: il famigerato Slow walkin' talk è più celebre a causa del fatto che Hendrix ci suonò il basso, ma era nota da 20 anni (la raccolta Flotsam Jetsam) e non è certo fra le canzoni più memorabili che abbia composto. Chelsea invece è inedita e sembra una pallida imitazione di A certain kind, quindi va bene per i completisti incalliti.
A me vanno meglio gli altri due titoli in scaletta: c'è una prima versione di Moon In June che denota l'incertezza della creazione della storia della musica, il testo non è quello definitivo, la registrazione è precaria e chi ha compilato l'ha fusa con la parte finale registrata insieme ad Hopper e Ratledge l'anno successivo (da quando il primo attacca il fuzz, per intenderci). Insomma, le premesse non sono delle migliori ma chi conosce questi 20 minuti a memoria avrà di che godere (e mi capisce).
Rivmic melodies è il pezzo di maggior interesse. Trattasi di una forma primitiva del lato A di Vol. 2 dei Soft Machine: non si avevano dubbi che Wyatt avesse tutto in testa, ma non si sapeva che dopo la prima lettura serrata dell'alfabeto, e cioè al posto di Hibou, Anemone and Bear, pensasse a 3/4 minuti di batteria e la sua voce che declama di nuovo tutte le lettere in un flusso scat di assoluta libertà. Evidentemente Ratledge cassò la sequenza in sede di stesura dell'album, mi vien da pensare. Per il resto anche qui la forma è grezza e certi passaggi differenti dalla versione definitiva, ma il documento resta di quelli importanti.

sabato 3 maggio 2014

Robert Wyatt - Dondestan (1991)

Il disco più umile e sommesso dagli anni '70 in poi, chè negli anni 2000 il buon vecchio secondo me non ha combinato un granchè ed è rimasto impantanato in una fanghiglia troppo art-naive, per non dire autoindulgente. Però si sa, parlar male di Robert Wyatt sarebbe un po' come sparare sulla Croce Rossa, quindi si tende sommariamente a sorvolare.....
Fin dall'ipnotico e nebbioso pezzo di apertura di Costa, appariva chiaro che Wyatt era più introspettivo che mai. I droni di tastiera ed il flebile canto incerto lasciavano capire l'antifona, perpetrata da The sight of the wind, cantilena minimalista che si fondeva eccezionalmente con Catholic Architecture: è una musica fatta di pochissimo, se non della magia statica intrinseca dell'uomo e della sua delicatezza infinita.
Smaltita l'inquietudine iniziale, il disco svolta su lidi più sereni e di classe cristallina. Worship, CP Jeebies, Left on man e Lips Service (grande melodia regalatagli da Hugh Hopper) trotterellano elegantemente su un velluto di languido jazz, respirando l'aria limpida di Canterbury e di tutta quella grande generazione.

venerdì 2 maggio 2014

Wu Lyf - Go Tell Fire to The Mountain (2011)

Fin dai primi secondi si accende un piccolo, proibito ed insperato sogno: questi ragazzi di Manchester rappresentano un'ipotetica line up che comprenderebbe Munaf Rayani degli Explosions alla chitarra, un giovane ed invasato Pall Jenkins alla voce e suonerebbe pezzi composti da Brock dei Modest Mouse, in alcune occasioni coadiuvato da Martsch dei Built To Spill.
E' un po' come fare il fantacalcio, s'intende. Però il mix funziona maledettamente bene e l'unico disco pubblicato (si sono già sciolti) è una perla. A mischiare le carte, aggiungiamo il fatto che il cantante suddetto sorregge le composizioni con un tappeto di organo non-stop, il riverbero generale dovuto al fatto che si sono registrati in una chiesa, ed il tasso di originalità sale non poco. Ma le caratteristiche più esaltanti restano la voce (trascinante, lacerata ai limiti dell'esasperazione) e la chitarra (didascalica ed atmosferica) che trainano tutto con una vigoria ed una coesione che sfiora il concept-album. 
Un vero peccato, che sia già finita.

giovedì 1 maggio 2014

Wolf Eyes - Dead Hills (2002)

La peggior cosa che potrei esprimere di Dead Hills è che si tratta di uno pseudo-tributo ai Throbbing Gristle, reali padri putativi del movimento noise degli anni zero. Ciò è la cosa più concreta che mi sovviene ascoltando Rotten Tropics, terza ed ultima traccia di questo fulminante mini-album (22 minuti) ed i suoi singulti percussivi, le spirali di elettronica brada, la voce perversa, il sax impazzito. Ma è solo una riflessione che lederebbe l'originalità intrinseca di un progetto che continua tutt'oggi a produrre con ottimi risultati: se si escludessero tutte le cassette, i cd-r e i live, prendendo come riferimenti discografici soltanto i capitoli ufficiali, i Wolf Eyes starebbero in un piedistallo che non è soltanto noise.
La suite in due parti di Dead Hills è un manifesto: la inizia subliminale, quasi a distanza, gira intorno e poi attacca, feroce. La seconda ha un ritmo meccanico regolare che la rende più industriale, con le svisate di chitarra che fanno questo stranissimo effetto stoner mentre lo sciame di punteruoli sintetici e i feedbacks avvolgono tutto, indefessi e criminali.