sabato 29 giugno 2019

Built To Spill ‎– Live (2000)

La celebrazione di Doug Martsch in chiusura di millennio, di una fase storica permeata dagli esordi ancora imperfetti, un capolavoro assoluto (Perfect from now on) ed un difficile quarto, Keep it like a secret, anch'esso imperfetto ma sublime a modo suo. Live è un disco vanitoso, prima di tutto, perchè fare una versione da 20 minuti di Cortez the killer ed allungare ad altrettanti Broken Chairs significa sprecare del tempo con interminabili sbrodolamenti chitarristici in cui avrebbero potuto eseguire, ad esempio Made Up Dreams o Out of site. I problemi però finiscono qui, perchè bastano versioni epidermiche di I would hurt a fly, Randy described eternity, Stop the show a regalare brividi sulla schiena. Il trio di chitarre fa faville, la flemma è quella della casa, il trademark marchiato a fuoco. Oltre all'omaggio a Santo Nello Giovane, un'altro paio di covers di gruppi oscuri (Halo Benders e Love As Laughter) ed un paio di ripescaggi dei primi tempi completano il quadro. Che è sempre imperfetto, come tutta la carriera di BTS, ma unica al mondo.

giovedì 27 giugno 2019

Screams From The List #84 - Iannis Xenakis - Electronic Music (1997)

In realtà il capitolo di riferimento sarebbe Electro-Acoustic Music, edito originalmente nel 1970, ma questa ristampa del 1997 ha avuto il merito di aggiungere altre due composizioni al poker originario. In tutto fanno 6 numeri composti e registrati fra il 1957 ed il 1992, col filo conduttore del nastro magnetico come strumento di creazione. Effetto finale, il temibile suono elettro-acustico ultra-avanguardistico dell'architetto greco trapiantato in Francia dopo la seconda guerra mondiale, un abisso impenetrabile di fonti sonore così terrene ma alienanti da un qualsiasi senso dell'orientamento. Eccezionali Orient-Occident (con percussioni ad integrare la bolgia) e Bohor, un gorgo industriale di 21 minuti.
Fa letteralmente paura; durante la grande guerra vide la morte in faccia, perse un occhio, ma si riprese a Parigi, diventò architetto e sviluppò delle teorie della "musica" applicata alla matematica. Che gran testa.

martedì 25 giugno 2019

Bluetile Lounge ‎– Lowercase (1995)

Ero convinto di aver ascoltato praticamente tutto dello slowcore quando un po' di tempo fa BU fece un 20 Essentials che non mi aspettavo per niente. Era ora che si tornasse alle radici di quando nacque la fanzine, e la sorpresa dei Bluetile Lounge è stata molto gradita. Si trattava di un quartetto australiano vissuto in diretta all'epoca, che pubblicò soltanto due dischi ma fece in tempo a guadagnare l'attenzione di Sonic Youth e Low, che fecero campagna a loro favore. 
Lowercase è composto di 5 tracce fra i 6 ed i 12 minuti, in un mix inopinato di Codeine e Red House Painters. Un disco svenevole, svanito, dal suono solenne e raccolto. Avrebbe giovato loro sicuramente una voce meno scarsa, ma appare chiaro che era solo un contorno in queste elucubrazioni dell'anima, in questi girovagare trasognati. Le due chitarre, sempre pulite, si impastano nel mix in un cicaleccio costante, lasciando la ritmica in secondo piano.
Al termine del disco vien voglia di metter su The White Birch, ma questo non significa che non si meriti un bel 7,5/10. Sarà anche la convinzione che se l'avessi ascoltato all'epoca, sarebbe diventato un piccolo classico personale. E sì, nel 20 Essentials credo che ci stia proprio bene.

domenica 23 giugno 2019

Cat Power ‎– Moon Pix (1998)

Una Chan Marshall d'annata ci sta, anche soltanto per contrastare le delusioni che ci ha appioppato nell'ultimo decennio. Nell'inverno del 1997 se ne volò in Australia, fece comunella con White e Turner dei Dirty Three e registrò il suo quarto disco, forse il più classico e malinconico della sua prima fase. E' opinione comune asserire che si tratti del suo apice personale, grazie anche al compassato e scarno accompagnamento dei due sodali, ma soprattutto per alcune tracce memorabili come American Flag, Cross Bones Style, Metal Heart, Colors and the kids, litanie a lume di candela, filastrocche tenui in minore, girovaghi rumori dell'anima. Chan, ti ricordiamo così, da tempo non ti riconosciamo più...

venerdì 21 giugno 2019

Claudio Rocchi ‎– Suoni Di Frontiera (1976)

Ristampato ben due volte dalla Die Schachtel prima in cd e poi in vinile, Suoni di Frontiera è il disco electro-library di Rocchi, influenzato dalle correnti tedesche (e perchè no, anche dal primo Battiato) più incompromissorie ma anche dai brevi quadretti di maestri connazionali come Sorgini, Tommasi e Carnini/Zanagoria. Il lato romantico/pastorale del cantautore ha modo comunque di librarsi in maniera piuttosto personale, facendo intravedere qualche bagliore di melodia nella selva di 17 tracce ineffabili, a tratti allucinate, comunque mai gratuite. Disco che rivela sempre qualcosa di nuovo anche dopo parecchi ascolti, e che si è guadagnato le note interne della ristampa da parte di Oren Ambarchi, un tipo che qualcosina lo deve anche a Suoni di Frontiera.

mercoledì 19 giugno 2019

Dymaxion ‎– DYMAXION×4+3=39:21 (2000)

Oscura entità newyorkese, solitamente indicata come un duo anche se la cover sopra raffigura 4 persone col volto coperto da un disco. Già questo in astratto sarebbe un indizio sulla simpatia e/o follia dei soggetto, comunque le info in rete sono pochissime, perchè si fermarono praticamente a questa raccolta che metteva ordine in un poker di singoli/EP pubblicati fra il 1995 ed il 1998, per poi scomparire nel nulla. Peccato, perchè DYMAXION×4+3=39:21 è un vero spasso dall'inizio alla fine, un oggetto volante non facilmente identificabile. Innanzitutto il suono, che sembrerebbe arrivare da qualche cantina umida ben insonorizzata ma attrezzata con poche risorse. Ma soprattutto i 18 strumentali impazziti di art-elettro-post-wave, con un bassone bello contundente, le svisate chitarristiche, le ritmiche saltellanti e l'elettronica vintage a creare scompiglio. Fra i nomi che vengono in mente direi i Can di fine anni '70 (quelli con Czukaj agli aggeggi vari), i grandissimi Swell Maps, certe derive dei Pere Ubu, ma io ci sento persino delle reminescenze del RIO, delle follie jappo, insomma un godibilissimo ed irresistibile calderone di follia.

sabato 15 giugno 2019

Current 93 ‎– The Light Is Leaving Us All (2018)

Passati i bagordi del bellissimo, lussureggiante I Am The Last...., era abbastanza prevedibile che Tibet sarebbe tornato ad una dimensione più raccolta; in fondo, in passato, ogni volta che deviava significativamente dalla strada maestra poi se ne è sempre tornato a casa. Conservati il pianista Van Houdt, il politecnico Liles e l'ossianico Ossian Brown, acquisiti il chitarrista/cantautore Alasdair Roberts e la violinista Boada, DT mette in scena un disco pastorale, dai toni melanconici e solenni, arrangiato in maniera sublime e forte di almeno un poker di episodi eccezionali: Bright Dead Star, 30 Red Houses, Your Future Cartoon, The Kettle's on. Non si parli di classico apoc-folk, per favore, ma semplicemente di una musica da camera austera ed elegante, così come appare oggi il look di Tibet, in completo chiaro anche se un po' consunto, coppola e barba bianca. Ed ancora lunga vita.

giovedì 13 giugno 2019

Roy Harper ‎– Flashes From The Archives Of Oblivion (1974)

Doppio live celebrativo del menestrello britannico per eccellenza, che scomponeva un po' della sua perfezione formale in studio in favore di un approccio psichedelico (gli bastavano un paio di riverberi e delays per partire per la stratosfera) e di una pseudo-teatralità, spesso debordante nella gag vera e propria (un paio di lunghi numeri di cabaret, sinceramente skippabili per chi non è madrelingua).
Una partenza tranquilla con i pezzi più morbidi e riflessivi, ed il delirio a partire dall'eccezionale Me and My Woman, dal leggendario Stormcock, una delizia anche se spogliata del suo arrangiamento. A seguire la mia preferita del suo repertorio, South Africa, che si trasfigura letteralmente, poi i 16 minuti elettrici titanici di Highway Blues ed il gran finale di One Man rock and roll band. Un poker finale da brividi che precede una coda in studio, con la delicata Another Day ricca d'archi e MPC Blues, tirata allo spasimo.
Giù il cappello, sempre.

martedì 11 giugno 2019

Thom Yorke ‎– Suspiria (2018)

Impresa del buon TY che esordisce come sonorizzatore a 50 anni, dietro grande pressing del regista Guadagnino, che si racconta averlo tampinato per mesi pur di convincerlo. La soundtrack è un massiccio di 25 tracce che va opportunamente ritenuta tale nell'ascolto slegato dalla visione, e lo vede molto a suo agio calato in un atmosfera tipicamente Argentiana, con le dovute sfumature del caso. Ha dichiarato di esser stato influenzato molto da Pierre Henry, dai Faust e dai Can; per il primo si può concordare nell'ambito dei frammenti più avanguardistici, neanche troppo horror. Dei Can l'influenza sui Radiohead è una certezza da almeno 22 anni, per quanto riguarda i Faust si tratta di una novità, ma si può concordare. Aggiungerei alla lista anche Arvo Part, che si può intra-udire nelle tracce corali o nei tratteggi più sinfonici, e stupisce non poco il gorgo dark-ambient polifonico di 14 minuti A Choir of one, quello sì un periodo davvero horror.
In mezzo a tutto questo ambaradan, poi, TY ha la capacità di piazzare 4-5 emo-ballad delle sue, di quelle malinconiche, marchiate dal dna col fuoco, che le riconosci al giro di piano o chitarra, al quale segue il falsetto estatico, insomma niente di nuovo ma incredibilmente ispirato, roba che forse JG penserà "ma perchè non le ha tenute per il prossimo nostro album". Suspirium, in versione nuda e poi ricoperta dagli archi, Open Again, Unmade, la dronica Has Ended, sono gemme che arricchiscono il bagaglio storico del soggetto, senza alcun dubbio.

domenica 9 giugno 2019

Syrinx – Syrinx (1970)

Trio canadese di brevissima attività, ma essenzialmente il veicolo di tal John Mills Cockell, che fu il primo in quello stato a possedere un Moog ed è il compositore di questo primo album che fu di una lungimiranza notevole. Sette strumentali di musica cinematica, in cui la famosa tastiera ovviamente è preponderante ma non mancano le composizioni notevoli come Hollywood Dream Trip, una celebrazione in cui il sax punteggia la linea principale, e la lunga Appaloosa Pegasus, un viaggio emozionante sostenuto dalle percussioni. Al netto di alcune, trascurabili svenevolezze '60, la definirei comunque library, con una puntina di minimalismo, ma pensandoci bene anticipò persino certe arie dell'elettronica tedesca e del progressive. Vero pionierismo.

venerdì 7 giugno 2019

Goldmund ‎– Famous Places (2010)

Il 4° album di KK alias Goldmund si caratterizza per un suono arioso, più prettamente ambientale; rispetto alle austerità dei primi albums, uno dei maestri mondiali della contemplazione degli ultimi 10/15 anni si trasferisce all'esterno e manda 15 cartoline da luoghi famosi, presumo della sua terra natia, sempre improntate sul pianoforte ma con parche aggiunte di synth a mettere il grassetto su altrettante melodie atmosferiche, che si riallacciano al primo Roger Eno, quello di Voices per interdersi. Ma il mood è quello inestimabile, umile e meditabondo, di quell'umanità che a tratti riesce a far commuovere (Fort McClary, Hope Avenue, Safe Harbor), che interrompe le frenetiche attività quotidiane, fa chiudere gli occhi e sognare. Perchè KK è eterno.

mercoledì 5 giugno 2019

Rollins Band ‎– Hard Volume (1989)

Terzo album per l'ex-Black Flag e la sua congrega di scalmanati musicisti, sempre più tecnicamente ineccepibili, a tratti un po' vanitosetti ma comunque efficaci nell'accompagnare il leader. Hard Volume in pratica è hard-rock aggiornato ai tempi del post-hardcore, suonato con foga lucida e precisione chirurgica; meglio nei tempi medio-lenti, al netto di un paio di hendrixianesimi non irresistibili. Rollins aveva già da tempo brevettato il suo monocorde declamare, e il complesso dà il meglio di sè nella slam-dance di I Feel Like This e nella melma quasi doom di Love Song. Il risultato è uno psicodramma di strada che forse ha l'unica grande pecca nella produzione, ancora un po' troppo '80 nella batteria, che lascia poco spazio ai bassi.

lunedì 3 giugno 2019

Holy Sons ‎– The Fact Facer (2014)

Emil Amos trova sempre il tempo di fare un disco solista, nonostante i tanti impegni: pare che il suo canzoniere accumulato in adolescenza ammonti a circa 1000 composizioni, per cui ce n'è, di materiale da registrare. Il bello è che ogni suo capitolo non soffre di disomogeneità, è registrato con cura e sembra che acquisisca sempre più confidenza con lo studio, con l'arte degli arrangiamenti (fa proprio tutto da solo); The fact facer è forse uno dei suoi più brillanti, con quel suo sapore classico ed equilibrato fra tradizione ed elettricità. Il songwriting di vaga ispirazione Will Oldham collide con la tipica enfasi Grails, e le grandi canzoni abbondano: Wax gets in your eyes, Selfish thoughts, All Too Free in cima alla lista, e non c'è un titolo brutto e/o scontato. Giustamente, su Thrill Jockey.

sabato 1 giugno 2019

And Also The Trees ‎– Virus Meadow (1985)

Il secondo album del gruppo che John Peel definì troppo inglese per gli inglesi, per avere un successo significativo. Smarcatosi in maniera significativa dall'influenza dark-Cure che contraddistingueva il debutto, il quartetto dei fratelli Jones approdava ad una poetica abbastanza personale, che non rinnegava il gotico ma lo inseriva in un contesto decisamente più elegante, con reminescenze mitteleuropee, qualche aria atmosferica alla Chameleons e qualche grande pezzo che resta in memoria all'istante (Vincent Craine, Jack, Virus Meadow, la mini-sinfonia sintetica di The Dwelling Place). Trovavano così la loro strada peculiare; da notare che il gruppo oggi è ancora attivo, a confermare l'entità di un progetto che non ha mai avuto successo ma grande personalità, alla stregua di altri inglesi periferici come i Legendary Pink Dots, di una caparbietà incrollabile.