venerdì 28 febbraio 2020

William Basinski ‎– On Time Out Of Time (2019)

C'è sempre un concetto dietro ogni disco del buon Billy Basinski, e questo suo ambizioso On Time Out Of Time verte sul suono dei buchi neri spaziali. Un tema vecchio almeno 50 anni, ovvero da quando l'uomo è atterrato sulla Luna, ma si sa che ogni materia, possibilmente impalpabile, nelle sue mani diventa preziosa.
La suite dura 40 minuti. I primi 25 sono quanto di più spacey abbia realizzato il Nostro, una mini-sinfonia di synth luccicanti e foschi. A quel punto scatta la variazione e la suite si incupisce, come fosse per una forza di gravità che la richiama a questo mondo malato. In chiusura, un sordo picchiettìo increspa il drone siderale, davvero inquietante.
L'edizione digitale include anche un bonus di 10 minuti, 4(E+D)4(ER=EPR), sempre molto spacey ma con una tessitura armonica e minimalistica molto più classicamente basinskiana, con tonalità maggiori, retta ad avvolgere e cullare l'ascoltatore. Quasi un sollievo, nel senso metaforico, oppure un confortante ritorno a casa.

mercoledì 26 febbraio 2020

Screams From The List #92 - Night Sun ‎– Mournin' (1972)

Meteora tedesca dedita ad un hard-rock di nettissima matrice british, ma di più che buon valore. L'abbondanza di organo e l'esuberante stile solista della 6 corde farebbe pensare ad un influenza Deep Purple, ma le sincopi ritmiche in Mournin' fanno pendere l'ago della bilancia un po' più in là, considerando soprattutto che il dotato cantante Schaab era anche il bassista della situazione. La produzione di Mr. Conny Plank, per una volta meno tecnicamente maniacale della sua media, poneva l'accento sulle performance indiavolate di questo quartetto che avrebbe meritato altra esposizione e/o fortuna ed avrebbe potuto mietere consensi in tutta Europa, per il pubblico dell'hard-rock pre-heavy metal.

lunedì 24 febbraio 2020

Simple Minds ‎– Life In A Day (1979)

Dolci ricordi della tarda adolescenza. A metà anni '90, con la piena sbornia collettiva per il brit-pop che imperava anche presso chi di musica si era limitato a Vasco Rossi e Zucchero in tutta la sua vita, un collega di 10/15 anni più attempato di me mi diede uno strappo a casa e sul cruscotto della sua jeep c'era in bella mostra la cassetta originale di Life In A Day, il primo album dei Simple Minds, che non conoscevo. Me la feci prestare e pensai all'istante che tutto il brit-pop era pura immondizia, paragonato alla freschezza contagiosa di questi solchi. Non avevo ancora mai sentito nè gli XTC nè i Magazine, che erano chiaramente un influenza per Kerr & compagnia, ed in prospettiva non è certo un disco passato alla storia. Ma le melodie a presa istantanea di Someone, All For you, No Cure, Destiny sono sempre irresistibili, e le intense ed elaborate elucubrazioni di Pleasantly Disturbed e Murder Story denotavano un talento che prima o poi sarebbe emerso. Le uscite successive saranno all'insegna di un eccessiva sofisticazione e soltanto nel 1982 il loro lato migliore, quello pop, sarebbe tornato alla ribalta (ed al successo) con New Gold Dream.

sabato 22 febbraio 2020

Ulver ‎– The Assassination Of Julius Caesar (2017)

Il 18esimo disco degli Ulver, pop elettronico per adulti, atmosfere trasudanti gli anni '80, qualche immersione nelle loro estremità sintetiche e qualche altro nelle pagine più intimiste. Il disco inizia malino, con i primi due pezzi che peccano in umiltà e cedono il passo ad una ruffianeria stucchevole. A partire dalla splendida So falls the world, il discorso cambia drasticamente ed i norvegesi tirano fuori il loro meglio: Daniel O'Sullivan non fa più parte della formazione ed appare come ospite in un paio di pezzi, ma la sua ombra Mothlite è palpabile su Southern Gothic. E la seconda metà cresce in ispirazione, con un poker micidiale culminante nella imponente trasfigurazione di Coming Home.

giovedì 20 febbraio 2020

Taj-Mahal Travellers ‎– July 15, 1972 (1972)

Il primo album della magica entità, il cui unico aggettivo che mi viene in mente è colossale, ma nel vero senso della parola. La storia è nota: al termine di un odissea, raggiunsero finalmente il Taj Mahal. Tornarono a casa e fecero dei concerti per auto-finanziare il loro ritorno in Europa, in cui erano stati fino all'anno precedente. 
Davvero poco da dire, se non ripetere le stesse parole che hanno definito il loro secondo ed ultimo. Oppure quelle decisamente più focalizzate di Vlad. Questa è musica eterna, che non appartiene a nessuna epoca storica, le cui vibrazioni risuonano all'infinito.

martedì 18 febbraio 2020

Protomartyr – Relatives In Descent (2017)

Ormai, da quando nei primi anni zero ci fu la prima wave del revival della new-wave, non ha più senso parlare di revival. E' diventata la normalità il fatto che escano continuamente band più o meno di talento che immolano il proprio output alla stagione del post-punk, nello stesso modo in cui il punk viveva stagioni di gloria recuperata negli anni '90.
I Protomartyr, di Detroit, sono in giro già da qualche anno e dopo una trafila su micro-labels sono giunti alla Domino, con conseguente promozione a livello mondiale. Relatives in Descent vede l'ennesima fotosintesi che mixa vari dna, ma fa riflettere perchè io ci sento le stesse vibrazioni dei primi Interpol e dei National 2005/2007, il che mi fa preoccupare perchè inizio a pensare di essere seriamente assuefatto, trovando in questo aspetti positivi. Tornando alle influenze originarie, la vocalità di Casey non può non far pensare ad un incrocio fra Ian Curtis e Mark E. Smith, mentre il sound appare interessante per via di questo latente lato gotico che non prende mai il sopravvento, resta confinato e lascia spazio ad una chitarra onesta e ficcante. Per quanto riguarda i pezzi, meglio la prima metà dell'elenco.

domenica 16 febbraio 2020

Current 93 ‎– Hitler As Kalki (1993)

Capitolo minore di C93, uscito a ruota del famoso Thunder Perfect Mind, da cui è tratta la lunghissima (un po' prolissa) title-track, un'ultra-elettrico circolare che gira un po' a vuoto. Punto basso di un assortimento bellissimo nelle restanti 4 tracce, registrate fra Londra e Parigi nel 1992. Prima di tutto Imperium V, divisa in due tronconi in apertura ed in chiusura; la prima, in particolare, la ritengo la vetta superba del folk apocalittico tutto, nella sua disarmante semplicità e nell'intensità della performance di Tibet. Ottimi anche i 10 minuti corrosivi, acidi e lascivi di Christ And The Pale Queens Mighty In Sorrow ed i 9 paradisiaci di All the stars are dead now, un contraltare estatico che fa sognare. Nelle note di copertina, Tibet afferma di aver voluto pubblicare queste esibizioni nonostante la qualità audio non fosse eccelsa, esclusivamente per mantenere il ricordo. Di sicuro ha pubblicato di molto peggio, nella sua sterminata discografia, e questo inosservato merita il giusto risalto.

venerdì 14 febbraio 2020

Charlemagne Palestine & Grumbling Fur Time Machine Orchestra* ‎– ggrrreeebbbaaammmnnnuuuccckkkaaaiiioooww!!! (2015)

Interessante impro-live fra i Grumbling Fur (ovvero Daniel O'Sullivan + Alexander Tucker) e sua eminenza Carlomagno. Una joint-venture nata dopo che nel 2013 quest'ultimo era stato invitato al Transmission a Ravenna dal primo, direttore artistico di quell'edizione e dichiarato ammiratore dell'intramontabile personaggio di Brooklyn.
Poco più di mezz'ora per un flusso colorito, ricco di spunti e mai banale. I due GF stendono un tappeto elettro-acustico, quasi cosmico, su cui CP ha la libertà di scorrazzare fra il suo falsetto minimale, lo strumming al grand Piano e suoni animaleschi (soprattutto ovini). Imponente la progressione ed il crescendo nella seconda parte, che eleva l'esecuzione a qualcosa in più di una semplice improvvisazione, alla quale avrei gradito parecchio presenziare.

mercoledì 12 febbraio 2020

Deutsch Amerikanische Freundschaft ‎– Die Kleinen Und Die Bösen (1980)

Un'anno dopo quell'oggetto volante non identificato denominato Produkt, i DAF vanno su Mute, ripristinano l'ordine con l'iconoclastico vocalist Gabi Delgado e sparano un secondo, caustico proiettile di elettro-art-wave, metà in studio e metà dal vivo (per caso, recitano le liner notes). L'elettronica inizia a farsi strada in maniera marcata, ma la matrice è ancora un folle cyber-math-funk-rock che di umano ha ben poco e testimonia una visione totalmente folle, destrutturata ma solidissima. Come nel precedente, tante schegge e veloci, soprattutto nel live, che evidentemente catturava ancora una complessità di gruppo unitaria e coesa. Nella prima facciata, invece, qualche sbrago concettuale e dal sapore spettrale (il primo pezzo, 6 minuti di Kraftwerk virati in salsa dark-wave, da brividi) iniziava ad arricchire il menu di quest'entità di rilevanza poco meno importante dei fratelli maggiori del decennio precedente.

lunedì 10 febbraio 2020

Daniele Brusaschetto ‎– Rapida E Indolore (2014)

Un vero ed indefesso outsider, contro tutto e tutti. A dire il vero, al primo ascolto, alla guida, avevo pensato che dopo molti album, la formula dura e pura di DB mostrasse un po' la corda. Ma la sera, seduto alla scrivania, con la mente sgombra dai pensieri quotidiani, colgo la possenza di Rapida ed indolore. Il suo cyber-cantautorato, sempre più ispido di elettro-acustica e sempre più povero di melodismi, intriso di un educato lirismo sub-urbano che va dall'appena romantico all'apocalittico, e che lo rende a mio avviso il vero moderno erede intellettuale di G.L. Ferretti, spicca sempre per personalità e totale scategorizzazione da qualsiasi corrente.
Sono le sue parole a colpire nel vivo, caso sempre più raro nel panorama italico. E pazienza se le composizioni a volte non brillano per soluzioni e coerenza. Il Brusa è sempre il Brusa.

sabato 8 febbraio 2020

Cluster ‎– Cluster II (1972)

Un'altra, ennesima via possibile alla sperimentazione teutonica. Moebius & Rodelius, una coppia dai nomi così bizzarri e così creativa da essere annoverati fra gli anticipatori dell'industrial (Live in der Fabrik non poteva avere un titolo più programmatico). Cluster II è un trip oscuro ed inquieto che viaggia a vista su galassie inesplorate (Plas), distorsioni minimali ed insistenze nevrotiche (Im suden), brevi squarci di sereno (Fur die katz, aaaah la Mental Hour...), pre-dark ambient per organo lugubre (Georgel), scansioni di pianoforte e voci ottundenti (Nabitte). Un esperienza spinta ai massimi limiti per l'epoca.

giovedì 6 febbraio 2020

Emma Ruth Rundle ‎– Some Heavy Ocean (2014)

Dopo il flop dei Marriages, avevo perso l'interesse per ERR. Con notevole ritardo, quindi, scopro che invece ha realizzato un ottimo esordio solista (escluse autoproduzioni di basso profilo) all'insegna di un cantautorato classico, in larga parte acustico ma con qualche impennata elettrica: non abbiamo una nuova Pj Harvey, ma la stoffa e l'ispirazione sono notevoli.
L'imprinting è prevalentemente melanconico, le ballad solenni e stentoree, la produzione perfetta. We are all ghosts, Haunted Houses, Savage Saints le tracce migliori. Non resta che da ascoltare i suoi capitoli successivi.

martedì 4 febbraio 2020

Chameleons ‎– John Peel Sessions (1990)

A scioglimento avvenuto da un paio d'anni, la Strange Fruit rese omaggio a questo grandissimo gruppo collezionando le 3 Sessions per John Peel fra l'81 e l'84. Dalle varie interviste a Mark Burgess emerge che sua eminenza DJ ricevette il primo demo (senza batteria!) e sentenziò che qualcosa di fondo c'era, ma attendeva un miglioramento. Alla seconda cassetta, questa volta a pieni giri, li convocò seduta stante e la breve storia ebbe inizio.
Tre sedute, 12 pezzi, l'eccellenza assoluta della new-wave già due anni prima di Script of the bridge. Rispetto alle versioni in studio, ovviamente mancano eventuali overdubs e si percepisce una maggiore istintività ma le perfette esecuzioni restano lì a giganteggiare. Here Today, Second Skin, Perfumed Garden, Intrigue in Tangiers, Don't Fall trovano così versioni alternative di massimo pregio, al punto che queste John Peel Session si pongono come episodio non eludibile per chi volesse approfondire la discografia di questi giganti così ingiustamente sottovalutati.

domenica 2 febbraio 2020

Rustin Man ‎– Drift Code (2019)

Sorprendente uscita di Paul Webb, una vita fa il talentuosissimo basso dei Talk Talk, poi agitatore del proditorio quanto veloce progetto O'rang, poi fermo qualche anno fino al primo capitolo a nome Rustin Man, che però fu quasi un backing one-man-band in favore di Beth Gibbons dei Portishead. Infine, 17 anni di silenzio. Ed è tornato, e per la prima volta è tutta roba sua, e per la prima volta canta.
Drift Code è un disco che ha subito il sapore del classico, del vintage autentico, dell'incontaminato. E' come il grido d'allarme di un quasi sessantenne che non si riconosce nel mondo d'oggi e reagisce con un album di totale artigianato, alla vecchia maniera, ma col vantaggio di una produzione incredibilmente curata ed un orchestrazione che ha del magico. Il paragone che viene per primo è quello con Robert Wyatt, non soltanto per la comune fragilità della voce, molto espressiva nella sua umanità, ma anche per l'imprinting compositivo, che svaria dal malinconico impressionista allo sketch didascalico. Capolavori del lotto All Summer, Vanishing Heart, Martian Garden (Hammilliana!) e Our Tomorrows.
Un piccolo gioiello di cantautorato fuori dal nostro tempo, inaspettato e che forse giustifica il tempo pachidermico con cui Webb l'ha realizzato. E che, ironia della sorte, è uscito un mese prima della triste morte di Mark Hollis.