venerdì 30 settembre 2022

William Basinski – Lamentations (2020)


Dev'essere una cava davvero profonda, l'archivio di Billy Basinski; nelle note di copertina viene indicato l'arco di tempo 1979-2020 come periodo di approvvigionamento. E trattasi di loops che invecchiano molto, molto bene, meritevoli di essere ripescati e portati alla luce, quando la tecnica glielo consente, perchè Lamentations ne contiene ben 12. Anzichè indugiare sulla reiterazione oraria di un singolo (tecnica che gli ha permesso di forgiare fra i suoi capolavori più meditativi), WB ha steso una scaletta che per certi versi lo riporta ai fasti di Melancholia, ovvero il vignettismo di sintesi. A differenza di esso, però, che sviluppava un'omogeneità quasi monolitica, Lamentations apre il ventaglio ad una serie disparata di soluzioni ed umori, includendo qualche piccola tendenza spacey udita più recentemente.

Il meglio iniziale avviene nelle sonate dimesse, altamente evocative, The Wheel Of Fortune e Tear Vial, dopodichè la scaletta si fa pulverulenta ed organica con i gorghi astratti di Passio, Punch & Judy, Silent Spring e Transfiguration, che lambisce quasi una concezione di dark-ambient estatica (alla Caretaker, per intenderci). Il lotto va in gloria con All These Too, I Love e Please, this shit has to stop, tripudi sinfonici con voce femminile lirica sugli scudi. Nel complesso, uno dei migliori della carriera di Billy per eclettismo, varietà e scelte "compositive".

martedì 27 settembre 2022

And Also The Trees ‎– Green Is The Sea (1992)


C'è la probabilità che abbia ampiamente sottovalutato il lavoro degli AATT, dopo che molti anni fa ascoltai distrattamente la loro discografia del primo decennio. A volte i giudizi variano in base al periodo, alla consapevolezza, alla maturità ed all'esperienza. In attesa di scandagliare un po' la loro produzione (16 dischi in 40 anni), mi soffermo al meglio su un capitolo del decennio che li vide passare con grande raffinatezza dall'iniziale dark ad una wave più atmosferica fino a svoltare al gotico elegantissimo di questo lavoro, vario e genuinamente arty (da qualche parte ho letto il brillante appellativo surf-noir, ma in questo episodio forse vale solo per alcuni passaggi), nobilitato da arrangiamenti lussureggianti, dal baritono di S.H. Jones, perfettamente calzante per la causa, e da una prima metà del disco ricca di magia evocativa: Red Valentino, The Fruit Room, Blind Opera, The Dust Sailor sono estremamente diversi fra di loro ma schiudono un senso di omogeneità granitica e di autentico artigianato. Unici difetti, il calo d'ispirazione nella side B ed alcune scelte produttive, forse ancora legate agli anni '80 appena tramontati. Ma ascoltando dischi come questi possiamo comprendere il vero senso del gotico inglese più contaminato e scopriamo l'enorme influenza esercitata sui Piano Magic del decennio successivo.

sabato 24 settembre 2022

Mark Kozelek With Petra Haden – Joey Always Smiled (2019)


Non è tutto da dimenticare ciò che ha pubblicato MK negli ultimi 5 anni, o almeno questa joint-venture è una eccezione alla regola. Ho trovato davvero scadenti l'omonimo del 2018, il trio con Boye e White del 2017, per non parlare dei vari Sun Kil Moon, che ormai sono diventati un ammorbamento spoken-word di incredibile incagabilità. Benvenuta quindi (sì sono passati 3 anni, ma i miei ritmi sono questi...) la collaborazione con Petra Haden, un'altra veterana dell'indie-art-folk americano degli ultimi 30 anni, di cui decisamente non ho seguito la carriera ma qui agisce in maniera decisiva sulle musiche, come confermato dallo stesso MK in una bella intervista.

Il bello di Joey Always Smiled è che stabilisce un compromesso sullo stato attuale di MK: non reprime la sua incontrollabile logorrea e non butta via il suo ingombrante passato, rinuncia a priori all'autarchismo ma ci tiene a porre in evidenza la sua firma, a tratti, realizzando un episodio più che dignitoso, a tratti persino divertente. Verrebbe da pensare che la Haden agisca dietro le quinte in maniera decisiva, un po' come il motto dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna, quasi dando la direzione artistica generale, perchè come presenza si limita a vocalizzare in qua ed in là (uno si aspetterebbe anche che suonasse il suo violino, ma non mi pare di sentirlo).

Sono le stranezze assortite a rendere il disco più interessante ad ogni ascolto, perchè al netto di qualche sbrodolamento MK, sembra un disco di incidenti più o meno casuali, qualcosa nato per disorientare lui stesso più di chiunque altro. Come la title-track, un mantra plumbeo composto e suonato da 3 tizi newyorkesi di area jazz-fusion (!), peraltro in modalità molto post-rock. Come Parakeet Prison, elegia pianistica di un quarto d'ora con delle ottime varianti, come la baldanzosa Spanish Hotels are echoey e i 20 minuti di 1983 MTV Era Music, che sembra nato da un giro di Ray Manzarek su una polverosa beat-box. Non mancano un paio di ballad in classico stile personale giusto per ristabilire il trademark, e nemmeno la cover ultra-famosa degli anni '80 che non la diresti mai. Tutto apparentemente un po' a casaccio, alla rinfusa, perchè MK ora è così, molto alla come viene viene, e Petra l'ha saputo addomesticare, con sapienza, tirando fuori il meglio che poteva. Non resterà nella lista dei suoi capolavori, ma una buona anomalia sì, sicuro.

mercoledì 21 settembre 2022

Luciano Cilio – Dell'Universo Assente (2013)


Non bastò una prima ristampa di 500 cd nel 2004 alla Die Schachtel, perchè nel 2013 l'etichetta milanese rilanciò con una doppia edizione, questa volta anche di vinile. Sarà stata la sponsorizzazione di Jim O'Rourke, saranno stati i riscontri internazionali ad ogni latitudine, l'opera unica di Cilio ha continuato ad avere una sua risonanza postuma ed ogni occasione per riascoltarla rappresenta una scusa valida, a maggior ragione se ha recuperato degli inediti / versioni alternative (la causa del cambio di titolo) che riportano a galla anche austerità per solo piano ed un'astrattissimo studio per fiati, oltre a qualche ripresa dei temi portanti di Dialoghi. Diciamo che ci stavano per onore di recupero, ma non aggiungono un granchè di sostanza, come invece hanno poi liberato I Nastri Ritrovati. Il vero focus resta nel programma originale e nei suoi quadri espressionisti, così ancestrali e trasudanti di algida passione. Questi sì, hanno ancora tanto da esprimere.

domenica 18 settembre 2022

Julia Holter ‎– Have You In My Wilderness (2015)


Finalmente trovo un senso a tutto il grande clamore critico esploso a favore della Holter, ormai ritenuta una delle cantautrici più autorevoli al mondo (la media voto su Pitchfork è spaventosa, ma anche altri non scherzano). Avevo trovato gradevole uno dei suoi primissimi, ma poi ero rimasto deluso dal successivo Loud City Song. Conoscendo il percorso accademico della californiana (diplomata in composizione), ritenevo che il suo output soffrisse di uno stato di limbo sostanziale, un po' come successo ad altre della sua generazione, ovvero; il mettere la sofisticazione e lo spunto intellettuale davanti a tutto il resto, incluso anima ed emozioni. Il mio è un pensiero arrogante? Possibile. D'altra parte, magari alla Holter non interessa assolumente nulla dei giudizi e le importa fare e pubblicare la sua musica, visto che il sostegno della Domino è di quelli importanti.

Have you in my wilderness però ha un titolo che è quasi interpretabile come programmatico. Qui un ipotetico stato brado dell'autrice si rivela in un gettare la maschera per mezzo di un lussureggiante, sofisticato, solare ed emozionante art-dream-pop sinfonico, che scava fino a modelli risalenti agli anni '60 e che beneficia di uno stato di grazia compositivo. E' stato quasi come se la Holter, non so quanto volontariamente o meno, si fosse liberata delle zavorre avanguardistiche e si fosse lanciata verso il melodismo più sfrenato, sapendo però di poter fare qualcosa di intellettualmente sensato.

Il disco srotola una chicca dietro l'altra, poco da dire. Persino la sua voce, che ritenevo algida e poco espressiva, risalta maggiormente in questo contesto (Nico e Legrand i riferimenti principali). Feel You, Silhouette, Everytime Boots, Betsy On The Roof, Have You in my wilderness, Sea Calls Me Home sono dei preziosi manufatti analogici che sembrano persino costruiti con un algoritmo (e stesso discorso per quanto riguarda la produzione, stesso principio). Quindi, amore incondizionato per il disco in sè e l'ascolto libero da qualsiasi preconcetto; il sospetto di una presunta artificiosità per quanto riguarda l'elaborazione resta, ma in fondo cosa cambia. Di questi tempi la musica è così; non puoi più trarre conclusioni di nessun tipo.

giovedì 15 settembre 2022

Mudhoney – Superfuzz Bigmuff Plus Early Singles (1990)


Sulla scia di un successo generale ormai prossimo all'alluvione, la Sub Pop pensò bene di compilare tutti i formati corti che i Mudhoney avevano pubblicato nel biennio precedente, cioè l'EP Superfuzz Bigmuff ed i vari 7", condivisi e non, per metter fuori un bruciante seguito al primo album omonimo. Il primo pensiero che viene in mente è: Mark Arm seguì il proprio cuore, a fomentare lo split dei grandi Green River, perchè ciò che desiderava era un ritorno primordiale alle forme più urticanti di garage (Stooges 1970 e Blue Cheer 1968) contaminate dal passaggio del punk, grazie al ritrovo con l'ex-compagno Steve Turner e trascinato dalla sezione ritmica Lukin-Peters (quest'ultimo oggetto segreto del desiderio di Kurt Cobain, come emerso poi diversi anni dopo da confidenti del periodo). 

Sul contenuto, poco da dire: anthems trascinanti ed epidermici, con qualche variante interessante in rallentamento, ma col focus sempre sulla foga e sulla compatezza granitica del fuzz, e con un grande Arm sempre in modulazione isterica. Pezzi migliori: Touch Me I'M Sick, In'N'Out Of Grace, You Got It, Hate The Police.

lunedì 12 settembre 2022

Iosonouncane – Ira (2021)


Cantautore sardo che in passato ho ignorato per futili e snobistici motivi, lo ammetto. Il monicker non particolarmente attrattivo e soprattutto l'affiancamento (sbagliatissimo, ma da qualche parte l'avrò letto) ad altri interpreti connazionali che poi sono andati a vincere Sanremo, e per me interessanti soltanto in sede di programmi TV di satira politica. Chiusa parentesi, ovviamente non ho potuto ignorare il fatto che Ira sia stato sbandierato ovunque come un capolavoro di art-avant e devo dire che si tratta senza alcun dubbio di un lavoro importante, che merita la maggiore attenzione possibile.

Jacopo Incani si è preso un lustro per concepire quest'opera di dimensioni colossali e di impatto ottundente, rivendicandolo nelle interviste come un disco apertamente politico. Perchè è politico di questi tempi uscirsene con un oggetto di quasi 2 ore, di ascolto così impegnativo, con dei riferimenti così ingombranti, anche se la cifra stilistica personale è molto marcata, soprattutto nell'utilizzo del canto che è declinato in una specie di Esperanto solista, che sembra ricalcare le grammatiche inglesi ma utilizzando pronunce fonetiche italo-spagnole. Nella maggior parte del percorso sonoro, sono gli aperti contrasti a brillare: i ritmi nord-africanti vs. quelli techno, le algide striature elettroniche vs. i richiami ancestrali di piano e dei mellotron, spesso presenti. Il tutto declinato in pezzi che non durano mai meno di 4 minuti e si estendono fino ai 10'.

Impossibile non pensare a Thom Yorke & Radiohead quando Incani acutizza il suo falsetto su tessiture scabre e fantasmatiche (mi ritorna in mente la metafora di PS per il suono di Kid A, quel ....come una carcassa nei boschi....che credo sarebbe appropriata anche per Ira), e penso che i fan degli inglesi dovrebbero dare una chance a questo monolite, armandosi di pazienza e apertura mentale. Ma ci sono tante altre sfere di influenza, che Incani peraltro ha onestamente denunciato: Swans, Robert Wyatt, Residents, roba forte e storica. Io aggiungerei anche gli ultimi Talk Talk e perchè no, gli Audiac traslati in un contesto mediterraneo, ma non per questo meno raffinato.

Il limite più grande di Ira sta nella sua lunghezza, so che è borioso da dire perchè si tratta di un prodotto che non dovrebbe essere considerato come un disco, ma come una forma d'arte che non va confinata bensì fatta risuonare nelle coscienze di chi ci si dedica. Comprendo perfettamente che la sua omogeneità è tale da renderlo un corpo unico, e grazie ad essa sostengo che è quasi impossibile trovare momenti di stanca. Occorrerebbe prendersi qualche giorno e far girare soltanto questo, isolandosi da altri ascolti. Non è escluso che lo faccia: sarebbe un andare controcorrente le mie abitudini, un'azione in difesa della libertà personale, un gesto di responsabilità a favore di questo presunto atto politico. Per una volta non è così male allinearsi alla critica mainstream; probabile disco dell'anno scorso.

venerdì 9 settembre 2022

Holy Sons – Survivalist Tales! (2010)


Se solo ne avessi voglia e riuscissi ad essere un po' più coerente con gli ascolti (non mi lamento più di non avere il tempo, perchè sarebbe ipocrita nei confronti della vita), fermerei il blog, dedicherei un paio di settimane ad ascoltare tutti i 15 album che Emil Amos ha pubblicato dal 2000 ad oggi e ne scriverei un'approfondita monografia con tutte le info reperibili, che sono pochissime, in modo da esserne facilitato. Questo non è possibile e allora ogni tanto me ne ascolto uno, col rimpianto che probabilmente dietro l'angolo ce n'è uno più bello.

Di conseguenza non so se Survivalist Tales!, tappa mediana della sua discografia, sia più o meno bello degli altri. So per certo che serve le componenti essenziali di questo grande cantautore che, se fosse nato 25/30 anni prima, sarebbe diventato un gigante della sua generazione, contesti sociali permettendo. Il suo songwriting contiene tutto il dolore, il piacere, la sofferenza e la gioia del mondo, lo stordimento delle droghe, le visioni alterate e la lucidità della grande bellezza, l'imponenza pantagruelica dei Grails, lo straniamento ad un passo dal dub (Payoff, mozzafiato), l'ancestralità di Neil Young (Slow Days), la raffinatezza e l'eleganza dei Pink Floyd wrightiani (A Chapter must be closed e Reckless liberation, clamorosità), in un contesto disomogeneo che fa il filo allo spirito perfettamente inquieto del Nostro. 

Che forse non avrà mai fatto un disco capolavoro, perchè sarebbe stato troppo scontato e faticoso. Chè forse i suoi dischi funzionano meglio così, incerti e sul punto di crollare, un po' mimetizzati e pudici, trasudanti tutti i sentimenti.

martedì 6 settembre 2022

Screams From The List #110 - Malfatti-Wittwer ‎– Thrumblin' (1976)


Trovandomi alla ragguardevole soglia dell'80% di ascolto dell'intera NWW List, mi soffermo su un concetto ormai assodato: in tanti casi, il confine fra genio e fregatura è sottile come un capello. Parlo di quei titoli fra avanguardia e provocazione, perchè evidentemente negli anni '70 c'era una tale libertà di espressione che persino musicisti istruiti, di alto livello, si prendevano il lusso di registrare cose ai limiti dell'ascoltabile. E ritorna l'annoso dilemma, ovvero: è più geniale un disco di puro rumore come Metal Machine Music o questo tremebondo Thrumblin' oppure i titoli della list peggiori in assoluto a mio avviso, tipo Orchid Spangiafora, Grand Magic Circus, Albrecht, Weiner, Ya Ho Wa 13, Woorden?

Il trombonista tirolese Radu Malfatti e il chita(terro)rrista elvetico Stephan Wittwer, musicisti di estrazione free-jazz e avanguardistica, sono responsabili di quello che concettualmente è uno dei dischi più cattivi che abbia mai ascoltato, e che non è mai stato ristampato fisicamente. Un tre/quarti d'ora di pura impro che più radicale non si può, con Wittwer brutale violentatore, nevrastenico, spesso in feedback, ed un Malfatti dai polmoni d'acciaio, esagitato, che esplora qualsiasi possibilità sonora per uno strumento che sembrerebbe limitato ma in realtà a tratti riesce persino a far sembrare un trapano (!).

E' chiaro che siamo sempre di fronte a provocazioni belle e buone, ma non si può non cogliere la concettualità delle pause, delle deflagrazioni, delle strutture aleatorie ma dotate di costrutto di un oggetto che non è facile identificare. A meno che non si intenda troncare brutalmente la questione come ha fatto Vlad: Avete presente: "Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi"? Questo è il contrario...

 


sabato 3 settembre 2022

Red Crayola With Art & Language – Black Snakes (1983)


Del a dir poco erratico percorso di Mayo Thompson (che come abbiamo appreso dalla memorabile intervista su Blow Up di anni fa, comprese persino anni di servizio da maggiordomo), Black Snakes rappresenta forse l'album più professionale, non si può dire normalizzato ma poco ci manca. Supportato dalla pirotecnica sezione ritmica Annesley / Taylor e da Allen Ravenstine a synth e sax (la militanza nei Pere Ubu era roba fresca), il geniaccio ormai trapiantato in Inghilterra si dava ad un funk bianco disidratato che rappresentava una svolta drastica rispetto all'epocale Soldier Talk, ovvero qualcosa di impossibile da replicare anche solo alla lontana. Ben venne quindi questa decina di funamboliche composizioni sardoniche e beffarde come da trademark, in cui la sua chitarra da il là ma lascia i fari al bassone sgusciante di Annesley, una questione quasi fusion, ben coadiuvato dal batterista Taylor. Ravenstine interviene saggiamente con discrezione per non fare il guastatore. Facile ritenerlo un titolo minore nella discografia, ma la genialità brada va apprezzata anche in contesti professionali.