venerdì 30 settembre 2011

You May Die In The Desert - Harmonic Motion Vol. 1 + International Waters EP (2008/10)


Ho il piacere di dire la mia sul gruppo che più di tutti, con una ripetizione maniacale, ho ascoltato nell'ultimo anno. E dire che si tratta di un repertorio piuttosto limitato, ovvero 3 EP o mini-lp per una durata totale di circa 90 minuti.
YMDITD è un giovane trio di Seattle la cui forza è stata anche quella di distillare queste uscite nell'arco di ben 4 anni, mettendo in campo tutta la cura che la sintesi ha richiesto; ovviamente mi aspetto una nuova produzione da parte loro, anche se sul loro piccolo sito non sembrano esserci news al riguardo. D'altra parte è sempre dura perseverare quando si agisce così sottoterra e si suona di fronte a pochi intimi.
Siamo dalle parti dell'epic-instru più emotivo, ma reinterpretato con un piglio del tutto personale: sulle melodie poliedriche del chitarrista Woods (molto evocativo, equamente diviso fra pulito ed effettato, con poca distorsione) e del bassista Stalter (molto abile, anche sul tapping), si staglia la figura del vero fuoriclasse del trio, lo smilzo ed emaciato batterista Clark, uno di quei ragazzetti che a vederlo non gli dai un centesimo ma in realtà è un fior di drummer: elastico, volitivo ed imprendibile su un set essenziale. Uno di quelli che ha la tecnica poco convenzionale.
In sostanza, si tratta di un gruppo che ha mandato bene a memoria la lezione degli Explosions In The Sky ma ne elabora una versione personalissima: muscolare, con qualche iniezione di math, fatta di semplici ma memorabili linee, mai melanconica ma fondamentalmente solare, quasi giocosa. Un attitudine che si intuisce anche dalle foto in cui i 3 sono immortalati, sempre divertiti ed ironici, a differenza della stragrande maggioranza dei gruppi epic-instru che sono distanti ed assorti.
Il debutto è del 2006 e si chiama Bears in the yukon: col senno di poi è un uscita un po' acerba ed autoindulgente, ma mette già in guardia sulle capacità del trio. Vorrei porre l'accento sugli ultimi due EP, il primo dei quali è uno split con i Gifts From Enola: 5 pezzi fenomenali, una rivelazione: The sound of titans, 11 minuti di micidiali progressioni atmosferiche. In case I should die spinge sul pedale energetico fra leggerezze ed eruzioni. Mitchell vs. Rowesdower è un mirabolante palestrare math prima dello stacco da brividi e del finale acrobatico. Commovente e all'altezza dei più immensi Explosions la meditazione di Seagulls = Sea Eagles, con uno sviluppo finale ludico che è già trademark assoluto. Ultimo picco per Let's have sarcasm for breakfast, con inizio balzellante, altro break ad alto tasso emotivo (tanto per dirne una da fan, ce l'ho come suoneria nel cellulare...) e crescendo epocale a chiudere in gloria
International Waters è uscito l'anno scorso e vede un progressivo indurimento del suono, nonchè una produzione più in your face. In particolare Clark, forte della propria sicurezza, si ritaglia una presenza più fisica, di primo piano nel missaggio. Purtroppo non si ripete il miracolo di Harmonic Motion, ma soltanto a causa di West of 1848 e Monolith, che vedono una distorsione troppo marcata nelle fasi topiche. Non sto certo sostenendo che siano due delusioni, ma a farsi la bocca dolce, insomma, ci siamo capiti. Ci pensano gli altri due a tenere altissima la bandiera: gli 8 minuti della title-track, una specie di replica energizzata di The sound of titans, e la marcia panoramica di True North, minimale cartolina tirata fino allo spasimo. Una versione accorciata è stata postata a mo' di video-promo sul sito del gruppo.
Mi aspetto un ritorno perlomeno a questi livelli dai ragazzi, una maggior esposizione mediatica nel limite del possibile e chi può dirlo? Magari che un giorno vengano a suonare dalle nostre parti.
Sono gruppi bravi come questo a mantenere alto un filone che viene dato per morto ormai da chiunque, anche chi non ne ha le competenze.

Yona Kit - Yona Kit (1994)

Progetto one-shot sotto l'egida della Skin Graft, al tempo un etichetta simbolo della scena noise non solo statunitense. Insieme a KK Null degli ZeniGeva al canto, c'erano il bassista Gray dei DazzLingKillMen, il batterista Jones dei Cheer Accident ed un giovane ma già prezzemolaro Jim O'Rourke. Insieme davano forma ad un math-rock scuro, compresso e monocromatico.
La produzione di Albini peraltro non riusciva a riparare le limitate potenzialità di un disco forse realizzato troppo in fretta: sebbene tutti a parte Null al momento fossero impegnati in un altra band estemporanea (i ben più avanguardistici Brise-Glace) e quindi non erano perfetti sconosciuti, Yona-Kit soffre a tratti di un eccessiva ripetizione dei concetti e neppure un O'Rourke ancora in grande fervore sperimentale riusciva a trovare un guizzo di genio, impegnato più che altro ad emulare proprio l'Albini dei Rapeman e il suo suono secco, chirurgico.
Ciò non toglie che chi ama il genere non possa tratte piacere dall'ascolto di trascinanti (e quasi divertenti per il declamare di Null) schegge a ritmi dispari come Franken bitch, Dancing sumo wrestlers, Hi ka Ri, Skeleton King. A condizione che si cancelli dall'albo Slice of Life, un riempitivo inspiegabile quanto inutile di 23 minuti posto alla fine per integrare la breve durata del resto, pistola fumante della fretta che ha castrato il talento potenziale del quartetto.

giovedì 29 settembre 2011

Yoga - Megafauna (2009)

Difficilmente definibili questi due ceffi mascherati di Los Angeles. Sembra partire come un progetto di psych-hard-wave (Seventh mind, un sontuoso maelstrom di chitarre appuntite e groove minaccioso), ma già al secondo pezzo comincia a darci dentro con la sperimentazione più pura, con i meandri melmosi di Flying witch, l'orda ventosa di industrial in Wagion, le processioni orrorifiche di The hidden people e Black Obelisk, il carillon andato a male di Dreamcast, le allucinazioni strabuzzanti di Haunted brain e Chupacabra's rotting flesh.
E' un suono malato, sporco e lo-fi che lascia circospetti ma non disdegna qualche apertura, come quando ci si concede qualche remota convenzione sonora. E' il caso di Encante, serrata per organo acidulo, fraseggio epico di chitarre e fischi space. Fourth eye apre con un motivo analogico in stile corrieri cosmici e si sviluppa con riff enfatico e ritmica tornitruante. Ancora più catastrofico lo space-metal alla moviola di Treeman, curiosa la divagazione in stile mediorientale di Warrior.Insomma, un disco popolato da animali amorfi ed enormi. Per stomaci forti.

mercoledì 28 settembre 2011

Yndi Halda - Enjoy Eternal Bliss (2005)

Ma si fa ancora musica a Canterbury? Mi chiedo questo perchè non ho memoria di aver sentito gruppi / artisti significativi provenire dalla città dopo la gloriosa scuola degli anni '70? Non è dato di sapere news su questi ragazzi che nel 2005 hanno pubblicato il debutto e poi nient'altro.
In dotazione 4 strumentali atmo-melanconici di durata fra i 12 e i 20 minuti cadauno, un violino in line-up, e 1 + 1 fa 2. Tutto porta a sospettare che l'influenza maggiore degli YH siano i Godspeed, e tutto diventa una certezza all'ascolto del disco.
Ma trattasi di uno dei quei casi (rari) in cui è tale la bravura intrinseca della band che si riesce a far dimenticare le similitudini. Ad alcuni attenti e graditi ascolti, si può cogliere una differenza importante: al cospetto della heavy magnificenza dei canadesi, gli YH contrappongono un'attitudine più trasognata, più cameristica anche nelle fasi serrate. Ogni suite è complessa e strutturata in tante fasi diverse, con un lavoro di arrangiamento curato e funzionale ai sentimenti che tende ad esalare. A partire dall'inizio commovente di Dash and blast fino al capolavoro avvincente e programmatico di Illuminate my heart, darling!, il disco è un abbraccio avviluppante che riscalda e rinfranca.

martedì 27 settembre 2011

Yeah Yeah Yeahs - Fever to tell (2003)

Terreno melmoso, quello del garage, in cui gli YYY del primo album però seppero farsi valere in virtù delle loro doti. Altro che i White Stripes...
Erano ancora belli ispidi e roventi, specialmente nelle chitarre. Sfornavano pezzi di una semplicità disarmante, ma sapevano trarre il massimo dal minimo. Ovviamente l'istrionica Karen faceva la sua parte con il suo range vocale di eroina punk-glam, e gli altri due tiravano allo spasimo ma con grande intelligenza. Il batterista Chase, dotato di retroterra jazz, è una presenza cruciale. Uno di quelli che non danno spettacolo, che non sfoggia tecnicismi ma andandolo ad analizzare si scopre quant'è bravo e che con un altro drummer probabilmente i YYY non sarebbero stati gli stessi.
Fever to tell rilanciava con appena un po' più di professionalità rispetto ai due EP che li avevano fatti saltar fuori, ed è una energica collezione di anthem urticanti, freschi e piacevoli.

lunedì 26 settembre 2011

Xiu Xiu - La Foret (2005)

Ogni disco dei XX è sempre uno scrigno pieno di segreti pronti a sorprendere, volitivo, con un incognita dietro ogni angolo. I primi 4 album sono stati uno diverso dall'altro, intenti a sbizzarrire l'estro incontenibile di Stewart.
La foret è stato un riassunto ben assortito delle puntate precedenti, con forse meno enfasi sulle percussioni, con le miniature acustiche imbevute di scariche elettrostatiche (Clover, Mousey toy, Baby captain), le operette synth dedite ad esplosioni improvvise (Muppet Face, Bog People), le convulsioni post-new-wave (Pox, Yellow raspberry). Tuttavia è la parte centrale del disco a far sgranare le orecchie, grazie ad alcune delle creazioni più ambiziose e devianti da loro mai realizzate; il titanico industriale di Saturn è pura poderosa corrosione. Rose of Sharon è un anti-inno cameristico straziante, con il classico vocalismo tortuoso di Stewart a giganteggiare. Ale rilancia e raddoppia, per voce e fiati astratti, un numero che Mark Hollis avrebbe senz'altro apprezzato, così come la spettralità amorfa di Dangerous, you shouldn't be here.Capolavoro di carriera.

domenica 25 settembre 2011

Xela - The divine (2009)

Sembra un titolo ironico. Di divino qui c'è ben poco...Le insistenti campane a festa che introducono questa cassetta lo-fi (sì, esattamente un tape nella sua prima edizione) sono un finto presagio; man mano che sfumano ne subentrano altre ma emettono rintocchi secchi, funerei, mentre in sottofondo voci convulse e stentoree si accalcano, sempre più affannate. Dopo 8 minuti il pastone si amalgama fino a diventare un unico, agghiacciante rumore. Entra un loop dalla vaga sembianza ambientale e risale la china, evapora e dà quasi senso di sicurezza nonostante l'atmosfera tutt'altro che accomodante. Questa era A Corpse Hangs In The House Of The Lord.
Anti-clericale? Blasfemo? Ma no, dai....giriamo il lato e c'è un bel drone siderale affiancato da loops di canti femminili angelici, che si perpetrano in tutto il loro fascino anche oltre il deragliamento del supporto. Meno strutturato del precedente, Of The Light And Of The Stars è uno di quei dark-ambient minimali che vivono di contrasti troppo lampanti per non essere compresi. E' un po' come prendere El camino real di Basinski, svuotarlo della propria purissima innocenza e trasfigurarlo ad uso film horror.
Autore di siffatte malevolenze è Xela cioè John Pel Di Carota Twells, inglese di Manchester di recente trasferitosi negli USA. Nonostante l'aspetto nerd, è davvero poco raccomandabile....

giovedì 22 settembre 2011

Wolf Eyes - Human Animal (2006)

Ma come sarà venuta alla Sub Pop l'idea di pubblicare questi tipacci qui...Lodevole iniziativa, comunque, dare un po' di visibilità ai rappresentanti più emersi di un movimento trasversale americano che ha saputo rinnovare gli ormai vecchi concetti di noise ed industrial con esiti notevoli (anche se negli ultimi anni i Sightings sembrano averli un po' sorpassati).
Quindi, ben oltre le saturazioni belluine e brade. Human Animal colpiva al cervello anche per le fasi più inquietanti, basti sentire in apertura i meditati clangori metallici di A million years, in cui un free-sax starnazza delirante fino a lambire grida androidi, e il suo proseguio Lake of roaches dalle onde ad alto tasso radioattivo. In tal senso, i veri vertici del disco sono costituiti dagli otto minuti di Rationed rot, per percussioni sparse, drones all'orizzonte magmatico ed ancora sax imbizzarrito, nonchè i 6 di Leper War, se possibile ancora più rarefatta in uno stile piuttosto inusuale per loro, ma di magnetismo indiscusso.
L'altra metà del disco...casino! All'insegna del trademark WE ci sono lo stomp infernale di The driller, l'elettro-macelleria della title-track e Rusted Menge, l'hardcore-power-electronics di Make noise not music. Catastrofici.

martedì 20 settembre 2011

Jah Wobble - Deep Space (1999)

Confesso di essere un po' indietro su Wobble. Sono molto legato alle sue prime produzioni, Betrayal e Bedroom album, che adoro, ma poi come spesso succede tendo a diffidare di chi inonda il mercato con decine e decine di dischi. Sull'ultimo Blow Up c'è un lunghissimo servizio di Zingales che li passa praticamente tutti, così ho deciso di pescare uno dei consigliati di metà carriera, e devo dire che ne valeva la pena, specialmente per la prima parte.
The immanent è un immagignifica immersione di 13 minuti nell'oceano dell'ambient-dub e della psichedelia più etnica, perseguita dai metafisici 12 di The trascendent che tiene fede al titolo. Il basso di Wobble, umile leader, tiene la guida senza mai salire sopra le righe, neanche quando è pronunciato e bombato in Disks, Winds And Veiling Curtains. Splendido il mantra celtico di Funeral March, per cornamuse, percussioni e bordoni d'organo impenetrabili.
Il dub-beat elettronico di Girl Amazed, con voci femminili in sottofondo e la tiritera di fiati sintetici di Debussy turning to his friend chiudono in tono un po' minore, ma Deep space resta comunque un gran bel trip.

lunedì 19 settembre 2011

Windsor For The Derby - Calm hades float (1996)

Quando, nell'autunno del 1996, i texani WFTD si fecero conoscere con questo formidabile debutto, sembravano un combo di nerds venuti fuori dal nulla più totale. Non c'erano informazioni al riguardo, le note di copertina del cd (rilasciato guardacaso dalla cult label Trance Syndicate) erano praticamente assenti, persino i brani erano senza titolo. In soccorso alla curiosità di quei pochi fortunati che ebbero la coincidenza di imbattersi in una copia di Calm hades float (io comprai il cd dopo averne ascoltato neanche metà), arrivò il buon PS con una laconica intervista su Rockerilla.
E' un disco strumentale al 90%, pieno di sfumature, di fascino nebuloso e di grandi trovate minimalistiche. Poteva unire musica cosmica tedesca a wave scabra (3, 5), jingle-jangle delle foreste più fredde (1) ad ambient rarefattissima ed inquinata, quasi dark (2). Le architetture delle 6-corde (ben tre in line-up) si intelaiavano alla perfezione: il pezzo più bello del lotto, la splendida 4, si basa su un cicaleccio di chitarre melanconiche che si ferma e riparte con una vigoria inattesa, a lambire la terra dei ragni meno ostica. Così come l'intricata semplicità di 6, mentre 7 veniva incaricata di chiudere la sfida con i suoi 9 minuti di lenta astrazione, quasi un elevazione, con un finale ghost di gorgoglii spaziali.
La ristampa che Secretly Canadian ha organizzato per il decennale ha aggiunto 3 pezzi live, apparentemente inediti: +/- continuava l'escursione con una ruvida tessitura minimalistica sporcata da feedbacks. Mithology e Skimming invece mostravano un gruppo già in rapida fase di cambiamento: l'inserimento di una seppur timidissima voce in due compassate post-ballads rendevano il contesto molto più accessibile, e di conseguenza meno ambizioso. Un vero peccato che Matz e compagnia non abbiano voluto insistere col canovaccio innovativo che avevano creato, usciti dal nulla più totale.

sabato 17 settembre 2011

Wet Hair - Dream (2009)

Una metà dei Raccoo-oo-oon al varo del nuovo progetto. Il farneticante vocalist polistrumentista Reed e il bravo batterista Garbes cambiano pagina e come si evince dalla foto, si danno alle tastierine e alle camicie. Un look ripulito per l'occasione.
Spiace dirlo, ma si tratta di una bruciante delusione. La fantasia freak al potere che rendeva unici i Raccoo-oo-oon è andata a farsi friggere. Dream è un 4-tracce a zero idee, in cui l'estetica ipnagogica prende il sopravvento, e in questo campo se non si è Sun Araw è davvero dura.
4 divagazioni per organo e Casio, effettini space di quarta mano, pochissimo ritmo, delirio vocale da posseduto: in pratica un disco inconcludente.
C'è una sottile differenza fra essere freak con costrutto ed essere strani per il gusto di esserlo: a sentirli, non si direbbe assolutamente che provengono da uno dei gruppi più interessanti della seconda metà dei '00.
E la cosa più stupefacente è che sono riusciti a fare di peggio con lo sconcertante In vogue spirit di quest'anno.

venerdì 16 settembre 2011

Bill Wells & Aidan Moffat - Everything's getting older (2011)

Un po' indeciso sui pesci da pigliare, il caro vecchio Aidan cambia rotta e si affida ad un tipo di personaggio con cui non aveva mai avuto a che fare: un tecnico.
Costui trattasi di Bill Wells, suo concittadino, pianista di formazione jazzistica che, snobbato dai colleghi connazionali, non ha mai disdegnato collaborazioni più che trasversali con bands britanniche di tutti i tipi, indie compresi.
Da questo bizzarro incontro ne esce un disco di rilassato (per non dire soporifero) jazz-pop, guidato dalle linee pianistiche di Wells su cui Aidan snocciola il suo canto sempre più professionale, pur con tutti i limiti che ben gli conosciamo. Morbide ballads ad alto tasso di levigatura, con una o due varianti in tutto (Dinner time è l'unico momento un po' eterogeneo), impianto un po' essenziale e un po' semi-cameristico con tanto di bassoon e archi, qualche beat-box adattato alla causa, ma le composizioni sono ben poca cosa.
E pensare che il singolo anticipatorio, If you keep me in your heart, è un pezzo molto bello che mi aveva fatto ben sperare, ma il resto non gli si avvicina neanche di km. Insomma, l'ennesima delusione per me, ArabStrap-integralista che continua a non darsi pace dei continui fiaschi che i due pubblicano incessantemente.
Ne hanno parlato tutti bene in giro. Quindi questo post non è da considerare.

mercoledì 14 settembre 2011

We Vs. Death - We Too Are Concerned / We Are Too Concerned (2006)

Brillante proposta di epic-instru per questi olandesi di Utrecht che svettano per capacità compositive e di arrangiatura in egual misura. In questo debutto compattano la loro formula fatta di cristallini arpeggi di chitarre, mai distorte, e la tromba che punteggia ovunque, laconica ed evocativa.
Il canovaccio degli 8 titoli è pressochè identico, ma sono tante le soluzioni che questi combattenti per la vita riescono ad ottenere: nel complesso si tratta di temi abbastanza melanconici, e l'equilibrio è invidiabile. Mai pesanti, mai stucchevoli, mai autoindulgenti. Con tali caratteristiche la noia potrebbe sempre esser dietro l'angolo, ma le belle ambientazioni la tengono ben lontana e soprattutto riescono ad evitare paragoni ingombranti.
Anche se uno alla fine me ne scappa, ma non c'entra nulla con i giorni nostri: il break centrale della splendida Snow cushioned the fall sfodera filigrane chitarristiche che chissà come mi ricordano addirittura lo Steve Hackett di certi passaggi in Selling England by the pound. E' solo il vertice, ma ci sono anche la sommessa One light will do, la frizzante We went to Novgrod, l'articolatissima Mother and father and me, a marcar bene le doti di questi olandesi raffinati e gentili.

martedì 13 settembre 2011

Wallenstein - Cosmic Century (1973)

Non so quanto andasse il prog-rock tout court in Germania nei primi anni '70, ma il destino inevitabile di un gruppo tedesco dedito a tal filone, in prospettiva futura, è essere automaticamente dimenticati, all'ombra dei giganti connazionali.
C'è da dire, poi, che i Wallenstein onestamente avevano un bello stile elegante e privo di autoindulgenze nel suo essere classicheggiante, quindi non erano certo replicanti di quanto proveniente da oltremanica. Il leader del gruppo, Dollase, aveva un retroterra di conservatorio e guidava col suo pianoforte il resto del gruppo in gradevoli e frizzanti quadretti prog, toccando un vertice di lirismo notevolissimo in Rory Blanchford.
La chitarra solista, esuberante e vagamente gilmouriana, e un violino che appariva in qua e in là si prendevano i riflettori nelle fughe più concitate. Con una voce più potente (la flebile e tremolante qui in dotazione finiva per essere il punto debole dell'assetto), Cosmic Century avrebbe rischiato di diventare uno dei classici del progressive europeo meno tecnico e spettacolare.
Vale comunque un ascolto.

VV.AA. - A means to an end - The music of Joy Division (1995)

Aveva senso, nel 1995, fare un tributo ai Joy Division. In contemporanea allo sconvolgente libro scritto dalla moglie di Curtis, molto prima di Control, molto prima degli Interpol e del revival tutto. Aveva senso persino che lo facesse una major, la Virgin, da sempre abbastanza attenta alla qualità. Mi piace pensare che questo disco li fece conoscere ad una gioventù alternativa che non li aveva mai sentiti. Non era il mio caso, ovviamente, quindi affrontai l'uscita con la diffidenza giusta ed un pizzico di curiosità. Innanzitutto erano presenti alcuni dei miei beniamini dell'epoca e quindi un motivo d'interesse in più c'era, ma come spesso succede alle compilation (ed ancor più ai tributi), il livello generale non è mai soddisfacente.
A means to an end nel suo complesso vale un 5 scarso: troppa sudditanza psicologica, troppe imitazioni pedisseque, quasi nessuno che coglie l'essenza dell'angoscia originale, quasi nessuno che rischia un minimo per metterci del suo.
Aprivano i mitici Girls VS Boys, all'epoca lanciatissimi su Touch & Go: la loro She's lost control variava impercettibilmente il modulo della strofa per poi tornare in carreggiata nel chorus, resa con la compattezza granitica classica della loro fabbrica. Bravi nell'espletare uno dei pezzi più ardui, in sostanza. Moby anticipava di un anno le atmosfere sulfuree del suo Animal rights con una New Dawn Fades che incuriosiva più per la performance che per altro. I Low spiritualizzavano a loro modo Transmission, i Codeine regalavano il loro canto del cigno con l'ultimissima apparizione in una rilassata Atmosphere, nulla di sconvolgente per entrambi, un po' di mestiere e poco più.
I migliori arrivavano alla fine, per fortuna, recuperando fra l'altro un paio di pezzi fra i minori in assoluto del primo repertorio, fra il 1977 e il 78. I Godheadsilo cancellavano il mal registrato originale di Walked In Line con una scheggia impazzita di schizofrenia per due minuti scarsi. I Tortoise, opportunamente appostati come fanalino di coda, trasformavano As you said in uno dei loro trip eso-tecnici che faranno storia l'anno successivo con Millions. Bocciato in misure diverse il resto del tributo (e sto parlando di 8 su 14). Troppo calligrafici Further, Kendra Smith, Versus, Desert Storm, Face To Face, falliti nel tentativo di trattare i pezzi sotto una scabra visuale personale.
Inqualificabile Corgan degli Smashing Pumpkins sotto le vesti di Starchildren, in una insipida ed infantile rendition elettronica di Isolation. Insensata la versione mainstream-pop di tale Stanton Miranda di Love will tear us apart, totalmente svuotata della sua poesia originale.
Addirittura scandalosi gli Honeymoon Stitch, nient'altro che Navarro dei Jane's Addiction, allora nei Red Hot Chili Peppers qui insieme al batterista Smith, che rovinavano Day of the lords in tutti i modi possibili, con esecuzioni tamarre sopra le righe e l'ausilio di un cantante completamente incapace.
Si capisce pertanto il 5 come valutazione finale.

Nuovo disco di Message To Bears

Per chi avesse cinque minuti da perdere (e qualche euro da "investire") segnalo la raccolta fondi della Dead Pilot Records che servira' a:
1 - Ristampare il da-lungo-esaurito primo ep di Message to Bears (EP 1), rimasterizzato per l'occasione, in cd e vinile;
2 - Stampare il secondo lp degli stessi, "Folding Leaves", anche questo in cd e vinile.
"Folding Leaves" e' il seguito del bellissimo primo lp del gruppo di Jerome Alexander ("Departures"), se gia' conoscete i suoi lavori precedenti non devo dirvi altro; in caso contrario, dategli un ascolto, perche' merita.
Mentre scrivo queste note, la sottoscrizione ha gia' raggiunto un totale di $1.312 sui $4.000 che sono l'obiettivo in sole 16 ore dal lancio dell'iniziativa.
Dei Message to Bears potete trovare notizie ad esempio su Tuning Maze, e su Place to Be.
Qui c'e' una recensione di ondarock e qui una recensione in inglese e un'altra recensione in inglese.
Per finire, su wave, il blog di brazzz, trovate diversi video dei Message to Bears.
(Allelimo)

lunedì 12 settembre 2011

Votiva Lux - Solaris (2002)

Occorre difendere la musica italiana, specialmente se ad una buona formula abbina testi interessanti, per noi che possiamo capirli. Ma se si vuol fare una proposta strumentale, maledettamente, si rischia di perdere il privilegio e subordinare il giudizio ad un contesto troppo ampio. Strana la storia del quartetto bolognese; negli anni '90 era dedito ad un wave-dark in italiano mutuato dai primi Diaframma, con tanto di cantante sosia di Sassolini. Comprai il demo Visioni attorno al '94 o '95, e lo trovai peraltro molto ben fatto, con delle buone songs in carniere. Poi fecero un disco che non trovai e li persi di vista. Solaris cambiava completamente pagina, rinunciando ad ogni vocalismo (eccetto gli epici fonemi del pezzo introduttivo, performati da un cantante gallese) e ad ogni influenza wave, andando a cozzare contro un rock psichedelico banale e triviale.
Estetizzanti ed autoindulgenti, i Votiva Lux coniavano delle mini-suite in cui l'approccio granitico delle chitarre trovava spalla in qualche effettino space, in una sezione ritmica monotona e senza scossoni, in un perpetuo sentore di jam-session inconcludente e perdipiù noiosa. Salverei soltanto la breve acusticheria di Inisheer, l'unico pezzetto che mi ha fatto immaginare qualcosa, chè per il resto spiace dirlo ma a me i Votiva Lux non dicono proprio nulla.

domenica 11 settembre 2011

Volcano! - Beautiful Seizure (2006)

Psicotico trio chicagoano che prova e riesce a mischiare un po' tutto, con risultati alterni ma degno di attenzione in questo debutto.
C'è una forza prorompente nei pezzi in cui le melodie sono appena più facili (Easy does it, Apple or a gun, Pulling my face in and out..), che finisce per farli sembrare dei Radiohead impazziti, col cantante tarantolato Smith che sfregia la chitarra atonalmente, salvo le eccellenti Fire Fire e Red white bells che si pregiano di ambientazioni mutanti ed avvincenti (la prima avrebbe anche fatto un figurone su The bends). Anche se è lui il frontman la maggior responsabilità delle musiche sembra essere sulle spalle del bassista/sintesista/electronic guy Cartwright, fautore di una lunga sequela di trovate freak (la new-age-core di $40.000 plus interest, lo stordimento lunare di Larchamont's arrival, lo sbilenco jazz di Hello Explosion, forse il pezzo più interessante del lotto), e del batterista Scranton, a suo agio nelle partiture più improbabili e rigoglioso di cascate di colpi memore di Kevin Shea.
Un disco difficile, ma che sarebbe venuto meglio tagliando un paio di episodi negativi (il delirio vocale di La Lluvia è ben poco digeribile, va bene l'avanguardia ma certi numeri già si perdonavano a fatica a Jeff Buckley), rendendolo un po' più condensato e maggiormente apprezzabile. Ad ogni modo, davvero bravi ed originali.

giovedì 8 settembre 2011

Volcano The Bear - Classic Erasmus Fusion (2006)

Disco discretamente incensato dalla stampa di settore, per un complesso inglese relativamente sconosciuto ai più. CEF è un condensato inafferrabile di tutte le freakerie emerse prepotentemente nel decennio '00, corredato da eclettismo invidiabile ed una varietà sufficiente a non tediare o indugiare in eccessi spropositati, specialmente se si considera il kilometraggio del percorso, che si aggira sui 70 minuti circa.
Pur riconoscendo l'originalità e la maestria del combo, che peraltro si dice sia in giro da metà dei '90, mi sembra opportuno citare parallelismi che si colgono facilmente: i Rollerball più caoticamente free-jazz, gli ultimi Cerberus Shoal nelle pieces più teatrali e con movenze vagamente etniche, Nurse With Wound nei cerimoniali più astratti. Non a caso Stapleton si è reso protagonista di una decisa promozione nei loro confronti, avendoli fatti uscire su United Dairies.
Per non tacere di qualche fraseggio che clamorosamente fa tornare indietro al leggendario The end of an ear di Robert Wyatt. Sarà anche per il massiccio uso dei fiati, che conferisce ancor più follia all'impianto deviato in partenza. Poi magari 17 pezzi sono anche troppi, ma è un operazione senz'altro concettuale (persino alcuni titoli dei pezzi ispirano simpatia) e nel finale c'è anche la lunga Erasmus, the queen dentist, che è un lungo drone di fiati increspato da una linea psichedelica (chitarra? voce manipolata?) che mi riporta dritto dritto ad Ummagumma, per poi sfaldarsi/trinciarsi in un rombo di motore. Quindi, togliendo 4-5 episodi poco riusciti saremmo stati di fronte ad un capolavoro di freakerie assortite, ma dopo tutto va bene così....Ottimi.

martedì 6 settembre 2011

Voice Of Eye - Vespers (1994)

Sulla scia del recentissimo post dell'amico Vlad che ha descritto il colossale Transmigration, replico col disco precedente dell'importante duo texano, dedito ad una ambient avanguardistica immagignifica da far tremare i polsi.
Un percorso che nasce negli anni '80, vede la sua sotterranea distribuzione nella prima metà degli anni '90 per poi interrompersi all'improvvso. Ogni pezzo di Vespers è dedicato ad un verbo programmatico delle loro atmosfere cangianti; risveglio, respiro, fioritura, declino, scioglimento, deriva e sogno. Breathing è un vero e proprio gigante tempestoso, un gorgo lento ed inesorabile nei suoni più oscuri. In contrasto a questo lato, i VOE spesso reclinano gli oscuri multi-drones per darsi ad un etnica di larghe vedute, come nelle oniriche Blooming, Drifting e Waning, fra tablas e soavi vocalizzi della fascinosa McNaim.
Ma sono le suite più minacciose a tenere banco; oltre alla già citata Breathing, c'è Melting ad inquietare con uno pseudo-ritmo di concretismi manipolati, e i 20 minuti della finale Dreaming, di un polifonico astrattismo da far accapponare la pelle.

lunedì 5 settembre 2011

Voice Of The Seven Thunders - Voice Of The Seven Thunders (2010)

Trio inglese che in realtà nasconde un solista, l'inglese Tomlinson, generalmente dedito ad un fingerpicking acustico. Cambiando la parola finale del moniker (da Wood a Thunders), ha dato fuoco ad un memoriale di rock psichedelico che affonda nei primi anni '70 come sabbie mobili.
Pur mantenendo qualche fase bucolica, il disco è pesantemente influenzato dalle pagine più acide della Germania del periodo (tutti hanno detto Amon Duul, ma io metterei anche qualcosa degli Ash Ra Tempel), con lunghe fasi soliste di chitarra (in un paio di episodi un po' prolissa, a dir la verità). E' comunque un discreto compendio di freakedelia che migliora verso la fine, specialmente con il misticismo di Cylinders, che centra l'obiettivo dove per esempio falliscono dei corrispondenti oltre oceano come i Grails, con l'avvincente space-rock di Set fire to the forest, per chiudere con l'agreste ballad di Disappearances, guidata da un genuino spirito west-coast.

domenica 4 settembre 2011

Vampire Rodents - Premonition (1992)

Musica Totale, in questo disco-fiume di 70 minuti, il secondo di questi canadesi, frutto dell'atipico incontro fra un antropologo e un compositore di colonne sonore. Musica imprendibile, che disorienta con i suoi eccessi d'imponenza, grazie anche all'uso spropositato dei campionamenti.
Durò appena un lustro, il progetto del chitarrista Vanhke e del tastierista Wulf, dedito a queste mini-opere dell'assurdo. Premonition è composto da 21 collage impazziti a base di funk raggelante, rock industriale, cosmic-ambient, elettronica post-wave e persino musica da camera. Infatti nella formazione era appena entrata la violinista Akastia, che svisava fra schizzi debordanti e seriosità neo-classica (è protagonista nel miglior titolo in scaletta, l'impressionante Dresden), contribuendo in maniera decisiva a variegare il suono vampiro.
Un sound il cui lo spiegamento di mezzi giustifica il fine di addossare tensione senza mostrar sangue, come in un thriller efficacissimo: la voce di Vanhke, stridula e monotona, le meccanizzazioni freddissime della drum machine, le rasoiate atonali di chitarra e come già riferito sopra, la marea interminabile di campionamenti. Nel finale c'è spazio persino per sonorizzazioni da orchestra e un paio di numeri new-age, per un disco il cui potenziale s'inizia a capire soltanto dopo 4-5 ascolti, a fronte di un primo in cui avevo sentito un rigetto.
Attenzione, occorrono precauzioni.

sabato 3 settembre 2011

Usa Is A Monster - Space Programs (2008)

Sarà anche questione di gusti, ma io sono uno di quelli che SIB di Blow Up, recensendo il recente doppio-debutto del nuovo ensemble di Langenus, cita sarcasticamente come "coloro" che sono fan degli UIAM e chiedono spiegazioni al rasta-pelato-barbuto in merito alla sua agghiacciante svolta country. Ora, io ho ascoltato soltanto Good god e non Infinite ease, che viene descritto come un po' diverso, ma effettivamente sono rimasto spiazzato. Non vedo nulla di male nel tornare alle radici, ma stilisticamente non si avranno attenzioni se non si possiede una dote di songwriting come quella del vecchio Will Oldham o, per restare ai nostri giorni, come degli Arbouretum. Good god non è un brutto disco, semplicemente non ha nulla da dire e non riesco a portare l'ascolto al termine, a maggior ragione perchè sono deluso.
Hofmann si è ritirato in una comune in Michigan e il mostro, una delle entità più uniche che si siano sentite nel decennio '00, non esiste più. Eppure c'era un percorso da proseguire, perchè Space Program era diverso. Dopo aver consacrato il noise-prog acrobatico con Wohav e Sunset, i due bardi ampliavano le soluzioni e ammorbidivano parzialmente il suono. Il tour d'addio che seguì li vedeva con una formazione a 4, con ben 2 tastieristi (!), dato che era diventato impossibile proseguire con il duo nudo e crudo. Ma anzichè pigiare sul pedale del prog, come sarebbe lecito immaginare, progredivano verso una forma sempre personalissima, con decise aperture alla melodia, agli schemi complessi, all'evocatività indiana d'America. Le distorsioni diminuiscono, i tempi si fanno meno vorticosi.
Il manifesto è Ice bridge, la perla del disco: un sogno ad occhi aperti in 6 minuti, con fraseggio chitarristico epico doppiato dall'organo, da pelle d'oca. La girandola che introduce Above all it's all songs è il preludio ad una tensione acustica di rara bellezza, doppiata subito dopo da Tulsa.
Avrei gradito che Langenus procedesse nella direzione di questi due pezzi o di All or nothing, in un folk-rock geneticamente modificato di tale portata. Non avrei preteso che portasse avanti il discorso del monster-brand più arrangiato di Cocaine Wedding o di Frozen rainbows, nè che partorisse labirinti geometrici passionali come la conclusiva Florida.Spero di ascoltare presto Infinite ease e di poterlo rivalutare, anche se temo che il rimpianto per aver perso gli UIAM continuerà a rendermi prevenuto contro il country.

venerdì 2 settembre 2011

Ultra Bide - God is God, Puke is Puke (1995)

Ok il nome è quello che è, magari ha un altro significato. Infatti sono un trio giapponese che a metà '90 approdarono dall'altra parte del Pacifico e di conseguenza all'Alternative Tentacles per rilasciare un paio di album, il primo dei quali era questo pregevolissimo campionario di crossover eclettico.
Il punto di partenza è sempre l'hardcore-punk, che specialmente in Giappone negli anni '80 aveva visto una scena importante e diffusa. Altri ingredienti dell'Ultrabidè-sound erano composti da scorie diffuse di noise-rock, qualche puntatina maliziosa sul funk-metal, voce stridula e beffarda, qualche intermezzo sperimentale. Nel complesso God Is God convince per le soluzioni tecniche, con gli highlights nel meltin pot emotivo di Saigon Whore, nella rocciosa What The Hell, nell'ipnosi di Loop col bassista sugli scudi, nella psichedelia core di Kill me tender, o il vortice ossessivo di Destroy. Il tutto con la voglia di fondo di divertirsi, senza esistenzialismi apparenti.
Con Biafra fecero un altro disco e poi appena due dischi in 10 anni, al punto che si può dubitare dell'esistenza attuale del gruppo.
Piccolo cult, ad ogni modo da recuperare.

giovedì 1 settembre 2011

Ui - Sidelong (1996)

Negli anni d'oro del post-rock, chi incideva su Thrill Jockey o Southern aveva possibilità di ottenere una buona esposizione. Ma i newyorkesi Ui dalla branca cercavano di fuggire, nonostante la formazione facesse sospettare subito l'adesione; due bassi, Jones e Waldmann, ed un batterista, Wright. Il loro semmai era un funk-dub contaminato, rallentato e passato sotto un filtro leggermente jazz. Che, a parte qualche influenza palpabile (i Liquid Liquid nelle fasi più percussive, i Can un po' appannati del 1976-77) finisce anche per essere abbastanza peculiare.
Peccato che un po' di manierismo ed autoindulgenza in Sidelong inficino leggermente il complesso, rendendolo poco più di un gran bel sottofondo; il basso-base snocciola belle linee sinuose, l'altro si incarica delle funzioni armoniche con ghirigori spesso dissonanti, la batteria indugia su frasi percussive insistite, quasi ipnotiche. Qualcosa del primo disco dei Tortoise affiora, ma senza la stoffa di McEntire e compagnia. Sarebbe stato meglio evitare qualche frase di chitarra solista (presumibilmente suonata da Jones), ingombrante ed inopportuna.
Bravini ma passabili.