martedì 31 luglio 2012

Disappears - Lux (2010)


Non avrebbe avuto senso fare la musica dei 90 Day Men senza di loro. Questa la chiosa di Brian Case in un intervista a Blow Up.
Infatti per lui Disappears è stato un cambiamento radicale. Un po' come tornare alle (presunte) origini, non dico una regressione ma quasi. Non ho pensieri negativi nei loro confronti anche se ovviamente coi 90DM non c'è proprio nulla di comparabile. Basti solo pensare al suono di Case: dal pulito arzigogolato di un tempo agli accordi grezzi, impastati e monocordi di adesso. Alle sue spalle un trio ordinato, mai sopra le righe, ma fautore di un suono bello acido e grasso.
In Lux non mancano bei momenti, come la psichedelia viandante di Magics, la danza sfrenata di Marigold, o lo space'n'roll di Not nothing. L'influenza degli Spacemen 3 è un fattore che difficilmente si può cacciare in un angolino, nonostante l'impeto wave-garage sia imperante (se non fosse per la voce, certi pezzi rievocano persino i Gun Club).
Alla fine però non resta nulla di memorabile che si faccia ricordare, con la netta impressione di aver sentito queste sonorità centinaia e centinaia di volte, e che i Disappears non abbiano abbastanza personalità per emergere. Peccato.

lunedì 30 luglio 2012

Dinosaur Jr. - Beyond (2007)


In tutta sincerità, non è che mi aspettassi grosse novità dalla riunione. Semmai mi è sempre piaciuto immaginare che Mascis abbia dato a Barlow i soldi che gli doveva da quasi 20 anni. Non che quest'ultimo si sia inpoverito in canna nel frattempo, ma si trattava semplicemente di mettere le cose in pari e rendere giustizia ai primi 3 grandi album della band.
Così Beyond è niente di più di quello che ci si aspettasse. I toni sono solari e sornioni, il sound ispido e iper-distorto come da copione, le melodie di Mascis svaccate e grintose. Un bel 3 quarti d'ora di sound giurassico, per chi li ama non ci saranno delusioni. A distaccarsi un po' la ballad con archi di I got lost, straniante.
Non ci sono perle che sconvolgono la vita, ma è quasi sintomatico che il pezzo migliore, Lightning bulb, sia a firma di Barlow. Che ne ha fatte 2 su 10 dell'intero disco.
Curioso, no?

(Link rimosso - Questo è il primo disco beccato dalla DMCA dopo l'introduzione dei miei nuovi stratagemmi anti-anti-sharing)

domenica 29 luglio 2012

Di Jarrell - April Orchestra présente RCA Sound Vol. 5 (1976


Pianista e compositore per film e televisione della vecchia scuola, anche Amedeo Tommasi ha avuto la sua rilevanza in ambito library. Per la illuministica collana della RCA francese, sotto le mentite spoglie di Di Jarrell, una sonorizzazione direi per documentario a sfondo lavorativo industriale. Si evince dai titoli: Industria 2000, Meccanizzazione, Metalmeccanica, Sala Macchine, Motori elettromagnetici e così via.
E le atmosfere sono davvero in tema, con la plusvalenza però di un fattore artistico non indifferente. L'elettronica gorgogliante, le spirali ossessive, i ghirigori atonali di Tommasi non sono poi molto distanti dall'industrial che l'anno dopo i Throbbing Gristle sdoganeranno con scalpore.
Non è estremo come Zanagoria, ma poco ci manca.

giovedì 26 luglio 2012

Desert Sessions - Vol. 9 & 10 (2003)


Occorre dire che le Desert Sessions non sono mai state un granchè per cui esaltarsi. Troppo spesso si sono rivelate un vezzo di Homme per circondarsi di colleghi più o meno quotati, anche se con lo spirito più sano e divertito possibile.
Ma se per l'ultima coppia di volumi, ormai un decennio fa, si è scomodata l'iconica PJ Harvey, si può dire che almeno abbia chiuso in bellezza. Caso strano, infatti, il poker di pezzi in cui compare sono da aggiungere a pieno titolo al repertorio più nobile dell'eroina inglese: il pezzo di lancio Crawl home è scuro e pressante, di quelli che si attaccano in testa a vita. There will never be a better time va ascritto al patrimonio delle ballad esacerbanti ed ossessive. Appena appena sotto il livello A girl like me e Powdered wig machine, sempre caratterizzati però dall'imprinting artistico inimitabile della nostra.
Il resto viaggia a fasi alterne: In my head si assesta sui livelli medio/alti dei Queens Of The Stone Age, Bring it back gentle esce nel deserto con l'immancabile contributo vocale di Lanegan. Qualche stranezza, qualche riempitivo, ed un'imperdonabile nefandezza come I wanna make it wit chu completano il quadro.

mercoledì 25 luglio 2012

Denison Kimball Trio - Walls in the city (1994)


Non sarebbe stato un male se fossero stati un vero trio, in una buona metà di questo album.
Invece DK3 è un duo, ovvero il grande chitarrista dei Jesus Lizard Denison e il batterista dei Mule Kimball. L'intenzione del debutto era di rendere jazz ciò che difficilmente sarebbe stato accettato dai puristi del genere, oppure di sfidare apertamente il pubblico alternativo dei JL con una formula alquanto inedita alle loro orecchie.
Per Denison anche l'occasione di sfogare la sua indubitabile perizia tecnica. Con Kimball a fornire un morbido, spazzolato e sincopato supporto, l'asso svariava da timbri puliti a stridori di vario tipo, in perenne assolo ma senza mai tediare. Dicevo che non sarebbe stato male fossero stati un trio: in buona metà dei pezzi un bel contrabbasso avrebbe impastato alla grande il sound secco e scarno del duo, evitando qualche passaggio a vuoto.
Non mancano comunque le sorprese varianti alla formula, specialmente nella seconda metà: gli scampanellii armonici di One if by land..., i feedbacks sabbatici di Postlude e l'onirismo ambientale di Two if by sea.

martedì 24 luglio 2012

Deleted - Entertainment 2 (1993)


Amarcord di quelli storici: a metà anni '90 per un certo periodo fui sostenitore di Snowdonia, ma di quella originale che era questione esclusiva di Pustianaz, non quella con i Maisie che avrebbe preso il sopravvento a seguire.
Il motivo era lo stesso che mi spingeva a comprare i demo, ovvero che gli oggetti costavano pochissimo, ma qui c'era un vero e proprio catalogo e mi piaceva una serie di circostanze: la sotterraneità delle proposte che incuriosiva il mio giovane orecchio, la passione che il buon Marco trasmetteva e così finii per farmi un po' di quella lista.
Non trovai nessun capolavoro e non ascolto nulla di ciò da tempo immemore (in maggior parte erano materiali estremamente ostici, seppur abbastanza originali), compreso questa cassettina che invece ripesco con molto piacere. Deleted era un progetto francese che, scopro oggi, faceva testa ad un chitarrista, tal Christophe Petchanatz, che ha durato più di dieci anni nell'underground europeo più profondo. Quanto al contenuto, trattavasi di materiale molto interessante: c'è l'influenza della new-wave più sperimentale (i primi 23 Skidoo su tutti, ma a tratti direi persino i This Heat), con iniezioni di elettronica antidiluviana, grossa enfasi sulle percussioni, flauti deliranti, una chitarra aspra che entrava a tratti ma sapeva prendere le redini. Un sound astratto e fisico al tempo stesso, dipanato in pezzi relativamente brevi e sintetici. Progetto da ripescare: Pustianaz aveva messo a segno un bel colpo.

lunedì 23 luglio 2012

Deerhunter - Cryptograms (2007)


Mi sono trovato d'accordo con gli entusiasmi espansi per Halcyon Digest, al momento ancora ultimo capitolo. Quindi è un'altra vittoria dell'indie-pop?

Nel caso dei Deerhunter, all'epoca di Cryptograms uscire su Kranky fu buono, perchè diede loro visibilità e potenziale da sviluppare. Ma nel complesso il disco è indeciso, disomogeneo.
E' frammentario, confusionario, troppa carne al fuoco. Shoegaze, ambient, psycho-pop, new-wave; quanto di buono espresso viene mandato a cozzare contro l'altro.
Ma li giustifico, specialmente alla luce di quanto hanno fatto dopo. Certe volte il talento ha bisogno di maturare un bel po' per venire a galla.

domenica 22 luglio 2012

Death Ambient - Drunken Forest (2007)

Ambient della morte = alta sollecitazione cerebrale.
E' uno di quegli esempi che fermano sulla sedia a riflettere, o in macchina a fantasticare, che riconciliano con l'avanguardia quando sembra di averne abbastanza per un po'. E' la dimostrazione che in età avanzata (chè sia Frith che la Mori non è che sono esattamente dei giovanotti) si può fare tesoro dell'esperienza e della creatività per sfornare sfide eclatanti come questa.
Non c'è dubbio che il primo pregio di Drunken Forest sia la qualità infinita del suono, di una purezza e fedeltà assoluta nonostante l'assortimento non sia certo dei più tradizionali. Frith alterna chitarre a banjo suonate alla sua maniera, la Mori smanetta con l'elettronica in lungo e in largo, c'è poco spazio per contrabbasso e batteria. Sono gli inserti di archi ad elevare la scrittura astratta di una sfida che lascia senza fiato.
E' una battaglia impari, ma alla fine non si sa chi vinca. L'ascoltatore attento viene premiato, in ogni caso.

sabato 21 luglio 2012

Dead Meadow - Howls From The Hills (2001)


Terra di mezzo fra le lande lisergiche del debutto e la consacrazione del terzo, Howls segna il passo di un sound modello Blue Cheer con la moviola dei Black Sabbath, risultando forse il disco meno esaltante di una carriera luminosa.
Ma per chi li ama come me è sempre un bel sentire: anche se manca un highlight come Beyond the fields we know, per esempio, il contesto è possente e coeso nella giusta misura. Spiccano la baldanza di Dusty nothing, Everything's going on e The breeze always blows, nonchè le movenze roventi di Drifting down streams, The white worm, One and old.
Potrei quasi definirlo il loro disco doom, per quanto deviante sia la definizione. E' interessante nell'ottica di tracciare la crescita di Jones & Co. verso i lidi dorati del futuro.

venerdì 20 luglio 2012

Dead Letters Spell Out Dead Words - Lost In Reflections (2008)


Svedese dall'aria enigmatica, lo svedese Ekelund è un performer elettronico che pubblica sotto sigla altrettanto enigmatica. Buon segno, chè dalla Scandinavia spesso vengono fuori solisti di questa natura con proposte validissime (due nomi su tutti, Library Tapes ed Elegi).
Siamo al di sotto di questi standard ma di poco. La partenza è deviante, col dolente giro chitarristico discendente di This Room Seems Empty Without You: un po' di brio in più ed avrei sperato di incontrare un seguito spirituale dello scomparso Asbestoscape.
Non è così. Il disco si inerpica in un ambient di matrice cosmico/dronica (qualche assonanza coi Super Minerals è udibile nei tratti più impantanati) che genera qualche lamento chitarratistico indolente ogni tanto e che trova il suo apice massimalistico nei 20 minuti dallo stratificato finale post-gotico di Himmelschreibenden Herzen, con apparentemente tutte le cose a posto come stavano all'inizio del percorso.

giovedì 19 luglio 2012

Dead C - Harsh 70's Reality (1992)


Se esiste l'inferno, i fans dei Beatles passeranno l'eternita` ad ascoltare questo disco.

Questa è la sentenza finale che Scaruffi verga a corredo delle sue argomentazioni per Harsh 70's Reality. Ok, è bello forte anche se io lo alternerei con qualche bordata di power-electronics o nippo-noise degli anni '90, giusto per variare la tortura...
C'era un'aria strana in Nuova Zelanda fra gli '80 e i '90, la storia è ben nota. Se il mio amato Peter Jefferies ne ha rappresentato l'anima più arty, i Dead C sono stati gli alfieri dell'out-noise-psychedelico. Ma out di quello serio, eh.
A fronte di un delirio psico-melmoso come i 22 minuti di Driver U.f.o. c'è ben poco da dire. Le chitarre di Morley e Russell sono quanto di più deragliato si possa pensare. Le registrazioni furono fatte in casa ed erano impro all'80%, mi verrebbe da dire.
Nel proseguio trova spazio anche qualche sprazzo di forma convenzionale (Sky, Constellation,Sea is violet il vertice del disco), ma è tutto irrimediabilmente coperto di lava inarrestabile, la batteria è suonata a casaccio e i momenti meno sporchi sono numeri di interiorità spastica che fa riflettere molto poco (Suffer Bomb Damage, Hope).
Nonostante la natura carbonara, il disco non è passato inosservato alla critica specializzata che lo considera un capolavoro di free-noise.
Ma attenzione, materiale molto caustico...

mercoledì 18 luglio 2012

De De Lind - Io non so da dove vengo.... (1973)


Milanesi, raro esempio di it-prog senza tastiere, con l'ausilio neanche tanto insistito di un flauto. Unico album inciso, che si colloca abbastanza alto in graduatoria fra le semi-meteore, e vedeva un ottimo interplay fra chitarre grintose e le strutture complesse, col vocalist certo non eccezionale ma anche lui poco invasivo.
Ovviamente concettuale e psico-filosofico, il flusso di Io non so da dove vengo pesca in qua è in là dai Jethro Tull, a causa del fiato, ma neanche in maniera pedissequa come sosteneva il bassista interpellato in un amarcord qualche anno fa. A mio parere anche qualcosa degli Osanna de L'uomo affiorava, ma il disco funziona bene tutt'oggi per le ottime arie che seppe costruire, palesando lo spessore della personalità in seno alla band.
Che si sciolse dopo un furto di strumentazione e la distruzione del furgoncino di servizio. Anni difficili in Italia, i '70.

martedì 17 luglio 2012

Miles Davis - Bitches Brew (1970)


Proseguo molto timidamente e sporadicamente la mia mini-ricerca fra i dischi storici del jazz, se non altro per poter dire che li conosco. Eh eh...
Beh, ora va meglio. Era da ascoltare, Bitches Brew: non tanto perchè è sempre stato così acclamato e decantato, ma perchè è un piacevole labirinto. Perchè anche se è intitolato solo ad una persona è un lavoro di gruppo telepatico.
E anche se dopo averlo assimilato non ricordo i passaggi chiave, mi restano impressi alcuni momenti topici: la tromba col delay della title-track in primis, le astrazioni da capogiro di Sanctuary, le orchestrazioni perfette di Spanish key.
Non so se proseguire la mia mini-ricerca, ma per ora sono contento di aver scoperto Bitches Brew.

lunedì 16 luglio 2012

Date Palms - Of Psalms (2010)


Una serie di salmi che rilassano e creano paesaggi d'altri continenti, in particolare con lo sguardo rivolto verso l'India. E pazienza se il complesso non è così eccezionale, se non inventa nulla di nuovo: Of Psalms mi è piaciuto fin dal primo ascolto, e non di rado lo metto quando vado a dormire.
Tali salmi sono numerati, ma alla rinfusa: il #7 apre il disco con un inequivocabile drone di sitar, doppiato dal languido violino e frasi profonde di basso. Il tema riporta alla mente, se ovviamente non nel risultato finale quanto nell'attitudine, i Popol Vuh più placidi.
Escludendo il teso salmo #4, con tanto di chitarre in feedback sullo sfondo, il mantra prosegue indefesso con il #3, ancor più rarefatto e galleggiante, dilatato fino a 14 minuti; nel finale una serie minimale di accordi col piano elettrico riportano lentamente verso terra la mongolfiera.
Il #5, con qualche ispido accordo di elettrica, è l'ultimo sentiero verso chissà quale santuario, oppure il cerchio che si chiude, tornando al punto di partenza.

domenica 15 luglio 2012

D. Rider - Mother of Curses (2009)


Il genio irregolare degli US Maple sopravvive ai giorni nostri col progetto messo in piedi dal chitarrista Rittmann, di cui questo è stato il debutto. I sodali della situazione sono una synthesista, un sassofonista ed un importante batterista.
Il pezzo chiave è Touchy, il più irresistibile: beat eclettico e strascicato, il mormorio sornione e il fraseggio chitarristico spigoloso di Rittmann. Basterebbe questo a fare vetrina, ma il succo del discorso si compie nel tortuoso tragitto di questo post-blues catastrofico che si regge su ritmiche lente quanto irregolari (Dear Blocks ha un impronta beefheartiana riconoscibile più del resto), sulle scudisciate mai troppo invasive di Rittmann, ben dosate svisate di sax e scivolate di elettronica sottopelle.
Si tratta della mediazione ideale fra gli US Maple e l'esperimento forse non troppo riuscito del supergruppo Singer: il mood cubista ha il sopravvento su tutto e rende l'ascolto eccitante per tutto il tempo. Rittmann è un genio che ha ancora tanto da dire.

giovedì 12 luglio 2012

Current 93 - Aleph At Hallucinatory Mountain (2009)


Non senza sorpresa, continuo a trovare estremamente interessante il proseguio dell'opera di Tibet e i suoi collaboratori più o meno occasionali. Come nel caso di Aleph, il suo lavoro più sanguigno e finanche variegato.
Se gli amanti stretti del suo classico stile folk hanno trovato conferme e soddisfazioni in Poppyskins e nella splendida Urshadow, di sorpresa si può parlare riguardo alle chitarre distorte impiantate nell'aria gotica-neoclassica che irradiano i salmi di Invocation of almost, On docetic mountain e soprattutto nella magnifica ballad desertica di 26 April 2007.
Vero apice del disco però secondo me restano i devastanti 10 minuti di Not because the fox barks, macigno infernale di basso fuzzato e batteria compatta che non possono non ricordare gli Om, con cui un paio d'anni prima avevano condiviso uno split.
Non so quanti artisti possono vantare una freschezza tale dopo trent'anni di carriera, e continuare a perpetrare un'unicità irriducibile come quella di Tibet.

mercoledì 11 luglio 2012

Cure - The BBC Sessions 1979-1985


Bootleg relativamente recente (pare sia del 2008, ed è persino censito su Discogs) che ha la mirabile missione di mettere in ordine tutte le sessions registrate per mamma BBC nell'arco indicato. Iniziativa lodevole, anche alla luce del fatto che le ristampe deluxe degli anni precedenti escludevano qualsiasi traccia in merito.
La prima notazione che salta all'occhio è che manca la prima chiamata di JP, quella di novembre 1978, ma dopotutto è recuperabile altrove senza troppi problemi. Siamo nell'area strettamente feticistica, come ci si può aspettare, e la qualità audio è variabile. Curiosamente è meglio per quanto riguarda il vecchio materiale, e di questo ne sono felice. Oltre alle 5 per Peel ce ne sono due per Skinner e una per Saturday live.
Vien davvero da chiedersi perchè Ciccio Smith abbia voluto dimenticare queste sessions, storicamente importanti anche se (credo che) il successo riscosso ne fu indipendente. Fra le curiosità principali: A desperate journalist che altro non è che Grinding Halt con testo febbrilmente modificato, una versione iper-ipnotica di Forever, le sempre superbe e vibranti The Holy Hour, Drowning Man, Faith, con la precarietà di testi ancora embrionali e l'intensità emotiva di anni irripetibili.
Nel 1982 spicca l'esotismo gotico della rara Ariel, a seguire l'anfetaminica Give me it a colpi rombanti di bonghi, e poi fino alla fine c'è il materiale decisamente più commerciale di The head on the door, con la discesa della qualità anche in tema di registrazione, per non dire lo-fi in senso stretto.

martedì 10 luglio 2012

Cul De Sac & John Fahey - The epiphany of Glenn Jones (1997)


Non sono un intenditore di John Fahey, ho ascoltato qualche suo disco sulla spinta giornalistica che mi è sempre pervenuta. Credo che il fingerpicking non sia propriamente la mia cup of tea, mentre ho sempre avuto un bell'entusiasmo per i Cul De Sac.
Voluto fortemente dal chitarrista Jones, come si può evincere dal titolo, il disco vive di contrasti stridenti. A fronte di una buona metà di tracce puramente acustiche solo in parte sporcate da concretismi o qualche effetto (e direi farina del sacco di Fahey), ci si trovano fra gli esperimenti più arditi mai operati dai CDS.
La sezione ritmica trova spazio soltanto nella fantasmagorica The new red pony, con tanto di assolo di basso fuzzato. Per il resto sarebbe stato più corretto parlare di un disco a 6 mani, con Jones e il sintesista Amos che spara deliri psicotici a tutto gas. Il vortice allucinato di Our puppet selves, 8 minuti di pura follia, è la testimonianza più lampante, insieme alla seconda parte di Gamelan collage e i 9 sballatissimi minuti di Magic Mountain.
I lunghissimi free-form di Nothing e More nothing alla fine sembrano quasi più improvvisazioni a casaccio, con momenti di grande effetto ma che guastano un po' il clima generale del disco che, come si è raccontato, vide litigi continui fra Fahey e il gruppo.

lunedì 9 luglio 2012

Crescent - Electronic Sound Constructions (1997)

Dovessi definire questo disco in una parola, userei l'aggettivo fantasmatico.
Distante dal bellissimo By the roads sia in termini temporali che di riuscita finale, al primo ascolto sembra quasi una raccolta di demos, di prove abbozzate. Perchè comunque il dna dei Crescent si sente, la mistura di atmosfere abbandonate a sè stesse, le sonorità lo-fi aggrovigliate insieme da percussioni echeggianti, frasi minimaliste di organo, samples vocali.
Permane un senso di astratto disorientamento: nel finale lo pseudo-dub di Quince flowers sembra riportare un po' coi piedi per terra, mentre sarebbe stato evitabile il quarto d'ora immobile di Philicorda loops, davvero inutile.
A parte questo, un disco che necessita di diversi ascolti per crescere un po': a pensarci un po', è quasi ipnagogico per lo stato di trance che può generare. E allora sì, perchè non sostenere che i Crescent potevano essere avanti di qualche anno?

domenica 8 luglio 2012

Cranes - Loved (1994)


Sulla scia del precedente Forever, i fratelli Shaw battevano il ferro caldo e continuavano ispirati il loro percorso senza necessariamente svendersi, nonostante il notevole successo in UK.

Anzi, con una notevole ispirazione. Shining road resta probabilmente la loro gemma più lucente, fatta di una melodia acustica stridente con le elettriche asperità chitarristiche.
E' un disco fondamentalmente diviso in due: i fragori della prima parte sono significativi recuperi in chiave appena più luminosa dei cupissimi esordi. In stile Forever, cioè improntato su raffinatezze gotico-etereee (con qualche reminescenza Cure), giace la parte finale del disco, che secondo me prevaleva di natura per via della voce della Shaw, ben più adatta.
Così Bewildered, Come this far, Paris And Rome sono deliziose e variegate songs di delicato barocchismo che in un ipotetico best of non potrebbero mancare.

sabato 7 luglio 2012

Course Of Empire - Infested! EP (1994)


EP uscito a corredo dell'omonimo, brillantissimo disco dello stesso anno. Ogni volta che li riascolto penso all'assetto della doppia batteria e continuo a pensare che fu una grande idea.
La danza a rotta di collo di Infested!, oltre alla versione già nota, veniva remixata da tale Darwin Goodman con inserimenti fiatistici da banda jazz, ma l'effetto finale non entusiasma di certo.
L'attenzione perciò si dedica ai due inediti: la rocciosa fiammata crossover di Let's have a war e soprattutto la splendida Joy, tema epic-gotico di presa immediata, che sarebbe finita sul podio delle migliori tracce dell'album.

venerdì 6 luglio 2012

Valerio Cosi - Freedom Meditation Music Vol. 3 (2007)

Drone-jazz?
Ascoltanto progressioni come Blue green journeys e The blue green journeys variations si direbbe che la musica di questo sassofonista si fondi in un ibrido interessantissimo fra i ronzii elettronici e le svisate in stile. Ma c'è questo ed altro: l'ambient cupa e melmosa dell'iniziale Chumbani Mule, le jams stratificate per tamburi tribali, fiati sovrapposti ed elettronica debordante, grezza, disturbante di I wanna be black e Ajuaye Mengi, Nasomi Mengi catalizzano l'attenzione maggiore per il senso di sana avventura che sprizzano.
In You can't pretend to be someone gioca fra l'alternanza di uno standard swingato e le invasioni rumoristiche, quasi industriali. Gli arcobaleni intercalari di sax in Love is everywhere,sottolineati da un timidi pianoforte, chiudono il disco con una nota colorita e positiva.
In effetti, Cosi dà l'impressione di essere abbastanza divertito nell'improvvisare. E dovrei approfondire la discografia di questo paisà da esportazione, trovatosi ad incidere per più di una label americana.

giovedì 5 luglio 2012

Coptic Light - Coptic Light (2005)


Nello stesso anno in cui Ian Williams ritornava con la prima uscita dei Battles, il suo ex-compagno in quella fenomenale avventura che fu Storm And Stress Kevin Shea appariva con questo trio one-shot. Davanti a lui Fine (ex-chitarrista dei seminali Bitch Magnet) e Winterberg (ex-bassista degli Antioch Arrow, band post-hardcore dell'area Gravity), ad elaborare un 3-tracce avvincente e dinamico.
Il consueto percussivismo pazzoide ed imprendibile di Shea, si sa, può oscurare facilmente gli altri componenti del palco se questi non sono all'altezza. E l'attacco di Mix the races può effettivamente ricordare certi passaggi di What burns never returns dei Don Caballero, salvo poi deragliare in rasoiate veementi e passaggi liquidi che riportano proprio ai Bitch Magnet di Ben Hur.
Al di là di presunti paralleli, il percorso di Coptic Light è un viaggio tortuoso sulle scomode mulattiere del math-jazz più selvaggio, con il quarto d'ora tempestoso di Mix the races, i dieci minuti di flussi ipnotici di The Horse e i venti di Eat it high school, mega-suite in fade-out progressivo dall'esplosione iniziale fino ad un flebile drone agitato dalle ultime rullatine di un maestro batterista che è sempre rimasto sotterraneo per non so quale motivo.

mercoledì 4 luglio 2012

Julian Cope - Jehovakill (1992)


Non vorrei esagerare, ma credo di aver ascoltato per l'ultima volta Jehovakill nel 1994 o 1995. Ce l'avevo in una C60 che non ricordo neanche chi mi fece, e mi spiazzò. Mi lasciò interdetto, con un senso di casino sonoro pressochè irrisolvibile.
Oggi, il senso di incompiuta è identico. Ciò che secondo me ha caratterizzato di più in assoluto la carriera di Cope dalla metà degli '80, cioè dopo i gloriosi primi anni, è stata una mania di grandezza irrefrenabile, una tendenza alla dispersione del proprio talento che non gli ha permesso di lasciare capolavori tangibili.
Fra le 16 tracce di Jehovakill ci sono anche ottime cose: la ballad enfatica di Know è l'esempio più fulgido delle potenzialità di Cope songwriter puro, ed in misura minore Upwards at 45°. Lo space-surf impetuoso di Necropolis, il relax sospeso di Gimme back my flag. Ma i 1000 stili del resto del disco vanno a cozzare l'uno con l'altro creando un guazzabuglio eccessivo, e con diversi episodi in scaletta tutt'altro che memorabili.

martedì 3 luglio 2012

Cop Shoot Cop - Ask questions later (1993)

Il capolavoro della fase matura dei CSC. Un coacervo di asprezze noise-industriali, di croonerismi post-atomici, post-nickcaveiani, di avvincenti saghe metropolitane. Sono stati forse unici nel saper distillare una formula così incompromissoria e così spettacolarmente brutale.
Al top della forma, Ashley guidava un quartetto potentissimo: l'attacco frontale di Surprise Surprise è un pugno nello stomaco, con un riff arzigogolato di basso che è difficile dimenticare. L'afflato melodico di Room 429 è l'unica concessione, le folate supersoniche di Nowhere e Cause and effect, i macabri blues tribali di $10 Bill e Got no soul, il compatto 4/4 di Everybody loves you when you're dead contribuiscono alla creazione di un quadro di tensione e thrilling quasi ineguagliabile.