giovedì 28 febbraio 2013

Loop - Fade Out (1989)

Ogni qualvolta rispolvero un bel Loop d'annata, il pensiero è sempre quello: non erano dei fenomeni, non avevano tantissime idee e le pestavano ossessivamente, ma erano originali, sapevano scrivere ottimi pezzi e fecero 3 grandi albums. Poc'altro da dire.
Fade out faceva da tramite fra il primo sconvolto e l'ultimo riflessivo, vaporoso A gilded eternity. Più stoogesiano il sound, più sgranate le chitarre, col basso sempre a pulsare profondo. Il top è Vision stain, che oltre ad un tiro irresistibile mi sembra godere di una produzione più espansa, aperta.
Ecco il punto: se c'è stato un fattore limitante per i Loop, è sempre stata la produzione: troppo compressa. Ma forse fu un effetto voluto per renderli ancora più stordenti ed ottundenti.
Nelle bonus tracks trovano posto due grandi covers; i Pop Group di Thief of fire vengono sfigurati sotto la tipica coltre lavica. Con Mothersky dei Can Hampson & compagnia raggiunsero un livello di stratosfera irripetibile, ma forse lo dico più per nostalgia personale: una ventina d'anni fa la sentii su Planet Rock e restai paralizzato dall'emozione.
Buona notizia, lo choc è garantito anche ora.

mercoledì 27 febbraio 2013

Locrian - The Crystal World (2010)

Impressionistica fusione di drone-metal e dark-ambient con squarci di post-rock atmosferico per il miglior disco dei Locrian, prepotentemente sbalzati all'attenzione internazionale degli estimatori di tali movimenti.
I due membri fondatori del progetto, Foisy e Hannum, sono insegnanti di college a Chicago. Cosa ne penseranno i loro alunni? L'inizio è dei più minacciosi; Triumph of elimination è sostenuto da drones e feedbacks sub-cutanei, e nell'oscurità grida atroci e rintocchi allucinogeni fanno presagire chissà quali abomini. At night's end continua il tema fino a quando entra in scena il neo-acquisto, batterista Hess, e la chitarra si fa acida e corrosiva. E' uno dei momenti più solenni ed ispirati, che ricorda i migliori Barn Owl.
La title-track fa pensare a qualche corriere cosmico armato di fuzz, Pathogens riprende il discorso infernale con 11 minuti involuti di battiti tribali e trivellazioni concrete. 
Il meglio sta nel finale. Obsidian facades brucia come da filiera drone-metal di alta qualità, ma nel finale sfuma con un melanconico tema di chitarre sognanti, rabbrividenti. Elevation and depths fa ancora meglio, col suo doom-gaze barocco e la coda di chitarra classica, violino ed accordion. Cornice.
Il secondo cd consta di Extinction, estremizzazione kilometrica dei loro drones. 54 minuti sono un po' troppi ma se si prendono come episodio isolato non manca di sollecitare corde dell'inconscio e di affascinare per le trovate shockanti, specialmente nel finale.
A prescindere da questo, il disco è uno dei migliori del genere. Un mondo tenebroso che sa rivelarsi poco a poco, imperioso ma fragile come il materiale di cui è composto.



martedì 26 febbraio 2013

Locanda Delle Fate - Live 1977 (1993)

Prezioso documento pubblicato dalla ligure Mellow in un periodo in cui il progressive era al minimo storico della considerazione. Nonostante la congiuntura negativa, su Rockerilla l'etichetta che allora digitalizzava per prima la stagione dorata si ritagliava tutti i mesi uno spazio pubblicitario ed attirava la mia curiosità: i nomi dei gruppi così evocativi che non avevo mai sentito, le copertine così belle e zero recensioni da perlustrare.
Documento che certificava, se mai ce ne fosse stato bisogno, l'abilità dei piemontesi sul palco. Nella scaletta, da cui sono estratti 6/8 da Forse le lucciole non si amano più, si nota la presenza di un'inedito alla sua magnificente altezza, La giostra.
Esecuzioni impeccabili e, considerando l'epoca, ottima resa sonora. Si potrebbe appuntare semmai il fading out inappropriato di qualche pezzo con l'inserimento di applausi amplificati oltremisura (non dico posticci, ma il lavoro di assemblaggio si poteva fare meglio).
Volendo spendere una parola sui singoli, un grande Sasso alla voce. Ma è solo la punta dell'iceberg, di fronte alla perfezione di questa musica meravigliosa che col tempo migliora e basta.


Lightning Bolt - Wonderful Rainbow (2003)

Ciò che ha reso divertenti i LB negli anni di maggior rilevanza, diciamo fra Ride the skies e Hypermagic Mountain, è stata l'attitudine dissacrante e la voglia di sconvolgere. Ad esempio, ho trovato geniale l'idea di suonare sotto il palco, circondati dal pubblico.
Wonderful rainbow li coglieva al top della forma. Una formula così bruciante non poteva reggere più di tanto, quindi fuoco alle polveri e mitragliate a più non posso. La prima metà è da manuale dell'iper-noise a due: Assanssins, Dracula Mountain, 2 Towers, On Fire, fanno a gara per trovare lo spunto più irresistibile,  le scale più impossibili da parte dell'arnese elettrico di Gibson e le martellate implacabili di Chippendale.
Nella seconda parte c'è spazio persino per qualche pausa di quiete, ma il meglio arriva con le scosse telluriche di 30000 Monkies e la mostruosità abissale di Duel in the deep.
Shock garantito, ancora oggi.

lunedì 25 febbraio 2013

Lifter Puller - Lifter Puller (1997)

Indie vigoroso e chitarrosamente yankee fino al midollo, di quello che trasuda stelle e strisce dappertutto, con la tipica produzione secca, che arrotonda le sei corde senza alcun tipo di riverbero. Da Minneapolis, i LP percorsero una breve carriera senza ottenere granchè a livello di riconoscimento oltre oceano, mentre in patria furono un discreto fenomeno e lo si è visto qualche anno fa quando la ridigitalizzazione del catalogo e addirittura l'uscita di un libro furono pubblicizzate da Pitchfork con un evidente tono nostalgico.
Dopo 15 anni, la sensazione che mi assale all'ascolto del loro primo disco è qualcosa di già sentito ma in salse diverse, un po' come successo con i Cell: un onesto alternative pigramente accattivante e poco di più (stile tardi Sonic Youth), dalle schematiche squadrate, un cantante sgraziato e quasi beffardo, qualche buona trovata ma null'altro che resti impresso nella mia, bisunta, memoria.

domenica 24 febbraio 2013

Lichens - Omns (2007)

Om, Ohm, Omns.
La sua attitudine mistico-visionaria potrà piacere e non piacere, ma non si può dire che non sia apprezzato fra gli addetti ai lavori. Membro aggiunto degli Om ed assiduo support act internazionale degli Explosions in the sky, con questa sua ricerca interiore non ha fatto rivoluzioni al di fuori di sè stesso.
Omns, secondo capitolo dopo un debutto prevalentemente acustico, giocava fra i suoi classici loops & drones vocali d'atmosfera (Vevor of agassou, Faerie), un plugging chitarristico di psichedelia acido-distorta che sfocia in inattese pesantezze stoner (Bune), e la lunghissima M St r ng W tchcr ft L v ng n Sp r t, bucolica tessitura di una specie di raga-folk che torna al punto d'inizio col lavoro delle voci, nel bel mezzo di un bosco, con il rurale contorno di volatili.
Diciamo che l'affetto per il personaggio è superiore alla qualità intrinseca del prodotto.


venerdì 22 febbraio 2013

Library Tapes - A Summer Beneath The Trees (2008)

Rispetto a quel piccolo capolavoro di discrezione che fu un anno prima Hostluft, questo fu una specie di gentile rivoluzione. Con l'innesto in pianta stabile di un violoncellista ed un chitarrista (per la verità molto più ambientale che classicamente indotto) Wenngren apriva gli orizzonti ad un ampiezza difficilmente prevedibile.
Mini-sinfonie come The summer triumph, And the rain did fall e Above the flood portano addirittura a pensare ai Balmorhea più ispirati, tant'è la pienezza. E' un disco che già dai titoli fa pensare all'estate, ma un estate scandinava che si dipana tiepida e mai completamente sciolta; le melanconiche linee pianistiche di Wenngren, lente ed emotivamente compassate, restano di un umanità che ha del miracoloso.

giovedì 21 febbraio 2013

Libraness - Yesterday And Tomorrow's Shells (2000)

Per noi orfani dei Polvo, questo disco fu una piccola ancora di salvataggio in cui ritrovare saggi di chitarrismo  angolare e indie illuminato di estrosità. Durante il lunghissimo hiatus, Ash Bowie è stato l'unico dei membri di cui sia pervenuto qualcosa.
Yesterday...è una riproposizione umile e lo-fi del gruppo madre. Logico, essendone chitarrista e cantante principale, coglierne le assonanze seppur imbevute di folk ed esotismi orientali (la fisionomia facciale del personaggio tradirebbe origini indiane, ma potrei sbagliarmi).
Ad essere maligni, si potrebbe parlare di out-takes o scarti. A volergli bene, come succede a me, è soltanto l'album solista di uno dei più grandi gruppi degli anni '90, in chiave povera e sotto-prodotta. E nel mazzo, trovare un pezzo come No separation è uno dei momenti di maggior piacere.

mercoledì 20 febbraio 2013

Liars - 3 EPs 2002-2004

Istantanea di una metamorfosi, fra il primo ispido avant-funk e il rabbrividente secondo, capolavoro.
Fins To Make Us More Fish-Like (2002). Ancora trascinanti e fautori di un no-funk-wave che non c'entrava nulla con il revival dei Gang Of Four tanto in voga in quegli anni. Le girandole ipnotiche di Pillars.. e gli scatafasci ritmici di Everyday is a child with teeth fanno passare in secondo piano Grown men..., un po' scontata. L'irruenza verbosa di Andrew è già un classico, Hempill non ha ancora dimostrato nulla del suo potenziale sperimentale.
We No Longer Knew Who We Were (2003). Ultimo prodotto con la sezione ritmica, ormai diventata un fardello pesante con cui convivere per i due leader. Se fosse preso come di un altro gruppo sarebbe anche potuto stare simpatico, ma in prospettiva non vale nulla. Rischiavano di invischiarsi nel revival sopra citato, ma......
There's Always Room On The Broom (2004). L'inno alla libertà ritrovata è la title-track, con la chitarra trasformatasi in un gracchiare gelido e i vocalismi beffardi che sono alienazione pura. Nel minuto e mezzo di Skull and crossbroomes sembra di stare dentro una lavatrice a tempo. Broom è nientemeno che la versione embrionale di A visit from drum, con un'altra tonalità. Era solo l'inizio.

martedì 19 febbraio 2013

Li Jianhong - Sang Sheng Shi (2008)

Se la memoria non m'inganna, questo è il primo disco cinese che ascolto in assoluto, ed è un gigantesco sfoggio di massimale drone guitarism
Ma a differenza di tanti altri colleghi sparsi in tutto il mondo, Jianhong non fa nè drone-metal nè drone-gaze standardizzati. I 50 minuti di questa suite stanno in un limbo aero-spaziale che sembra volteggiare attorno all'imponente massiccio montuoso della cover senza mai sbatterci contro.
Posseduto da un demone multi-strato, il chitarrista armeggia a più non posso fra i saliscendi di questa folle corsa creando una violentissima ed interminabile allucinazione, che rende impervio l'ascolto anche all'orecchio più scafato in termini di noise.
E' un po' come se l'Hendrix dell'isola di Wight si fosse materializzato oggi, avesse preso coscienza dello stato in cui si trova il pianeta e, in preda al panico più infervorato si lanciasse in un solo terminale.
Terminale è la parola giusta per definire Sang Sheng Shi: è talmente troppo che rischia di nauseare, ma di sicuro non passa indifferente e non si dimentica come capita spesso coi dischi oggi.

lunedì 18 febbraio 2013

LHF - Keepers of the Light (2012)

Quanto Mental-hour sound che ci sento qui.....Ma più che altro è il sentore progenitore che emerge, dovuto al fatto che non ho mai troppo amato il trip-hop nè la jungle. Occorre però far presente che gli artisti racchiusi sotto il cappello LHF (sono 4 le sigle presenti) l'hanno pensata bene; fare un doppio in cui mescolare un po' tutto, dividersi responsabilità e meriti e magari con un po' di vanagloria cercare di produrre un ambizioso bignami dell'elettronica alternativa degli ultimi vent'anni.
Detto questo, Keepers of the light è un ascolto piacevole, non soltanto di sottofondo. Certo, la durata è impegnativa (oltre due ore), ma basta dargli la funzione che svolge e cioè, l'effluvio di ritmi sintetici abbinati a più o meno buone soluzioni melodiche (con menzione alle sole due, ma ottime tracce di Low Density Matter).
A condizione che quella vanagloria sia in buona parte auto-ironica.

Les Rallizes Denudes - Mars Studio 1980 (2006)

A volte non capisco e mi chiedo perchè. Sarà che mi perdo la presunta magia o che ho le orecchie un po' foderate di altro che mi passa per la testa, ma non mi capacito dell'entusiasmo nei confronti di questa raccolta dei LRD, giapponesi ultra-carbonari attivi dalla fine dei '60 (e non ho capito neanche fino a quando), di cui non esistono in pratica album in studio ma soltanto una messe improponibile di live e bootlegs. Decine e decine di titoli senza neanche un capolavoro di riferimento comune.
Lessi che avevano influenzato Keiji Haino e trovai una a dir poco adorante biografia su Onda Rock, così ho pescato Mars Studio 1980, a quanto pare la loro prima incisione in una sala professionale anche se sembra un live in tutto e per tutto, specialmente nei riverberi. Ma non è questione di bassa fedeltà.
Tralasciamo anche la lunghezza chilometrica, dato il fine puramente documentativo come da stereotipo. A me questa moltitudine di imitazioni dei Velvet Underground, anemiche e debosciate (e diabolicamente ripetute più volte nella scaletta, roba che neppure i bootleggari più maniaci) non sfagiolano proprio, con l'aggravante di un cantante che farebbe meglio a stare zitto (c'è modo e modo di stonare). Le cose migliorano con l'hard-psych infinito di Guitar Jam e Ice fire, che denotano una vigoria galattica fuori dai canoni, ma ormai è tardi.
8,5? No, grazie.

giovedì 14 febbraio 2013

Legendary Pink Dots - Greetings 9 + Premonition 11 (1988)

Idea abbastanza originale per i londinesi dall'ormai trentennale carriera: aggiornare lo stralunato psycho-pop di matrice barrettiana a certi stilemi gotici in voga ai tempi, aggiungendo un tocco di avanguardia ed un'altro di esoterismo, ma senza eccedere mai in un verso specifico.
Questo Cd, rilasciato dall'italiana Materiali Sonori, raggruppa Greetings 9 (live registrato in Francia nel 1988) e Premonition 11, suite di 17 minuti che scombussola tutte le influenze sopracitate in un pastone allucinogeno deforme. Sconcertante, ma nel senso più nobile.
Il live coglie i Dots in uno dei momenti migliori della loro carriera: l'incubo gotico di Puppet Apocalypse e la pastorale sommessa di Poppy day fanno rivivere il fantasma di Barrett,  però racchiuso nelle paranoie di Waters in The Wall.
Il pop wavizzato di A lust for powder normalizza un po' le atmosfere, ma è solo una parentesi. Il declamare meccanico di Only when I laugh viene abbrutito dalle voci manipolate, La cazza nova vive di un ritmo spezzato che ricorda i Can del dopo-Suzuki. 
Bravi ed originali, andrebbero approfonditi ma hanno una discografia gigante.

mercoledì 13 febbraio 2013

Leafcutter John - The Forest and The Sea (2006)

Ombroso cantautore britannico che, come si evince da foto, alterna stile acustico da murder ballad ad utilizzo saggio di laptop, sia per ispessire che per fornire bizzarri esperimenti sonori. Una soluzione che svariati progetti hanno provato a centrare negli ultimi 10 anni, ma che per quanto mi riguarda non ha mai generato almeno un capolavoro. John Burton ci va molto vicino.
Un altissimo lirismo ammanta le tracce migliori di questo bellissimo disco: almeno 4 pezzi (Now, Let it begin, Dream I, Seba) possiedono il tocco magico e infinitamente melanconico dei primi Black Heart Procession: l'approccio ai concretismi e alle disturbate frequenze contribuisce a mischiare le carte.
Questo tagliafoglie, che evita qualsiasi luogo comune crooneristico (proprio come i maestri Jenkins e Nathaniel), sa creare ambientazioni da melodramma commovente: l'iniziale Let it begin, con l'innesto di archi (veri o campionati che siano), mi ricorda addirittura l'afflato del giovane Roy Harper.
Una menzione va fatta anche per i pezzi sperimentali, come Dream II o In the morning, che intervallano con sinistre emissioni glitch e plumbei droni da quiete dopo la tempesta. Plauso.

martedì 12 febbraio 2013

Le Masque - Dal Diario Di Un Soffiatore Di Vetro (1998)

Che strano gruppo, i Le Masque. Troppo melodici e soft per attrarre il pubblico alternativo e troppo sofisticati e letterari per compiacere le masse. Un anomalia quasi indefinibile, ma che tuttavia continua la sua attività ad oltre 30 anni dalla fondazione.
Massimo rispetto, in ogni caso: un gruppo formula, di quelli unici, nel bene e nel male. Partiti negli anni del post-punk, le loro prime pubblicazioni erano lievemente influenzate dalla wave più vaporosa ed atmosferica ma già denotavano una notevole personalità, potrei dire, mitteleuropea decadente.
Abbandonata ben presto la lingua inglese, viravano verso un approccio decisamente letterario e la musicalità ne seguiva le orme con un aurea di malinconia distaccata, con l'ausilio di un cantante non particolarmente dotato, ma possessore del timbro giusto e della teatralità necessaria a centrare l'obiettivo.
Nel bene e nel male, questa raccolta sintetizza i primi 15 anni di esistenza discografica. C'è da dire che i bassi  sono un po' troppo stucchevoli e patinati, mentre gli alti si fanno apprezzare per l'alto lirismo ed una passionalità dal fiero imprinting made in Italy, come La bella estate, Colloquio, L'uomo felice. 
E in primis, lo splendore di una gemma come Le terre di Monluè.

lunedì 11 febbraio 2013

Lanterna - Desert Ocean (2006)

L'indie-new age di Frayne all'ultimo capitolo, non più ispirata come ai tempi del primo album. Sembra sempre che debba scivolare in una losca via salottiera, tipo soundtrack da telefilm commerciale americano o da sonorizzazione di terza categoria, ma quando il sospetto attanaglia le orecchie sopraggiunge in aiuto la sua genuinità ispirativa.
Desert ocean è stato ispirato da un viaggio europeo che ha toccato anche i nostri lidi (il pezzo finale è intitolato Messina) e si sente. Al posto delle sterminate radure yankee c'è il Mediterraneo al centro dell'immaginario, col feeling rassicurante dei migliori titoli in scaletta (4th and 8th, Venture, Surf) e la voglia di far mettere a sedere e rilassare l'ascoltatore, senza nessun artifizio.

domenica 10 febbraio 2013

Sal Mineo: Xiu Xiu + Eugene Robinson - Live in Locomotiv, 09-02


 Non avendo mai visto nessuno dei personaggi dal vivo e non sapendo minimamente che cosa ci aspettava, ieri sera ci siamo recati al Locomotiv con grande curiosità. Essendo fans di lunga data di entrambi, l'occasione era ghiotta.
Intorno alle 23.30, un pubblico ridotto a pochi intimi (una cinquantina, ad occhio e croce), sotto la cappa di un dj-set alquanto discutibile attendeva

ancora l'entrata in scena del curioso progetto che coinvolge due eminenze grigie dell'America più sporca e deviata.
Stewart si sistema dietro un grande tavolo stracolmo di apparecchiature elettroniche.


L'imponente Robinson si accomoda in una spartana sedia di  plastica rossa con fare accigliato.
Il primo inizia a trafficare con sibili, gorgoglii, spirali di rumorismo assortito e quant'altro necessario a seminare un panico disorientante e dissonante. Di tanto in tanto si alza e picchia con violenza su un paio di crash sistemati alla sua sinistra, oppure fa un baccano bestiale con percussioni e kazoo in un microfono laterale.


Il secondo inizia il suo monologo, fatto di sospiri, ruggiti, iperboli e sguardi minacciosi di odio recondito.
E' durato 40 minuti in tutto.
Ci sono stati soltanto un paio di momenti di pausa, in cui Stewart intonava una tenue melodia al synth. Ci volevano, per stemperare l'estrema tensione sprigionata.

Al termine, il momento più teatrale della performance mi ha colpito molto. Man mano che i suoni perdevano potenza ed andavano in fading, Robinson dà un tacco alla sedia facendola cadere alle sue spalle.
Raccoglie mestamente i suoi panni per terra e si accovaccia in bilico sulla sedia rovesciata, guardando in basso con fare deluso e sconsolato. E' l'antitesi di tutto ciò che aveva lasciato intendere fino ad un minuto prima.
Missione compiuta: pur essendo una performance estremamente ostica, la limitata durata ci ha lasciato con la voglia di viverne un'altro po'. Complimenti.

Labradford - Prazision (1993)

Primo, oscurissimo, misterioso. Primo di tante cose, si è scritto, anche se occorre segnalare che i Main ci erano arrivati un anno buono prima con Hydra. 
Ma soprattutto numero uno nel catalogo della Kranky. Vent'anni fa.
Forse i pezzi che tengono meglio il tempo sono i chitarristici, quelle che segnalavano il timido talento compositivo di Nelson: Accelerating On A Smoother Road, Splash down, Soft Return, C. of people. Sono tenui quadretti autunnali di grande evocatività, che creano squarci di respiro in mezzo alle fittissime nebbie galattiche del resto del disco, in cui Brown portava alle conseguenze avanguardistiche il retaggio krauto e industriale.
Extra-sensoriale esperienza.

mercoledì 6 febbraio 2013

La Otracina - Tonal Ellipse of the One (2007)

Le burrasche elettromagnetiche dei La Otracina potranno essere anche vetuste e rancide, a voler essere integralisti di un moderno che fra l'altro fa sempre più fatica ad esserlo. Ma se c'è in giro una band negli ultimi anni che riesce a fare del dirompente space-freak-jamming con ottimi risultati è il trio di Kriney, Sobel e Morgia (qui ancora presente prima dell'abbandono). Quindi doppio assalto di chitarre e niente basso, nonchè la solita batteria d'assalto, da imbarbarimento senza ritegno del free-jazz. Ed interamente strumentale.
Difficile tratteggiare un percorso di Tonal ellipse of the one, composto da 5 lunghe tracce. A parte qualche breve passaggio di evitabile hard-blues, è un labirintico trip in cui le improvvisazioni brade e gli sballi più rumorosi fanno da ingombrante contorno ad alcuni bellissimi passaggi come in Nine Times the Color Red Explodes Like Heated Blood e Ode to Amalthea, svettanti per ispirazione.
In particolare l'ultima, che mi fa pensare al concetto di ancestralità dei primi anni '70, della Germania, di tutto ciò che ispira i La Otracina. Più ci si allontanta temporalmente, più a volte acquista valore.

martedì 5 febbraio 2013

L'Acephale - Stahlhartes Gehäuse (2009)

Sfida ambiziosa quanto improbabile: mixare black-metal con prog e post-rock sembra davvero oltre il limite, ma nelle 4 lunghe tracce di Stahlhartes Gehäuse il gruppo di Portland cerca di trovare un compromesso che quantomeno incuriosisce.
Ovvio che le serratissime scorribande con voce canonicamente isterica possono piacere e non piacere (ed io non ne sono un particolare estimatore, a meno che non si parli di Gnaw Their Tongues), ma se non altro non opprimono il complesso perchè L'acephale giocano agli scarti con nonchalance. Ad esempio, la bellissima coda di feedback, chitarra classica e piano di Perdition è uno dei momenti migliori del disco. In formazione c'è anche un violino, la cui seriosità si inserisce alla perfezione in Psalm of misery. Altrove si segnalano grandeur operistiche, stralci dark-ambient, aperture di folk nordico e addirittura sentori tibetani.
Formula interessante ma perfettibile, che peraltro potrebbe irritare per una supposta autoreferenzialità che mi è parso di captare in qua e in là.

lunedì 4 febbraio 2013

KTL - KTL (2006)

Forse il più pompato side-projects di O'Malley, KTL lo vede al fianco del manipolatore Rehberg, in un altro mostruoso ed ottundente marasma di suoni dell'apocalisse.
In questo primo episodio, il contenuto è simmetrico: la prima e l'ultima traccia sono delle digressioni relativamente quiete. Estranged assume particolare interesse per le isolate punteggiature di chitarra pulita (suono Telecaster, direi), davvero insolite per O'Malley; un colpo d'artista genuino. Forse però 24 minuti sono un po' troppi.
Snow invece chiude con un isolazionismo buio-pece che dà più visibilità a Rehberg e alle sue sinistre emissioni. Qui la durata è un po' più umana, 13 minuti, ma si poteva tagliare qualcosa lo stesso.
Il nucleo centrale del disco è Forestfloor, 4 movimenti per 40 minuti circa di drone-metal che costituisce una variante di sicuro interesse per i cultori del Sunn O))), grazie alle pirotecnie elettroniche e alle sempre imponenti mazzate della 6 corde. Su queste lunghezze, però, diventa faticoso mantenere la soglia dell'attenzione.
Anche a causa di questo, per me KTL resta in seconda fascia di interesse. Fa effetto, sì, ma io gli preferisco anche Aethenor.

domenica 3 febbraio 2013

Kraftwerk - Trans-Europe Express (1977)

Nell'anno del punk i Kraftwerk se ne uscivano raggiungendo il massimo livello di ricerca e sofisticazione produttiva, attorno alle melodie mai troppo accattivanti per essere definite ruffiane. 
Il fulcro del disco è la title-track, forse il loro vertice espressivo della fase matura: percussioni sintetiche in flanger, vocoder glaciale, motivo portante di (ciò che mi sembra) mellotron e synth in sequenza. A seguirlo in scaletta il succedaneo Metal on metal, trasfigurazione cosmica in continuità che entra nel cervello e si vorrebbe durasse almeno un altro quarto d'ora. Ed invece a smorzare l'atmosfera ci pensa la pastorale Franz Schubert. 
Ciò accadeva nel lato B, mentre in quello A si inventava il synth-pop, ma con una classe che i futuri interpreti potranno solo sognarsi. Persino il tema del disco, ovvero l'Euro-trip, è quasi lungimirante, con il  ritmo irresistibile di Europe Endless e le movenze decadenti di Showroom dummies.
Rispolverarli, ogni tanto, riconcilia.

sabato 2 febbraio 2013

Mark Kozelek - The finally LP (2008)

Nonostante con i lavori a nome Sun Kil Moon sia riuscito a produrre qualcosa degno del suo leggendario status, con quelli a nome proprio Kozelek proprio non mi sfagiola. Sarà perchè ha sempre sparato una gragnuola di covers e la cosa non mi entusiasma proprio.
In The finally ci sono due composizioni originali. Gaping mouth chiude la rassegna con un po' di manierismo, ma l'iniziale Piano song regala neanche due minuti di piccola magia autunnale. La beffa continua, e per fortuna un paio d'anni dopo è venuto Admiral Fell Promises.
Fra gli omaggiati, spiccano Oldham, i Low e addirittura gli Husker Du. If you want blood era già conosciuta, quindi sfugge il senso del re-inserimento. Gli altri nomi sono a me sconosciuti ma la sostanza non cambia, è sempre l'esercizio di stile un po' vanesio che se non fosse per quella voce sarebbe tranquillamente ignorabile. E non è una giustificazione valida.

venerdì 1 febbraio 2013

Klangkrieg - Klangkrieg (1993)

Progetto elettro-acustico di avanguardia industriale partito a fine anni '80 e presumibilmente esauritosi, visto che l'ultima release risale a 10 anni fa. Questi due folli tedeschi hanno, fra le varie cose, anche fatto una curiosa installazione in cui sigillavano degli spettatori in un container senza possibilità di uscita e vi trasmettevano un quarto d'ora di loro manifattura. Esperienza che, immagino, possa esser stata anche traumatica per qualche inconsapevole di passaggio.
Il loro debutto era composto di una foschissima elettronica in tinta industrial, con frequenti concretismi e anche qualche deriva ambient (Der schoenste tag), ma sempre con forti velleità avanguardistiche. Musiche per una catastrofe imminente, musiche mostruose specialmente per quanto riguarda i loops e i campionamenti vocali. Estremamente impegnativo, l'ascolto però svela un percorso interessante fatto di saliscendi strutturali che culminano negli ultimi 13 minuti di Uhrgang, pregni di un surrealismo che chissà per quale motivo mi ha ricordato i NWW di Merzbild Schwet.