giovedì 28 marzo 2013

Maquiladora - Wirikuta (2010)

E' dura a morire la torch-song. I primi 3 pezzi di Wirikuta promettono non tanto bene, e sono esattamente tali con corredo tradizionalista di chitarrine country, voci svenevoli e slide.
Per fortuna che a partire da Song 26 le cose acquisiscono il proprio spessore. I Maquiladora sono un trio californiano attivo da quasi una ventina d'anni, e il loro Dna è intriso di quel folk americano che, rivisitato dalla loro generazione, assume parvenze sfaccettate e (talvolta) deformi.
Song 26 non ha nulla di fenomenale, ma suona come dei Supreme Dicks ordinati ed accordati fra di loro; funziona lo stesso. E il bello deve ancora venire: (Don't) Eat the Past (Don't) Eat the Fear è un'inquietante immersione di drone rumoristico su accordi sparsi di piano elettrico. Dieci minuti di riflessione da spalancare gli occhi, sarà anche soltanto per il contrasto con quanto era accaduto in precedenza ma è rimarchevole. E tutte le ballads che seguono sembrano beneficiarne nei contenuti.
Molto umilmente, i Maquiladora imbastiscono i loro quadretti con passione, devozione quasi liturgica e continue trovate atte a destare l'attenzione (Stay Shallow, Stay Toward the Light e D(obro) to F le migliori impressionistiche), a dimostrazione che sì, la torch-song non muore mai proprio perchè la si può trasformare in qualcosa di moderno senza snaturarla. E trovano un finale che consacra questo piccolo capolavoro in  Hymn 66 'Oh an Ogre, O! My Monkey', splendida allucinazione collettiva che sì, questa rievoca in tutto e per tutto i Supreme Dicks.

martedì 26 marzo 2013

Phil Manley - 2011 Life Coach

Una delle caratteristiche che mi ha sempre fatto adorare i Trans Am è la loro evidente auto-ironia, o senso del cazzeggio, in ogni caso antitesi del prendersi sul serio, fondata anche sulla base delle interviste che ho letto. Logico che anche il chitarrista Manley, in occasione del suo debutto solista, non faccia mancare la sua dose personale: basta vedere la copertina di Life Coach, in cui è impegnato su una Telecaster con cappellino da pescatore, sotto un bel cielo sereno variabile che è impresso anche sulla sua t-shirt.
In fondo, anche il disco non è che sia tanto da prendere sul serio: dopo quasi 20 anni di Trans Am ed una avviata carriera di ingegnere del suono/produttore, non credo che Manley possa più raggiungere vette artistiche considerevoli. Di conseguenza, Life Coach è riservato essenzialmente agli amanti di TA nonchè tributo abbastanza esplicito ai tedeschi degli anni '70, sia sul versante dei mostri (FT2 Theme è un'omaggio spudorato a Isi dei Neu!, Life coach suona come dei Kraftwerk '77-78 con Michael Rother) che su quello dei corrieri cosmici (Forest opening theme, Night Visions), con l'integrazione di qualche acusticheria (molto belle Lawrence KS e Gay bathers) e dronerie varie tanto per stare al passo coi tempi (Work it out).
Che poi, a pensarci bene; se fosse il disco di un debuttante sconosciuto, non sarebbe poi da prendere poco sul serio.....

lunedì 25 marzo 2013

Mandible Chatter - Hair Hair Lock & Lore (1994)

Duo californiano dei 90's dal percorso breve e schizofrenico, dei veri campioni d'indecisione sul filone da seguire; saltando di palo in frasca, fra folk, psych-rock ed acid-noise, non hanno realizzato nulla di memorabile ma questo episodio segna un pregevole prodotto di industrial-ambient in linea con le migliori produzioni del tempo, fantasiosa e dai tratti fortemente rituali.
Persino all'interno di un solo disco, i MC non riuscivano a stare in un canale omogeneo, ma in questo caso l'indecisione gioca a favore. Si passa fra tribalismi in sequencer, estasi flautistiche, flussi gelidi di dark-ambient non standardizzata, stantuffi allucinogeni (All is not god that glitters, notevole), persino una tenue ballad folk, fino a giungere ai catacombali 20 minuti di The death of sweetness, titolo programmatico per il cruento spegnimento di tutte le luci sporadiche apparse in precedenza.
Esoterismo abbastanza originale.

domenica 24 marzo 2013

Mainliner - Mellow Out (1996)

Nell'intenzione di portare agli estremi eccessi il proto-stoner degli antichi Blue Cheer filtrandolo con le follie  iconoclastiche di Keiji Haino, l'ultra-power-trio nipponico Mainliner ha finito per anticipare l'harsh-noise-rock del decennio '00. Un suono saturo oltre ogni umana concezione.
Il retaggio seventies è facilmente intuibile nelle movenze ritmiche e nell'essenza dei riff, già nei primi 5 minuti di Black Sky. Ma quando tutto esplode in un delirio di chitarra impazzita e batteria imprendibile si capisce che il controllo è già stato perso del tutto, e cosa ancor più caratteristica, ogni parvenza di equalizzazione viene beatamente cacciata fuori dallo studio, a farsi benedire.
M. rilancia lo stesso copione, ma con un basso sgusciante in evidenza e uno schema appena appena più controllato. In miniatura rispetto ai due, Cockamamie è una breve sfuriata che accende la miccia all'inizio.
L'isteria tipica degli estremisti giapponesi è la componente più interessante dei Mainliner: ciò che in soldoni sarebbe stata una mezz'ora abbondante di hard-rock (con tanto di canto incerto) neanche tanto formidabile viene trasfigurata e violentata da tre protagonisti di tecnica oltremodo viscerale (spicca il batterista, proveniente dal jazz-rock).
Fragori isterici.

sabato 23 marzo 2013

Main - Motion Pool (1994)

Concepito essenzialmente come testamento delle chitarre e del loro ronzio imperterrito, Motion Pool è di fatto il prodotto più accessibile che Main abbia prodotto.
Un colpo di coda, proprio come l'ha definito Hampson in un'intervista. Pur essendo privo di ritmo, il disco si muove attraverso patterns minimali in cui le frasi profonde di basso costituiscono la spina dorsale per i vortici infiniti delle 6-corde. E, aspetto non trascurabile, contiene ancora vocals che sono quasi in sottofondo, spettrali e fredde.
Così tracce come Rail, Core, Spectra decay e Rotary eclipse stabiliscono un parallelo fra i Loop e l'isolazionismo ambizioso che sempre più contagerà Hampson negli anni a venire. E' chiaro che fra l'acid-rock dei primi e le elucubrazioni ambient-industrial del secondo c'è di mezzo un mare, ma gli scampoli compositivi denotano lo stesso dna. Come in un metaforico passaggio di testimone, le ultime 3 tracce del disco sono già immerse nell'immediata prosecuzione, fatte di riverberazioni chimiche e spirali droniche che scavano in uno spazio scuro, scurissimo.

venerdì 22 marzo 2013

Magnog - More Weather (1997)

Non sapevo che i mitici Magnog si fossero riuniti un paio d'anni fa, con una serie di date live e addirittura il progetto di fare nuove registrazioni come annunciato nel loro scarno blog. Di uscite non se ne sono viste ma se un domani dovessero realizzarsi, sono convinto che la benemerita Kranky accoglierà nuovamente sotto la propria ala protettiva questi ex-ragazzetti che guadagnarono un ingaggio la stessa giornata in cui il loro demo le fu recapitato.
More weather, secondo ed ultimo atto, era un condensato (per modo di dire, che si passa le 2 ore e 1/4) di questo lunghissimo tape composto di scura, volatile e magica psichedelia. L'interplay fra i 3 è ancor più miracoloso se si considera l'altissima percentuale di impro, e l'iniziale title-track è subito un pugno nello stomaco con le sue folate galattiche estremamente infiammabili. Subito dopo, Tear catching current invece esala delicato misticismo da tutti i pori.
Il chitarrista Drake faceva rombare il suo ampli grazie a tutti gli effetti necessari a salire fino alla stratosfera, ma ciò che impressionava di più nei Magnog era la sezione ritmica, col basso legnoso ed arzigogolato di Reilly e la batteria sferragliante di Shinn: non sembravano proprio dei giovanissimi, e la partecipazione al Vienna Jazz Festival (!) ne fu la consacrazione artistica.
Tutto il doppio vive dei chiaroscuri come nei primi due pezzi sopracitati: fasi sognanti si danno il cambio con brucianti impennate, e neanche un momento di stanca, nonostante la registrazione non sia sempre perfetta. More weather è un colosso da vivere ed assimilare con calma e dedizione.
30 anni di storia e leggenda psichedelica concentrati in due ore e un quarto. Non fu poco. Non importa se non torneranno, per me diedero già così.

Magma - Üdü Wüdü (1976)

Più variegato e meno pantagruelico dei due celebratissimi predecessori, Üdü Wüdü si ritaglia un posto importantissimo nella discografia dei Magma in quanto ha il grande merito di svoltare, evitando l'incombente rischio di manierismo che poteva prendere la mano di Vander.
Top era rientrato di prepotenza nelle fila dopo aver abbandonato un paio d'anni prima. La lunghissima e scintillante De Futura fu farina del suo sacco, e si sente: quanto di più vicino possa rappresentare l'apocalisse jazz-prog, in cui il tecnicismo suo e di Vander contribuisce perfettamente alla creazione di atmosfere sinistre e grandiose.
Altrove, le composizioni sono elaborate ed ispiratissime, Weidorje e Zombies una spanna sopra le altre. Purgata degli eccessi operistici che secondo me logoravano i pur bellissimi precedenti, la musica dei Magma qui raggiungeva il suo ultimo apice, al punto che consiglierei Üdü Wüdü come primo ascolto per un neofita.

mercoledì 20 marzo 2013

Magic Lantern - At the Mountains of Madness (2007)

Cassettina uscita su Not Not Fun che sancì il debutto per Stallones & co, un annetto prima di High Beams e tutta la ramificazione Sun Araw/Super Minerals e conseguente effluvio (o meglio dire, alluvione).
Neanche mezz'ora, divisa in due tronconi: At the mountain of madness è un martellante, ipnotico giro psycho-vintage ripetuto all'infinito. Ovvio che ad attirare l'attenzione siano le variazioni strumentali; una delle chitarre che sembra un sitar, un flautino, le scale di basso, la progressione di volume fino a quando tutto diventa assordante
Sul lato B, Untitled (Live) è un gigantesco ohm per stoners che anticipa ed amplifica di fatto le tendenze separatiste: i droni melmosi dei Super Minerals vs. le derive mistiche in rovina del primissimo Sun Araw.
Freakedelia moderna, ma solo per stretti estimatori.

martedì 19 marzo 2013

Magazine - Play (1980 Live)

Spettacolare live di una delle più spettacolari bands di tutta la prima fase della new-wave: vanitosi, spacconi, ambiziosi, purtroppo destinati ad un tiepido successo a causa della loro collocazione più unica che rara.
Insieme al loro primo formidabile Real life, Play è il top-record della loro breve carriera, che condensa alla perfezione le loro caratteristiche: raffinatezze atmosferico-decadentistiche, scatti di grinta (post)punk, fughe ed orchestrazioni prog, occhieggiamenti funk, di cui il canto beffardo di Devoto era soltanto la punta dell'iceberg.
E pazienza se nella scaletta manca Shot by both sides, brano alla cui fonte si abbevereranno anche i Radiohead di 15 anni dopo; al suo posto l'anthem velocissimo di Because you're frightened non lo fa rimpiangere. Per il resto, c'è da non voler mai smettere di ascoltarlo (a questa stasera io sono a quota 5 per oggi, e non escludo di replicare domani): A Song From Under The Floorboards sarà enormemente influente su certo indie anni '90, una monumentale The Light Pours Out Of Me, le rutilanti Permafrost Parade, la trascinante Twenty years ago, testimoniano la grandezza non soltanto dei musicisti presi singolarmente. Il fu McGeogh, il Jimmy Page della new-wave, Formula non soltanto per il suo arsenale di tastiere ma per le frasi talentuose di piano e un grande Adamson, in possesso di un suono di basso sinuoso fra i migliori che abbia mai sentito.

lunedì 18 marzo 2013

Madrigali Magri - Lische (1998)

Seppur in larga parte debitore del suono louisvilliano dell'epoca in cui si formarono, Lische è da considerarsi episodio fondante della musica italiana perchè simboleggia il debutto di quel grande personaggio che è Succi, che ancora oggi riesce a stupire (si ascolti il recentissimo Quintale) e fornire prove di indiscutibile spessore.
L'opening track Isolami è un chiaro residuato slintiano che parte piano ed arriva forte, con l'aggiunta del suo chitarrismo nevrastenico. Scorrono, come in un film in bianco e nero, le aridità desolanti e nebbiose (Strada secondaria, Punti cardinali), i thrilling tesissimi (Ominide, Megacasma), e i gioielli rappresentati da Sogni d'oro (spettrale ambientazione in cui il sussurro inudibile di Succi si trasforma in un lontano, lacerante grido), e Fosca, due minuti e mezzo tambureggianti in cui voci diverse si rincorrono nel sottofondo, allucinate.
La personalità fortissima del trio era già un punto fermo: ma al tempo me li persi, complici le dubbie e confuse recensioni della stampa.

Transmission Ravenna - Æthenor + SW&SE Live in Almagià 15-03-2013

Seconda serata all'Almagià con quello che per me era il piatto forte dell'intera manifestazione, ovvero gli Æthenor del direttore O'Sullivan e non solo.
A supporto, una strana coppia su cui ero completamente all'oscuro, sia come conoscenza che come info. Trattasi di Stian Westerhus, fantascentifico chitarrista in grado di tirare fuori dal suo legno una gamma più o meno sterminata di suoni, e Sidsel Endresen, cantante sperimentale posseduta da un incontrollabile demonio autistico-teatrale, e che non dimostra proprio i 60 anni che ha.
Entrambi norvegesi (Oslo è una base operativa abituale per il giro di O'Malley), entrambi provenienti da un retroterra avant-jazz, il loro set affascina più per le pennellate impressionistiche di Westerhus, che quando mette un po' da parte la sua attitudine radicale è in grado di tessere tele immagignifiche di grande impatto. Quanto alla Endresen, non mi permetto di dare giudizi dal momento che non conosco il suo percorso nè i suoi precedenti, ma la sua performance mi lascia abbastanza indifferente.
Il legame con la Norvegia e con l'avant-jazz influenza in maniera determinante l'ultimo corso degli Æthenor, che proprio lassù hanno registrato il loro ultimo disco e per l'occasione rivoluzionato stile e line-up. Non posso non esserne contento; il loro live ha un impatto impressionante.
Unico neo della serata, senza dubbio, la totale mancanza di luci sul palco. Su quello si potrebbe discutere, ma lascio perdere e procedo.
L'entrata a gamba tesa di Steve Noble, batterista di enorme caratura, porta l'ensemble a far stridere ancor più astrattismo e fisicità in una formula che già prima era ricca di misteri. Anche O'Malley registra una maggior presenza nel mixer (a volte il suo sound assomiglia parecchio ad un basso fuzzato geneticamente), e O'Sullivan svaria sopra tutti, libero di sprigionare la sua valenza alle tastiere. Resta nell'ombra invece Rygg, che non riesco nemmeno a visionare in quanto coperto; era comunque alle prese con apparecchiature da tavolo.
Parlare di ascendenze jazz può lasciare il tempo che trova: lo stile di Noble è indubbiamente da esso mutuato, i passaggi più rhodesiani di O'Sullivan possono portare alla memoria storica e il livello di improvvisazione generale sembra alto. Ma Æthenor è uno dei rari casi in cui il tasso effettivo è superiore alla somma delle singole parti, e le loro jams sono scultoree nel vero senso della parola.
Manca un pizzico di trascendenza in più, forse?
E' bastato, nel quarto d'ora finale, far salire sul palco un losco figuro, messo lì in un angolo immobile a vocalizzare estatico in falsetto: Bob Lowe, uno che quando ne vale la pena non si fa mai negare.

Al prossimo anno, Transmission....


venerdì 15 marzo 2013

Transmission Ravenna - Lichens & Charlemagne Palestine Live in Teatro Rasi 14-03-2013

Prima serata del grande, spettacolare festival ravennate dedicato alle musiche di ricerca che fra le altre cose ha visto, tanto per citare una curiosità, addirittura l’acquisto di un paio di abbonamenti da parte di giapponesi volati in Romagna appositamente per l'occasione.
Anche quest'anno il cast è di assoluto prestigio e livello mondiale. Si intende un chiaro segnale di continuità nella scelta del ruolo di direttore artistico, quest'anno impersonato dal londinese Daniel O'Sullivan, compare del suo predecessore e uomo-ovunque Stephen O'Malley in Aethenor nonchè uno dei personaggi più in vista fra le musiche di confine fra rock ed avanguardia.
Arriviamo in teatro che è già iniziata la lettura-documentale sull'esoterismo nel rock '60/'70 da parte di un giornalista britannico, corredata da fotografie e spezzoni musicali degli artisti citati. L'argomento sulla carta è molto interessante, ma è riservato a chi possiede un'eccellente comprensione dell'inglese stretto. Ciò che ci interessa veramente è la serata musicale che vede confrontarsi due generazioni di sperimentatori di confine.
Si aprono le porte del teatro Rasi e nel giro di pochi minuti fa il suo ingresso Bob Lowe, un'ormai vecchia conoscenza che però è sempre bello rivedere. E devo dire che questa, fra le 3 che ho visto, è stata la mia performance preferita; se il tema dell'edizione dichiarato espressamente da O'Sullivan è la trascendenza, allora Lowe ci ha preso in piena. Il set è stato diviso in due parti; la prima a base di drones e vocalizzi estatici in loop, nel suo classico stile, ma destinata a raggiungere uno stato di intensità elevatissimo. Allo sfumare di questa entra un battito di cassa molto forte: la seconda parte tramuta le stesse intenzioni in un ritmatissimo trance-zen che spiazza parecchio, e che non so a cosa possa preludere. Da applausi.
Si riaccendono le luci e Palestine, che aveva osservato il set dalla prima fila, inizia compassato a preparare il suo spettacolo che, mi sento di dire, sarà memorabile. Il 67enne newyorkese non necessita di grandi presentazioni, e le sue usanze live sono ben note, ma vederle di persona ha un gusto tutto unico.
Sul palco c'è un pianoforte a coda. Da due valigie rosse estrae la sua nutrita popolazione di pupazzetti animali, che sistema con cura certosina (per non dire maniacale, visto il tempo impiegato) attorno al tavolo delle apparecchiature elettroniche, in modo che siano tutti ben visibili. Arretra di una decina di metri per controllare da lontano che tutto sia a posto. Dopo circa mezz'ora, si cambia persino d'abito ed è tutto pronto. Lo scarno pubblico (sigh) presente in sala chiacchiera con educazione e a bassa voce, e quand'è il momento di attirare l'attenzione Palestine lo fa girandoci attorno, facendo suonare il suo bicchiere di cognac col moto circolare dell'indice sul bordo.
Quando tutti gli occhi sono su di lui e c'è silenzio assoluto, esordisce col suo falsetto fonetico (si ascolti il kilometrico Karenina) per qualche minuto, poi risale sul palco e fa cantare due pupazzetti in coro (con un piccolo delay), tenendoli ai lati del viso davanti al microfono. E' il momento più naif della performance, e il sorriso si stampa sul viso di tutti.
Arriva il momento di fare sul serio quando si siede al piano; è l'ora della Strumming music, di cui darà una dimostrazione della durata di mezz'oretta: la prova titanica di un uomo che suona il piano come se stesse scalando una montagna. I riverberi che si espandono per la sala si potrebbero tagliare con un coltello.
Terminata la scalata, c'è il momento del panico: dal Mac parte un sottofondo solenne, Palestine prende uno stranissimo microfono che distorce la voce e si lancia in una breve ed epico inno, che ci disorienta. Il finale è dedicato ancora al canto dei pupazzetti, nonchè alle tastierine giocattolo che, sempre appaiate, fanno terminare lo spettacolo con una nota di ilarità contagiosa.
Un entusiasta O'Malley chiede il bis a gran voce. Palestine riprende le tastierine ed è servito.
Arte allo stato puro. Viva il Bronson e il suo staff.

giovedì 14 marzo 2013

Egisto Macchi - Futurissimo (1971)

Non troppe parole per uno dei più ricordati e stimati compositori che siano usciti da quel fenomenale laboratorio che era l'Italia dell'avanguardia dopoguerra.
Futurissimo è un cervellotico e cupissimo esperimento per orchestra ed effetti elettronici, di un ossessività micidiale e di una tensione opprimente che più non si può. Insomma, non proprio ciò che ci si aspetterebbe da questo compìto signore dall'aria stupita al momento di essere immortalato. 
I titoli sono in francese e sembrano tematici al riguardo dello spazio extra-terrestre. Le partiture di archi sono drammatiche (con un motivo ricorrente che fra l'altro è bellissimo di sè, nella sua epicità), le bordate elettroniche sono perfettamente a tema sci-fi ma sempre in continua evoluzione, mentre un ruolo importante lo ricopre una chitarra elettrica che,  seppur a tratti, disegna distorsioni psichedeliche e punteggiature minacciose. 
Qui non si anticipa nè l'industriale, non si naviga nell'astrattismo di molta library nè ci si affianca agli altri. Il Maestro toscano semplicemente proiettava in un altro mondo, indefinito e misterioso.

martedì 12 marzo 2013

M.B. (Maurizio Bianchi) - I.B.M. (1980)

Pubblicazione fra le meno ricordate nel mucchio selvaggio dei primi anni di terrorismo del Bianchi. Fu infatti una C60 equalmente divisa in due lati dell'esatta durata di mezz'ora, il che mi ispira grande simpatia perchè possiede la stessa concettualità delle cassette casalinghe che facevo anch'io 20 anni fa (e vien da pensare come sarebbe stato trovarsi ora con le potenzialità dei mezzi computeristici che allora non c'erano), ovvero l'output finisce quando lo stop scatta automaticamente.....
Bando alle ciance, IBM è stato disotterrato l'anno scorso grazie ad una ristampa in cd-r da parte della label Finalmuzik, ed è un flusso di bordate elettro-rumoristiche che, a mio parere, è invecchiato molto bene. Come nella miglior tradizione industrial, lo spirito non è brado e gratuitamente violento, bensì esprime qualcosa di più sottile e profondo che lascia massima soggettività di interpretazione. Nel lato A, ad esempio, passata la burrasca magnetica dei primi 20 minuti, si entra in una fase di minor intensità, fatta di lineari disturbi dronici per poi passare al delirio di scansione del tempo, con una gelida voce femminile che ripete meccanicamente l'ora per tre minuti.
Più movimentato il lato B, un'orchestra di oscillatori e spirali bulbose di noise agile che sfuma lentamente fino a, per l'appunto, quando il nastro marrone lascia lo spazio a quei pochi centimetri di nastro bianco. Stop.

lunedì 11 marzo 2013

Lycia - Ionia (1991)

Non erano ancora maturi i tempi per i capolavori di metà anni '90 per Van Portfleet, che su Ionia si portava ancora appresso i fantasmi del gotico più onirico della decade precedente.
Ma la stoffa dell'autore di razza si sentiva già alla grande. La sua chitarra acuminata si fonde con un uso massiccio delle tastiere, che donano profondità sinfonica e quel senso di tridimensionalità che resterà un punto focale nella musica di Lycia.
Perle come Desert, Renewal, The realization, Distant eastern glare stanno ancora lì a farsi rimirare nella loro bellezza magnetica e lugubre. E pazienza se qualche strumentale tende ad affievolire un po' il pathos emotivo del disco. 

domenica 10 marzo 2013

Lüüp - Meadow Rituals (2011)

Ensemble greco che si occupa di una ambiziosissima commistione fra musica da camera e progressive-folk. Seppur leggermente disomogeneo, il disco è molto bello: le arie risentono un minimo dell'influenza locale ma non si può definirlo di musica ellenica. Appare semmai più pronunciato un certo fattore nordico, che descrive nature incontaminate, boscaglie infinite e panorami sterminati. Secondarie ma tangibili le reminescenze di musica balcanica o medio-orientali; da qui si manifesta una lieve indecisione dei Luup nel saper prendere una decisione univoca che sembrerebbero avere in potenziale, ma occorre tenere conto del fattore guest (quasi tutti i pezzi hanno un contributo esterno, e anche piuttosto determinante), ed al netto di questo difettuccio Meadow rituals sa incantare a più riprese.
Come nei 13 minuti di Spiraling, delicatissima ipnosi per flauto, drones chitarristici e suadente voce femminile. O nell'iniziale Horse heart, fulgido incrocio fra i Crescent di By the roads e i finnici Tenhi, capeggiati da una sirena svedese nella persona di Lisa Isaksson.
Splendide anche le tracce più squisitamente cameristiche, come la drammatica Taurokathapsia, il prog conciso di Roots growth (con l'illustre presenza del sax di David Jackson), e la neo-classica Ritual of Apollo & Dyonisus.
Li aspetto al varco per il prossimo lavoro, più concentrati; possono fare meraviglie.


sabato 9 marzo 2013

Lustmord - Heresy (1990)

Non sarà stato il miglior disco di dark-ambient della storia, ma Heresy è senza alcun dubbio un manifesto della collocazione, peraltro sempre schernita dal suo stesso autore.
Va detto, con trasparenza, che checchè ne dica il buon Williams, non è che ci si possa sollevare così facendo spallucce delle proprie emissioni, nel caso di Heresy sotterranee nel vero senso della parola (si riferisce di registrazioni effettuate in cunicoli, rifugi, cripte e quant'altro, nonchè addirittura di fonti organiche di materiale vulcanico!). Tant'è che il riconoscimento generale del suo lavoro l'ha portato a lavorare a getto continuo per l'industria cinematografica e a collaborare con illustrissimi personaggi della scena alternativa (Melvins) e più o meno mainstream (Tool). Ben pochi altri reduci della stagione industriale di 30 anni fa si sono tolti tali soddisfazioni.
Al netto delle premesse, Heresy è una sonorizzazione ispettiva  divisa in 6 tranches del brancolare nel buio, non troppo spaventevole e fluttuante nelle sue viscere. Il picco è costituito dalla n. 5, col suo solenne barrito di 3-note-3 che rintrona ed introduce la laguna melmosa di fauna informe della n. 6. Tutto ciò era stato preceduto da 4 fasi aride, secchissime, ma di sicuro il cuore pulsante dell'opera.
Con buona pace di Williams, che sostiene che questi luoghi sono il riflesso della propria anima. Questa è purissima dark-ambient di scuola originale.

venerdì 8 marzo 2013

Lungfish - Pass and stow (1994)

Veterani del post-hardcore, tornati di recente con un disco dopo lungo silenzio (forse dovuto alle numerosissime uscite del cantante Higgs, ormai reinventatosi banjoista freak mistico), i Lungfish hanno costruito una carriera alla Dischord in penombra rispetto ai nomi più noti sulla base di una formula testarda che più testarda non si può: strutture circolari e rocciose in mid-tempo e salmodiare monotono di Higgs.
Un archetipo che sfugge qualsiasi ammiccamento e/o momenti di pathos emotivo, che è un ossessione controllata, un brancolare monodimensionale senza ritegno.
Diventa difficile così parlare dei loro dischi, perchè pare che l'adeguata comprensione dei testi sia imprescindibile per apprezzarli. Per quanto riguarda Pass and stow, ci sono una buona quantità di riffs e colpi ben assestati, ma al temine si tende a ricordare i momenti che si distaccano dal mood generale (come la ferale psichedelia di One way all the time o il concertino di scacciapensieri di In praise of amoral phenomena) e restare leggermente tediati dal mood complessivo, un po' troppo statico per coinvolgere.

giovedì 7 marzo 2013

Lucky Pierre - The Island Came True (2013)

Ormai non ci speravo più che tornasse, invece riecco Aidan Moffat con barba imbiancata e veste di LP, a ben 6 anni di distanza da Dip.
Folgorato sulla via di Leyland "The Caretaker" Kirby, torna a confezionare i suoi collages a base di cut and paste, ma con uno stile profondamente diverso da prima. Se nelle prove precedenti dimostrava quasi un senso ludico ed ironico anche nelle tracce più riflessive, qui Moffat appare molto più serioso del solito.
Basti uno dei capolavori del disco ad esemplificare, Harmonic Avenger: piano, archi, accordion e gorgheggi femminili a creare un clima di indicibile bellezza malinconica. Le assonanze con Kirby appaiono evidenti in Sad Laugh, The grief that does not speak, Exits: fonti antiche di vinili consumati e polverosi, loops di frasi solenni a base di archi (o mellotron) e piano accademico ultra-riverberato.
E' comunque un disco molto frammentato, con diversi e brevi intermezzi a spiazzare, senza dare un indicazione ben precisa o un filo conduttore. Alla fine, i 7 minuti e mezzo di ambient sinfonica di The kingdom contribuiscono maggiormente a rendere indefinibile il quadro. Il che non è necessariamente un difetto o un pregio; non sono obiettivo, ma chi ha orecchie per intendere.....

martedì 5 marzo 2013

Lower Dens - Nootropics (2012)

La chiara dimostrazione che i Beach House iniziano a fare scuola, a soli 6 anni dal primo album, è l'esistenza di questo gruppo di Baltimora la cui leader Hunter possiede un timbro particolare e seducente proprio come la divina Victoria Legrand.
Al di là delle assonanze vocali (peraltro calcate anche nelle cadenze), musicalmente la ripresa è parziale perchè a fronte di 2-3 pezzi la cui scarna struttura e le atmosfere riportano alle meraviglie oniriche del duo di Baltimora, i LD cercano di mischiare le carte con risultati altalenanti. Fra elettronica vintage, qualche spruzzata new-wave e persino memorie Stereolab, Nootropics si svolge in un limbo di indecisione che un po' incide sulla generica leggerezza che il gruppo vorrebbe comunicare, peraltro in presenza di 3-4 composizioni davvero gradevoli. 
Una maggior compattezza gioverebbe, ma in conclusione non sembrano essere dei fenomeni.

lunedì 4 marzo 2013

Low - Drums and Guns (2007)

Diciamo che ho perso di vista i Low da molto tempo, grosso modo da Thing we lost in fire. Dopo esser stati bravi protagonisti del rumore dell'anima a metà '90 li ho un po' accantonati, insoddisfatto della (a mio avviso) loro ripetitività ed incapacità di rinnovarsi.
Quando, poco tempo fa, ho cercato di recuperare, mi è stato caldamente indicato Drums and guns come miglior episodio da ere a questa parte.
Ora, sinceramente, la svolta elettronica è stata l'ancora di cambiamento per tanti artisti inizialmente devoti alla classica strumentazione rock. Non lo è stata in senso stretto per i Low, dato che il successivo C'mon ha rappresentato un netto dietro-front ai loro letargici (ed un po' consunti) standard, ma intanto questo è stata una interessante variazione sui temi, grazie ad aspri glitches e percussioni campionate posizionati sul substrato melodico a volte onirico, a volte melanconico e, diciamolo un po', ruffiano.
Fa molto piacere trovare almeno un paio di gemme che in un ipotetico best of non dovrebbero mancare, come Take your time ed In silence. 
Rimando il mio giudizio integrale a Maggio, dopo che li andrò a vedere live.

domenica 3 marzo 2013

Love - Da capo (1967)

Grande anticamera di un capolavoro totale come Forever changes, questo è sicuro. Quanta musica di quasi mezzo secolo fa porta la stessa freschezza di allora?
Dopo un incoraggiante debutto, la strada dei Love sembrava promettere alla grande. L'ambizione a Lee non mancava, ma le sue qualità compositive fuori dal normale erano destinate a farlo precipitare nell'anonimato. Intanto però a Los Angeles nel 1967 succedevano grandi cose, per dirne una sola il debutto dei Doors.
Mi sembra così strano parlare di quella che ormai è una preistoria, ma il mio pensiero nasce essenzialmente dal dualismo proprio con i Doors: che cos'avevano in meno rispetto a loro, i Love?
Il lato A di Da Capo è da testi di storia del rock: alla formazione classica a 5 si aggiungono un fiatista ed un tastierista. il suono si arricchisce di sfumature ma non perde mai il proprio focus, grazie anche al miracolo delle canzoni. Per l'impeto psicotico-progressivo di Stephanie knows who c'è la meravigliosa delicatezza di Orange skies (firmata dal vice Macclean, un talento in pieno gregariato), alla frizzante e serena aria di Que vida segue la super-super-storica 7 and 7 is, anthem supersonico che si dice esser proto-punk. 
Non c'è tempo di fermarsi su un tema, restarne folgorati e si gira drasticamente pagina. Il tema acustico elaborato di The Castle è un altro campione dell'intimismo barocco di Lee, a cui segue la commovente She comes in colors, e well well well well, stratosfera.
Per il lato B, beh, non conosco bene la biografia del gruppo ma con la mia fantasia potrei dire che forse l'Elektra stesse mettendo fretta e non c'era abbastanza materiale, così Revelation (jam blues-garage monotematica di 19 minuti senza arte nè parte) purtroppo finisce per essere un riempitivo che non c'entra proprio niente con la classe e la grazia precedentemente sfoggiate.
Ma non si dice peccato, in questo caso. Nulla può scalfire.

sabato 2 marzo 2013

Lotus Eaters - Wurmwulv (2007)

Sì, è vero che c'è un limite a tutto e forse O'Malley e Plotkin l'hanno superato, ma quanto coraggio e voglia di sperimentare che c'è nei loro progetti.
Lotus Eaters, che probabilmente si è fermato con questo ultimo parto, è l'espressione dark-ambient dei due,  assieme ad un altro abitueè, Turner degli Isis. Tre tracce senza titolo che ereditano testimonianze di un lontano industrial esoterico. Soltanto 30 minuti per la prima, che nella prima metà propone un mesto festival di  percussioni di fortuna e drones acuti: affiora il ricordo di Organum di fine anni '80.
Passato lo sferragliare, restano i sinistrissimi ronzii di allucinazione collettiva. Durissimo.
La seconda, soltanto 5 minuti, è appena percettibile fino a quando, al terzo minuto, scoppia un arcobaleno di  suoni e colori, come se un coro di cornamuse stessero intonando la stessa nota all'infinito (e pare giustificare la presenza dell'accordion che O'Malley tiene in mano nella foto).
Il quarto d'ora della terza, infine, sembra stabilire un parallelo con l'Oren Ambarchi più ermetico, ma in una veste violentemente repressa. Il finale di organo minimale e voce manipolata lascia con un quieto interrogativo: dove mi trovo?