Seconda serata all'Almagià con quello che per me era il piatto forte dell'intera manifestazione, ovvero gli Æthenor del direttore O'Sullivan e non solo.
A supporto, una strana coppia su cui ero completamente all'oscuro, sia come conoscenza che come info. Trattasi di Stian Westerhus, fantascentifico chitarrista in grado di tirare fuori dal suo legno una gamma più o meno sterminata di suoni, e Sidsel Endresen, cantante sperimentale posseduta da un incontrollabile demonio autistico-teatrale, e che non dimostra proprio i 60 anni che ha.
Entrambi norvegesi (Oslo è una base operativa abituale per il giro di O'Malley), entrambi provenienti da un retroterra avant-jazz, il loro set affascina più per le pennellate impressionistiche di Westerhus, che quando mette un po' da parte la sua attitudine radicale è in grado di tessere tele immagignifiche di grande impatto. Quanto alla Endresen, non mi permetto di dare giudizi dal momento che non conosco il suo percorso nè i suoi precedenti, ma la sua performance mi lascia abbastanza indifferente.
Il legame con la Norvegia e con l'avant-jazz influenza in maniera determinante l'ultimo corso degli Æthenor, che proprio lassù hanno registrato il loro ultimo disco e per l'occasione rivoluzionato stile e line-up. Non posso non esserne contento; il loro live ha un impatto impressionante.
Unico neo della serata, senza dubbio, la totale mancanza di luci sul
palco. Su quello si potrebbe discutere, ma lascio perdere e procedo.
L'entrata a gamba tesa di Steve Noble, batterista di enorme caratura, porta l'ensemble a far stridere ancor più astrattismo e fisicità in una formula che già prima era ricca di misteri. Anche O'Malley registra una maggior presenza nel mixer (a volte il suo sound assomiglia parecchio ad un basso fuzzato geneticamente), e O'Sullivan svaria sopra tutti, libero di sprigionare la sua valenza alle tastiere. Resta nell'ombra invece Rygg, che non riesco nemmeno a visionare in quanto coperto; era comunque alle prese con apparecchiature da tavolo.
Parlare di ascendenze jazz può lasciare il tempo che trova: lo stile di Noble è indubbiamente da esso mutuato, i passaggi più rhodesiani di O'Sullivan possono portare alla memoria storica e il livello di improvvisazione generale sembra alto. Ma Æthenor è uno dei rari casi in cui il tasso effettivo è superiore alla somma delle singole parti, e le loro jams sono scultoree nel vero senso della parola.
Manca un pizzico di trascendenza in più, forse?
E' bastato, nel quarto d'ora finale, far salire sul palco un losco figuro, messo lì in un angolo immobile a vocalizzare estatico in falsetto: Bob Lowe, uno che quando ne vale la pena non si fa mai negare.
Al prossimo anno, Transmission....
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