sabato 30 novembre 2019

Tangerine Dream ‎– Ricochet (1975)

A suggello di una stagione magnifica per il trio, questo assemblaggio di vari live intercorsi durante il 1975 diventò una pietra miliare della loro carriera, incastonato fra gli altri capolavori in studio Phaedra e Stratosfear.
Ormai lanciati in un'opera pionieristica fantasiosa, i tre erano anche assistiti da una fortuna commerciale frutto della felice congiuntura temporale, culturale di massa. Nei 40 minuti di Ricochet sublimavano tutte le intuizioni ricavate in precedenza in studio, trasportate, secondo i ricordi dei protagonisti, con l'incoscienza totale di cosa sarebbe successo sul palco; ci si metteva d'accordo soltanto sulla tonalità, e con quella si viaggiava.
La facciata B del vinile, e soprattutto gli ultimi 10 minuti, è una delle loro vette più immagignifiche, che non a caso faceva bella mostra di sè in una delle Mental Hours.

giovedì 28 novembre 2019

Mark Lanegan & Duke Garwood ‎– With Animals (2018)

E' da tempo immemore che ho smesso di seguire Lanegan, grossomodo una quindicina d'anni, perchè ad un certo punto ho ritenuto che avesse esaurito la sua vena creativa ed il suo ventaglio di possibilità espressive. Oggi lo ritrovo per curiosità, dopo aver letto una recensione di With Animals, e non è cambiato pressochè nulla ma lo stato di forma appare più che buono ed il disco contiene degli ottimi pezzi.
Il sodale della situazione è il chitarrista inglese Duke Garwood, un erratico free-lance al secondo episodio in società col seattleiano. E' un album dolente, di quella filigrana fatalistica di cui è permeata l'aurea generica di Lanegan, quella nella quale la sua voce possente trova la miglior casa.
Garwood lo accompagna ed assiste con una chitarra mai banale seppur adesa ai canoni, con qualche coloritura di tastiere ed una scarna beat-box. Diversi pezzi sono superbi e mi hanno ricordato i primi dischi di Will Oldham in logo Palace Brothers, con le dovute differenze stilistiche. In sostanza, nulla di nuovo sotto al sole, ma soltanto una dimostrazione di stoffa pregiata.

martedì 26 novembre 2019

Screams From The List #89 - Frank Zappa ‎– Lumpy Gravy (1969)

Dopo i fasti innovativi dei primi 3 dischi, Zappa diede la stura alle sue velleità di compositore / direttore assoldando un'orchestra jazz-rock ed assegnandole una partitura sottoforma di collage dell'assurdo, alternando musica suonata canonicamente ad inserti di musica concreta ed un sacco di dialoghi.
L'influenza su NWW riguarda senz'altro quest'ultimo aspetto, che nella Side A è abbastanza marginale, mentre sulla B diventa preponderante. Confrontato con i prodotti di Zappa dell'epoca, ovviamente Lumpy Gravy finisce per fare la figura dell'esperimento parzialmente riuscito, anche se lo stesso non nascose mai la sua soddisfazione per il risultato finale, arrivando persino a dire che conteneva la sua musica preferita.
In ogni caso, ognuno potrà trovare, nei vari scampoli delle pieghe del disco, la propria parte prediletta. La mia è quella di Oh no, ad esempio, col tema guidato dal vibrafono su ritmo dispari, una vera e propria perla che trascende sia il jazz che il rock. E' chiaro che Zappa ha fatto di molto meglio, ma in certe fasi si possono ascoltare diversi anteprima di quanto riuscirà a compiere con Hot Rats.

domenica 24 novembre 2019

Luciano Cilio ‎– I Nastri Ritrovati (2018)

Eccezionale ritrovamento da parte di Feis e De Simone, due musicisti che furono vicini a Cilio in vita. La cosa potrebbe anche esser stata romanzata, romanticamente, ma non ha importanza: ci voleva, un recupero per un artista eccezionale così poco documentato.
Trattasi di materiale risalente al 75/76, quindi antecedente ai Dialoghi del presente. La qualità sonora è medio-bassa ma non inficia più di tanto sulla resa delle composizioni, in gran parte per chitarra acustica solitaria, con Cilio impegnato in un dolente fingerpicking spesso accostabile a John Fahey. Non è dato di sapere se l'artista intendesse approfondire discograficamente questa vena agreste, in ogni caso sembrano più bozze che quadri definiti, per quanto di assoluta qualità.
Le vere gemme però stanno nelle varianti: la prima traccia, un'escursione notturna fatta di clangori percussivi, increspature di fiati e risonanze elettroniche, una processione atonale di 12 minuti e mezzo. La seconda, in linea, ma di durata dimezzata, si regge su quella che sembra essere una linea di basso proto-post-rock. La chiusura, intitolata Liebeslied, è con ogni probabilità una registrazione ex-novo, vista la qualità, di Fels, che in vita era l'esecutore pianistico di fiducia di Cilio.
Selezionato da una quantità imponente di musica, I Nastri Ritrovati è importante per continuare a diffondere una voce incompresa, ignorata, che forse è avanti ancora oggi.

venerdì 22 novembre 2019

Necks ‎– Body (2018)

Un benvenuto cambio di stile, al compimento del 20esimo album in studio del super-trio australiano. Body è un lavoro che deve aver richiesto un po' di tempo, contiene una massiccia dose di overdubbing e quindi non è assolutamente riproducibile dal vivo.
Non è che fossimo stanchi della collaudatissima formula impro che aveva raggiunto vette di misticismo inedite in Vertigo e Unfold, ma la sorpresa in Body rappresenta un gesto che difficilmente ci si aspettava.
Già dall'intro si sente che la propulsione è di quelle più agitate, in un contesto che ricorda un po' il leggendario Aquatic, esattamente un quarto di secolo fa. Al 25esimo minuto però accade un esplosione che non ha precedenti; un semi-motorik incessante (manca il terzo colpo di cassa, ma l'effetto Neu! è lampante) con Buck impegnato in un lavoro di chitarra elettrica isterico, a modo suo minimalistico anch'esso, concentrato sulle note più alte del manico, mentre Abrahams e Swanton fanno un supporto ipnotico ed altrettanto chiassoso. Un paradosso, per i Necks, ma possibile in quel mondo parallelo che hanno stabilito e fissato nelle nostre orecchie.
Al termine di questa lunga fase festaiola, il rientro alla contemplazione è quanto di più fascinoso e notturno abbiano mai fatto, con lo sdoppiamento di Abrahams fra note basse e medio-alte, Buck che genera suoni percussivi dei suoi, strumma un'acustica ogni tanto e Swanton che svisa e dronizza con l'archetto.
Avremo anche finito le parole per descriverli, invece loro non hanno ancora finito di fare magie.

mercoledì 20 novembre 2019

Basil Kirchin ‎– Quantum (2003 recorded 1973)

Registrato nel 1973 ma rimasto inedito per 30 anni, Quantum fu il primo di una lunga serie di recuperi / ristampe della Trunk Records dedicati al prode Basil Kirchin, uno dei compositori britannici più coraggiosi, avventurieri e geniali scoperti grazie alla Nww List. 
Del resto, un'anno prima del secondo Worlds within worlds, l'artista doveva essere in uno stato di grazia conclamato. Il formato era quello abituale: due lati del vinile, due flussi ininterrotti di oltre 20 minuti. Il contenuto, un groviglio inestricabile a base di versi di volatili, fiati free-jazz, frasi estatiche di minimalismo, labirinti di vibrafono, leoni ruggenti sul lato A Once upon a time.
Sul lato B, Special Relativity inizia con un agghiacciante mix di voci probabilmente manipolate, poi subentra un flautino che intona una giga rasserenante. E' un collage un po' più musicale, in cui i fiati solenni e l'organo forniscono un architettura saltuaria ad un altra fantasioso assortimento di suoni disparati e di voci autistiche.
Un ascolto magnetico, sconsigliato dopo una dura giornata di stress lavorativo. Meglio a mente fresca.

lunedì 18 novembre 2019

Abu Lahab ‎– When The Face Of The Lord Is Split Asunder (2010)

Uno dei primi autoprodotti del misteriosissimo progetto marocchino che prende il nome dallo zio di Maometto, vissuto nel 6° secolo avanti Cristo. Ma di islamico in senso classico non c'è davvero nulla in questa centrifuga orrorifica.
Seriamente una delle musiche più temibili e tremebonde che abbia mai sentito, in grado di rivaleggiare con lo Gnaw Their Tongues più cruento, con l'aggravante di alternare schegge di black metal a scudisciate industriali in un tortuosissimo percorso psichiatrico senza apparente logica.
Il disco inizia alla grande con le rasoiate metalliche di What of those on the left hand?, una sequenza micidiale di power-chords in galleggiamento aritmico. Con And When I sicken, it lacerate me, continua il dominio chitarristico sempre più schizofrenico fino a raggiungere vette di allucinazione pura con Accursed are the compassionate, dove fa la sua comparsa una voce arsa e furiosa che non è neanche black metal, è semplicemente una tortura.
La seconda metà purtroppo non ripete l'intensità insostenibile della prima. Fra canti di muezzin, organi acidi e gironi danteschi, la varietà è assicurata ma la follia incontrollabile di AL fa deragliare leggermente la coesione verso un circo dell'orrore forse più visionario, ma un po' dispersivo. Sono comunqe piccoli dettagli per un capitolo di assoluto rilievo.

sabato 16 novembre 2019

Red Krayola ‎– God Bless The Red Krayola And All Who Sail With It (1968)

All'ombra gigantesca di The Parable Of Arable Land, ancora oggi il secondo album dei RK divide e lascia interrogativi. Niente più rumorismi, niente più free-form-freak-out. Venti brevi vignette sempre improntate sull'assurdo ma lucidamente ordinate e strutturate. Un nuovo, ottimo batterista (Tommy Smith) al posto del fondatore Barthelme, contribuiva a dare una spinta ritmica a quello che in fondo è stato il loro disco Dadaista.
L'irresistibile slancio melodico che aveva caratterizzato Hurricane Fighter Plane viene qui distillato in un processo di songwriting che, in quanto a giganti coevi, a tratti trova dei paralleli con Syd Barrett e Skip Spence, ma ha l'ambizione di trovare sfocio nell'avanguardia pura, con alcune tracce che danno l'impressione di essere state composte a casaccio.
Un album asciutto, senza scompensi significativi, che denotava la stessa ispirazione ma rifiutava l'effetto clamore di un anno prima. Ma non per questo meno geniale.

giovedì 14 novembre 2019

Bruce Anderson - The Inherent Beauty of Hopelessness (2009)

Sempre più condannato a vagare in un underground che ormai non esiste più da un pezzo, sempre più al di fuori dei circoli specializzati. Questo capitolo solista del grandissimo BA, ad esempio, non è nemmeno su Discogs così come diversi album degli O-Type e i Grale, l'ultimo progetto con Dale Sophiea.
Non si è mai sentito un Anderson così dimesso, così ripiegato su sè stesso come in The Inherent Beauty of Hopelessness, che tiene perfettamente fede al proprio titolo. Lontano anni luce dagli attentati dinamitardi di Brutality, il più grande chitarrista mai sentito dalla gente qui si abbandona ad un soliloquio di 40 minuti per 2 o più chitarre acustiche archtop (ovvero quelle solitamente usate nel jazz). Una suite astratta, atonale, dal passo meditabondo e costante, uno sgocciolio impeterrito di note in filigrana purissima. Al primo ascolto lascia interdetti, al secondo lancia quesiti, al terzo ci si abbandona.
Senza alcuna speranza, per l'appunto.

martedì 12 novembre 2019

Table - Table (1995)

The Noise is on the Table.
Oscurissimo trio di Chicago autore solo di questo omonimo sull'altrettanto sconosciuta Humble Records ed un paio di pezzetti di vinile precedenti, di cui uno su Homestead.
Certo nel 1995 il noise-rock quadrato era leggermente inflazionato, oppure nel suo periodo di massimo splendore, dipende dai punti di vista. I Table ne fornivano una versione sul modello primi Tar / secondi Hammerhead / Johnboy, con una chitarra affilatissima ed una batteria bella dinamica. Registrazione a metà di Steve Albini, ma curiosamente più sui toni alti della stragrande maggioranza delle sue. L'altra metà, più sul post-hardcore a cura di tal Brad Wood. Scovato sul blog I Hate The 90's.

domenica 10 novembre 2019

Nick Mason's Saucerful Of Secrets - Live 2018-09-11 Düsseldorf Germany

Fa una tenerezza indicibile, questa avventura del 75enne leggendario Nick Mason che, dopo aver atteso invano un'improbabile pace fra Gilmour e Waters, ha deciso di prendere il toro per le corna e togliersi lo sfizio di andare in giro a suonare i Pink Floyd pre-1973, assecondando il suo spirito giocoso e facendo la gioia dei PF-fans più legati alle origini, andando persino a scomodare il fantasma di Syd Barrett.
Questo bootleg tedesco è di ottima qualità sonora, considerando la sua audience-source, e vede la scaletta tipo di quel tour. Il quintetto era ancora in fase di rodaggio (imbarazzante l'errore generale a metà di See Emily Play, ma è solo l'indecisione più macroscopica), ma la qualità media è eccellente: sorprendente ed ottimo Gary Kemp degli Spandau Ballet, voce e chitarra. Il Gilmour della situazione è tal Lee Harris, sconosciuto ma molto bravo nel metterci del suo e non suonare come una fotocopia. Il tastierista Bekem fa altrettanto ed al basso c'è Pratt, già un Pink Floyd negli anni '90, uno dalla tecnica alta alta ma che si sforza di non metterla troppo in campo.
Ed il buon Mason? Sono sincero e con tutto il bene che gli si può volere.....beh, è il punto debole di questa simpatica baracca. Già nel 1994 aveva bisogno di una spalla completa. Al Live 8 del 2005, in un set di 20 minuti (!) era bolsissimo. Figuriamoci adesso, a 75 anni; all'inizio attacca Interstellar Overdrive e sembra carichissimo, ma già al secondo pezzo, Astronomy Domine, inizia a perdere colpi. Il resto del concerto lo suona sgonfio, centellinando in maniera paradossale. 
Ci pensano quindi i validi compari di palco a tirare su la situazione, impeccabili ma soprattutto generosi e dotati del cuore necessario a trattare un repertorio così storico e cristallizzato nei firmamenti.

venerdì 8 novembre 2019

Melvins ‎– Ozma (1989)

E' il trentennale di Ozma, ed una piccola celebrazione ci vuole per quello che forse fu il loro top della fase indipendente, insieme a Lysol e Bullhead. Ci sono ben poche divagazioni e/o compromessi in questo colosso, fra l'altro ristampato l'anno scorso esattamente dalla label originale, la Boner. Su 16 tracce soltanto Vile e Revulsion/We reach superano i 3 minuti, e sono gli episodi più doom, nell'accezione melvinsiana del termine; il focus maggiore è sui ritmi serrati e spezzati, sulle rasoiate di Buzzo, sulle sue vocals psicotiche e sulle sue costruzioni anfetaminiche. Al basso di turno c'era Lorax, superfluo ribadire la grandezza di Dale Crover. Asciutta anche se un po' compressa la produzione di Deutrom, di lì a qualche anno futuro bassista nella fase major.
Menzione speciale per At A Crawl, Green Honey, Raise a Paw, ed ovviamente Oven, pochissimo tempo dopo già coverizzata dagli Helmet.
Classicone.

mercoledì 6 novembre 2019

David Wenngren ‎– Sleepless Nights (2009)

Un audio-concept sull'insonnia da parte di Mr. Library Tapes in release a nome vero, sulla sua etichetta personale. Una situazione che non si ripeterà, dato che su Auetic di lì in poi usciranno soltanto i lavori di LT, mentre quelli da documento d'identità verteranno solo su collaborazioni a quattro mani, in altri lidi.
Nessuna rivoluzione significativa in Sleepless Nights; un suono più polveroso, sempre a base di piano e nastri, per 9 acquarelli tenui e nebulosi, sicuramente più austeri e minimali della media di LT. Gli archi campionati contribuiscono ad irrobustire un architettura fragile e tesa, quasi un punto d'incontro fra Basinski e Skelton.
Wenngren dimostra ancora una volta di esser diventato un nome dell'olimpo dell'ambient-chamber, anche in uscite più dimesse come questa. La prima notte che avrò problemi d'insonnia proverò ad irradiare questo pallido disco per la stanza; sono sicuro che mi accompagnerà al riposo con gentilezza e candore.

lunedì 4 novembre 2019

Steve Hillage ‎– Fish Rising (1975)

Verso il termine della sua esperienza coi Gong, SH si mise in proprio e debuttò con questo disco che comprendeva buona parte dei protagonisti di quella avventura.
Normalmente non viene ricordato come uno dei più grandi chitarristi britannici, nonostante un'indubbia tecnica che era retaggio evolutivo della gloriosa stagione rock-blues. La sua essenza artistica visse sempre in un area non precisamente definita, un po' come i Gong stessi: psychedelica certo, un po' canterburyana, e di conseguenza un filo progressiva, come le due articolatissime suite che sono la spina dorsale di Fish Rising; Aftaglid e Solar musick suite sono costruzioni pirotecniche, dominate dalla sua Strato ma con un'impianto strumentale ben completo, con delle ritmiche marcate che trovano lo sfocio perfetto negli 8' di The Salmon Song. Una versione sanguigna e disincantata dei Gong, un'alternativa meno folle, piacevole sia per i fan di Canterbury e perchè no, anche a quelli degli Hawkwind.

sabato 2 novembre 2019

Fushitsusha ‎– The Wisdom Prepared (1998)

Un tipico assalto all'arma bianca del trio Haino-Ozawa-Takahashi, registrato in studio anche se potrebbe esser stato un qualsiasi live del periodo, in formato impro.
Ed è un massacro psych-noise strumentale, un bagno nell'acido solforico, che soltanto chi ama l'arte incompromissoria di KH può apprezzare. Settantacinque minuti ininterrotti, con pochissime variazioni ritmiche, la più sensibile intorno al 52' quando la faccenda si fa quasi doom.
Il basso è un rimbombo pantagruelico, la batteria resta confinata ed un po' sommersa nel mixing, sullo sfondo. KH è KH al suo massimo livello psych-impro-noise.
Quando mi capitano suoi episodi in questo formato, di solito penso sempre: non ce la farò mai ad arrivare in fondo. Ed invece, una volta partito l'ascolto, è impossibile fermarsi dal cavalcare uno tsunami catartico che può rigenerare dopo una dura giornata ed epurare le tossine dello stress. E dopo il taglio drastico finale, il silenzio si rende necessario, almeno per qualche minuto. Oasi.