venerdì 29 luglio 2022

Robert Wyatt – Rock Bottom (1974)


Come si fa a parlare del disco #2 nella classifica di tutti i tempi di PS? Esiste un criterio oggettivo per giudicarlo o è pura utopia dadaista poterne disquisire senza entrare nel già letto? E' possibile non abbassarsi col facile luogo comune che la sua composizione venne drasticamente influenzata dalla caduta dell'anno prima, con cui RW restò disabile a vita? E se non fosse caduto, non sarebbe stato forse meglio un Wyatt in declino artistico invece di quello che è stato?

Sgombro subito il campo, io preferisco The end of an ear. Quello fu la vera rivoluzione interiore, il reale vertice dadaista, come il Vol. 2 dei Soft Machine, come Moon In June. Rock Bottom è un altro tipo di capolavoro: è la sublimazione del dolore, della perdita, l'elogio della malinconia e della drammaturgia applicata ad una patafisica che però ha perso il suo humour. E' un lamento accorato, un affresco commovente che passa in rassegna i vari stati emotivi con fenomenale ispirazione (ed essenziale aiuto da parte dei convenuti, in gran parte mastri di Canterbury). 

Mi è capitato con pochissimi dischi nella vita; mi impersono così tanto nel protagonista che ne percepisco il dolore, lo faccio mio e ne soffro. Per questo non mi sono mai veramente innamorato di Rock Bottom. Se lo sarebbe meritato, ma quelle ferite sono così palpabili e salate che non riesco a sostenerle. Addio.

giovedì 28 luglio 2022

Pink Floyd - The Man and The Journey (Live Amsterdam 1969)

Nella miriade di memorabilia che ha portato finalmente alla luce la mega-cofana The Early Years nel 2016 spicca la riproposizione integrale di un concerto ad Amsterdam nel settembre del 1969, di cui conoscevo una quantità parziale su un vecchio bootleg, ma aggraziato di una qualità audio a dir poco fenomenale probabilmente frutto di un lavoro di restauro supportato dalle migliori tecniche (e dai migliori tecnici) al mondo. Ne valeva la pena, così come merita di essere ascoltato ogni minuto di qualsiasi cosa abbiano suonato nell'anno di grazia 1969.
Fra l'Aprile ed il Settembre portarono on the road il concettone The Man & The Journey, immagino un idea di Waters, che consisteva in due lunghe suite all'interno delle quali si concatenavano diversi brani del periodo alternati a sperimentazioni di vario tipo e dilatazioni un po' pretenziose mentre sul palco andavano in scena anche performances visuali, direi da teatro surreale (i passi, il taglio del legno, il tè servito, etc.). L'idea era di ricavarne un disco dal vivo, ma non se ne fece nulla per via del sopravvento di Ummagumma che poi uscì in autunno. Fu una buona idea, perchè la prova del disco ufficiale avrebbe deluso le aspettative, per uno show così legato all'aspetto visivo.
A meno che non si prendano le parti migliori di questo fantasmagorico concerto e si gusti il gruppo in una delle sue fasi più ispirate di tutta la storia. Come negli inediti Biding My Time, un beffardo e metallico blues con Wright al trombone, e l'evocativo strumentale Behold the temple of light, che avrebbe meritato un maggior sviluppo. Come nelle miglior versioni di sempre di Cymbaline (9 minuti), di The Narrow Way pt. 3 (pazienza se Gilmour stecchi la voce, ne guadagna in visceralità!), della barrettiana Pow.r Toc.h, di Careful with that axe, Eugene. I più esperti noteranno qualche sbavatura (soprattutto di Waters), e troveranno conferma del perchè quei 4 pezzi sono finiti su Ummagumma, ma godranno per l'ennesima volta di quella congiuntura astral-lisergica che si allineava in Europa nell'anno di grazia 1969, grazie al lavoro titanico dei Nostri. Grazie ad un Gilmour di un altro pianeta, manco a dirlo, con un suono da pelle d'oca ed una serie di assoli incredibili.

martedì 26 luglio 2022

Appleseed Cast ‎– Low Level Owl: Volume I (2001)


Piccolo spazio nostalgia per il terzo degli Appleseed Cast. Ne comprai il cd un sabato pomeriggio di primo autunno dal Pig, colpito dal sound che sapeva essere sia fisico che atmosferico, dalle alternanze umorali e dalla sostanziale evocatività. Non ne avevo mai sentito parlare, ma dal Pig accadevano queste cose: metteva un cd nello stereo, sapeva che cosa poteva colpirmi e mi tentava, quasi sadico. Passati vent'anni non lo ritengo un disco imprescindibile, e generalmente i kansasiani sono rimasti un'incompiuta; svezzatisi con l'emo-core e pervenuti ad una formula affascinante di post-indie-rock, pur essendo in possesso di un enorme potenziale non sono mai riusciti ad elaborare un capolavoro definitivo. Ci andarono più vicini nel 2003 con Two Conversations, con cui raggiunsero una maggiore maturità.

Low Level Owl rappresenta al meglio i loro limiti ed i loro pregi: un progetto ambizioso, articolato in due volumi (il secondo uscirà l'anno successivo), una specie di concept in soluzione di continuità infarcito di panorami strumentali a mo' di collegamento fra i pezzi più canonici. Pretenzioso e non sempre riuscito il risultato complessivo, ma questi ultimi erano davvero eccellenti: On reflection, Signal, soprattutto la doppietta Steps and numbers + Sentence, rivelavano uno splendido songwriting e soluzioni strumentali in interscambio perfetto. Me li tengo stretti come ricordo personale, e pazienza per i limiti.

sabato 23 luglio 2022

Screams From The List #109 - Companyia Elèctrica Dharma – Diumenge (1975)


In effetti mancava un nome spagnolo nella List, oppure non ne ho memoria. Ad essere precisi, catalano in questo caso, trattandosi dei barcellonesi CED, un combo a conduzione strettamente familiare (3 fratelli su 5 nella line-up originale) tutt'ora attivo ai giorni nostri (l'ultimo disco è del 2019). Il loro esordio Diumenge annoverava un jazz-rock strumentale pirotecnico, ad alto tasso tecnico, con qualche puntina prog e folk sparse, più che altro per abbellimento e/o introduzioni. Riferimento principale sicuramente Mahavishnu Orchestra, con le dovute proporzioni: ritmica vertiginosa con batterista in evidenza, piano elettrico liquido, sax soprano guastatore, chitarra affilata ed arzigogolata. L'iniziale diffidenza per un disco che comunque non innovava già un bel niente all'epoca si fa tranquillamente da parte man mano che l'ascolto procede, vista l'estrema gradevolezza delle architettura e della registrazione. Con perizia, i Perigeo della Catalogna.

mercoledì 20 luglio 2022

Laika – Sounds Of The Satellites (1997)


L'anno scorso, quando i Radiohead pubblicarono l'edizione di anniversario di Kid A + Amnesiac, vidi da qualche parte rinnovarsi l'eterna questione su quanto quei due dischi siano sempre stati sopravvalutati dalla critica in quanto sbandierati come novità assoluta mondiale, come avanguardia, etc etc. Dalla parte dei detrattori invece (sempre una minoranza, ma ben agguerrita), l'arma fumante è sempre stata: senza stare a scomodare l'ingombranza dei Can, perchè non tiriamo in causa gente come gli Sneaker Pimps o i Laika, che prima del millenium bug erano già fuori con formule di elettronica corrotte con dub bianco, post-wave ed indie-rock. Questi ultimi, nati da una costola dei Moonshake, applicavano la lezione ad un trip-hop ultra-accelerato con residuati di dream-pop, confezionato su misura per la voce esile ma evocativa della Fiedler. Il factotum musicale, Fixsen, di professione ingegnere del suono, si sarebbe rivelato un (involontario o meno) influencer sui pezzi più ritmati di Kid A, ma anche per certe ondate di moog ed effetti elettronici elevati a strumenti aggiuntivi.

Su Sounds of the satellites, secondo capitolo della saga Laika, non tutto funziona a meraviglia. La lunghezza è eccessiva, alcuni pezzi sembrano un po' amorfi e poco sviluppati, il flauto a volte è un po' troppo invadente. Sembra quasi più una ricerca sul suono che una carrellata di pezzi convinti e rifiniti. Su questo aspetto, facendo leva sul talento compositivo, i Radiohead faranno infinitamente meglio, bisogna dirla tutta. Forse anche per questo i Laika sono caduti in quel dimenticatoio fagocitante che ormai sono diventati gli anni '90. Ma a loro va senz'altro riconosciuta una funzione di pionierismo non da poco.

domenica 17 luglio 2022

Microphones – Microphones In 2020 (2020)


Il pretesto di Phil Elverum per riesumare Microphones dopo 17 anni di Mount Eerie è stato quello di.....terminarlo. In preda ad un torrenziale flusso di coscienza autobiografico (che passati i 40 dopotutto ci può stare) ha scritto e registrato questo pezzo di 45 minuti con cui passa in rassegna tutta la sua vita concentrandosi sulla carriera musicale, dopodichè ha puntualizzato che si tratta della microfonata finale, suggellando la chiusura di recente con un box set che digitalizzato totalizza qualcosa come 74 giga fra discografia, memorabilia, feticismi e varietà. Una celebrazione che forse suona un po' stridente per il personaggio come lo conosciamo, decisamente umile e terreno; avrà avuto i suoi motivi pratici.

Musicalmente Microphones in 2020 costituisce un ponticello col passato omologo: base di strumming acustico ostinato, nevrosi controllate, improvvise abrasioni di fuzz, passaggi a strumentazione piena con basso e batteria; è di fatto un auto-tributo, costruito attorno ad un ossatura ripetitiva (2+2 accordi) con una sola fase variante intorno ai 3/4' della durata. Da leggere assolutamente le liriche, che compongono una visione filosofica molto introspettiva a corredo della sua vita da musicista, con particolare indugio sul periodo attorno ai 20 anni. Da ascoltare senza interruzioni, anche se non lo ritengo un capolavoro come hanno sbandierato varie testate.

giovedì 14 luglio 2022

Kevin Coyne – Matching Head And Feet (1975)

 

Il quarto album del piccolo grande KC, al vertice della sua forma artistica, un paio d'anni dopo essersi rivelato con l'ottimo Marjory Razorblade, ora forte di una band dalla grande coesione che schierava uno scatenato Andy Summers nell'immediato pre-Police, oltre che un ottimo batterista di nome Peter Woolf. Componenti che comunque avrebbero contato ben poco se non ci fosse stato in primo piano il talento di un cantautore purtroppo rimasto appannaggio per pochi, shouter invasato e dotatissimo, cantautore erede del blues-rock declinato in varianti sia divertite che introspettive, in grado di svariare dal gigioneggiare da bettola/osteria a ballad malinconiche/autunnali come se nulla fosse. Matching ne mise in fila una decina, con un paio che richiamavano addirittura lo stile più ordinato del Captain Beefheart coevo (ma senza esagerare), e le gemme intramontabili di Turpentine, Tulip. Sunday Morning Sunrise, Lonely Lovers.

lunedì 11 luglio 2022

Neptune – The Ballet Of Process (2002)


Il secondo degli artisan-noisers bostoniani. Mi stupisce constatare che PS si sia perso un gruppo così originale e ricercato, ma in generale si trovano pochi riscontri in rete, ed appare paradossale che in un'epoca così fertile per l'underground americano come il decennio zero le loro quotazioni non siano andate molto oltre un paio di recensioni su Pitchfork. Al di là di questo, The ballet of process rivelava il trio come un'interessantissima fusione fra art-rock europeo e fragore yankee, con un approccio compositivo spezzettato e beffardo, al fine di tirare in ballo i nomi che già mi sono venuti in mente con i successivi, forieri di conferme e di un trash-sound che avrà necessitato di un'accuratezza a dir poco maniacale.

venerdì 8 luglio 2022

Yoko Ono/John Lennon – Unfinished Music No. 1. Two Virgins (1968)


Invece di celebrarli sulla serie NWW List con l'accreditato Vol. 2 Life With The Lions, (e men che meno col pessimo Plastic Ono Band), due righe sul primo capitolo sperimentale della coppia, un vero pugno nello stomaco che dovette fare non poca risonanza al tempo, nonchè storcere qualche milione di naso ai bitolziani. Mezz'ora di delirante freak-out-free-form per suoni sparuti, dementi e svaniti di Lennon + fonetica dissonante, isterica e algida della Ono. La "suite" ci mette un po' a carburare, ma il secondo quarto d'ora, quando il Bitolz iniza ad ingranare qualche passaggio illuminato, è un brillante bignami di naivetè dadaista, che in qualche modo giustifica l'operazione e ne restituisce il senso.

martedì 5 luglio 2022

Ono - Albino (2012)


Il ritorno del duo chicagoano di Travis Dobbs e Michael Grego, con formazione allargata, a distanza di ben 26 anni dal precedente. Strana storia per un act che era fuori posto negli anni '80 e benevolmente continua ad esserlo in tempi moderni, ma dopotutto la sperimentazione più genuina ed espressione di libertà non avrà mai casa migliore di chi la abita. I 7 salmi strascicati di Albino sono imperniati su ritmiche di derivazione black, si dipanano su tessiture di liquidi piani elettrici, clangori di chitarre elettriche, rumorismi sparsi mai gratuiti e soprattutto l'incessante salmodiare di Dobbs, una specie di predicatore annebbiato da chissà cosa ma molto  vigoroso nella sua espressione. Ne esce una stranissima formula di psych-gospel scuro e ipnotico, qualcosa che probabilmente potrebbe aver influenzato gli Algiers in divenire. Un flusso magnetico che cattura, senza rivelarsi troppo ostico.

sabato 2 luglio 2022

Crass – The Feeding Of The Five Thousand (1979)

 

Se Station of the Crass fu il loro insuperabile manifesto in quanto mirabolante punto d'incontro fra rozzezza e servizio informativo/accusatorio, The Feeding of the 5000, che lo precedette temporalmente, fu la divertente esplosione dell'anarco-punk più sardonico ed elementare, l'istantanea di un gruppo che stava imparando a mettere in fila tre accordi e sciorinava una trafila irresistibile di anthems al fulmicotone (Do they owe us a living?, General Bacardi, Punk is dead, Banned from the Roxy, So What?) registrati in un bunker totalmente privo di qualsiasi riverbero, con un paio di varianti a base di grattugie, onde radio e bestemmioni, tanto per farsi riconoscere subito e farsi costringere alla censura ancor prima di esordire (manco da un'autorità qualsiasi, bensì dagli operai della fabbrica che stampavano i vinili). Sempre unici, dall'inizio alla fine.