mercoledì 29 giugno 2011

Super Minerals - The pelagics (2008)

Si apre con una risacca lisergica ed accordi riverberati Photic, il brano introduttivo. Poi una chitarra emette dei rintocchi stagnanti, mentre l'altra esplora il fondale marino in cerca di conchiglie antichissime. E' il concept marino dei Super Minerals, il loro capolavoro insieme a quello di terra Multitudes.Mesopelagic si immerge in un drone da fossa delle Marianne, con tanto di lamenti manipolati. La dark-ambient psicotropa di Giacchi & French è di nuovo rivelatrice di scorci sconosciuti, di luoghi inesplorati, vergini. Con Bathyal si riemerge verso il pelo dell'acqua, da dove fuori si intravede un sole accecante, e si ode il rumorosissimo passaggio di una nave. E' un crescendo saturo in cui synth e organi riempiono le casse, devastanti.
Cambio dell'ossigeno ed è meglio tornare sotto, giù di brutto con Abyssal, dove tutto è ovattatissimo e sordo. Ed infine si arriva alla notte, nelle buie grotte sotto alle scogliere, col cerimoniale occulto di Hadal. Dei vocioni inquietanti e salmodianti officiano il loro tributo a Nettuno e i suoi fondali, con finale di scampanellìo pagano a sigillare il rito.
Piuttosto lo-fi come da abitudine, The pelagics è un viaggio recondito che catalizza l'attenzione costantemente, senza incutere timori o paure, ma semplicemente accompagnando.
Un super-documentario.

martedì 28 giugno 2011

Sunn O))) - Monoliths And Dimensions (2009)

Proprio nel momento in cui una loro uscita rischiava seriamente di svalutare il settore drone-metal, già discusso e ventilato da molti, i santoni americani che hanno contribuito alla loro creazione se ne sono usciti con un disco che rediscute le possibilità evolutive della branca.
E dire che non bastava molto, per un sound che è sempre stato basato sulle sue proprietà specificatamente catastrofiche, ma anche molto minimali. Infatti, Monoliths non è una svolta brusca nè un ribaltone di nessun tipo; per O'Malley & Anderson è stato sufficiente apporre qualche variante strumentale e soprattutto concettuale al solito menu di metal-panzer giganti alla massima moviola, almeno per 3 quarti. Un po' di piano, field recordings, percussioni e bassi starnazzi dei fiati in Aghartha.
Il recitato rantolante di Csihar è un compagno ricorrente in queste rovinosissime sinfonie. Un soave coro femminile di stampo operistico impreziosisce e spiazza il vortice di Big Church. Ancora fiati solenni, un synth (o le manipolazioni di Ambarchi?) e il pulviscolo cosmico a far dissolvere il mastodonte Hunting Garden. Ma la vera sublimazione è Alice, la suite elegantissima che svela il vero segreto dei monoliti dimensionali. Ciò che dovranno fare i due incappucciati, in futuro, è evolversi verso meraviglie di questo tipo, moderando gli abusi dei chitarroni e dei bassoni.
Alice è un arcobaleno cinematico di fiati, arpa e tastiere in cui le grattuge imperiali sono relegate in secondo piano, strabordante di disincanto e contemplativa, che scioglie come neve al sole le minacce pesanti dei Sunn O))) e fa valere da sola il prezzo del biglietto.

lunedì 27 giugno 2011

Sun Kil Moon - Admiral Fell Promises (2010)

Ogni volta che Kozelek fa uscire qualcosa la tentazione è sempre quella di lasciar stare, di non ascoltarlo, di evitare la sensazione e la visione di un declino inarrestabile.
Per fortuna che non mi sono ancora fermato; la speranza è l'ultima a morire e Admiral Fell Promises è un lieve-lieve ritorno alla buona forma compositiva per il nostro ex-campione del mondo. Niente cover, per fortuna. Neanche i compari degli ultimi dischi: è un disco in perfetta solitudine, che con una grazia che ha del miracoloso non solo non annoia come gli altri episodi degli ultimi 10 anni, ma avvince perchè Mark trova il bandolo della matassa. Alla luce di questo bel ritorno, avrei tanto voluto vederlo in Febbraio in quella chiesa alla periferia bolognese, ma purtroppo ho sottovalutato l'evento e il suo seguito: a pochi giorni di distanza il sito del Locomotiv invitava caldamente a non presentarsi se non muniti della prevendita che era andata via bruciacchiata in men che non si dica. Amen.
Ci sono ballads che non eccedono in alcuna direzione, nè malinconica nè solare, che avrebbero meritato il tocco leggero e fatato dei RHP d'annata: Half moon bay, Sam Wong Hotel (la migliore), Third and Seneca, Australian Winter, Church of the pines, una buona metà della scaletta fa gonfiare il petto di orgoglio e di ritrovata amicizia con l'intimissimo feeling che quest'uomo può riversare al mondo, se solo fosse più ispirato. E pazienza se l'altra metà non è altrettanto irresistibile, se a tratti Mark si perde in qualche giro smaliziato di acustica per mostrare che è anche diventato piuttosto bravo, se si inerpica in qualche barocchismo riempitivo che fa calare l'attenzione.
L'importante è non darsi vinti, mai. Con quella voce, poi.

domenica 26 giugno 2011

Sun Araw - On Patrol (2010)

E' abbastanza impegnativo riuscire a seguire tutte le uscite di Stallones da un paio d'anni a questa parte, visto che oltre agli album veri e propri ha rilasciato una moltitudine di EP e singoletti. Eppure io ci sono riuscito, a non perdermene neanche uno, perchè la sua proposta mi esercita un certo fascino nonostante non sia qualcosa di oggettivamente storico.
A partire dal seguito del debutto The Phynx, Sun Araw ha lasciato perdere le componenti più oscure che lo rendevano il suo capolavoro ed ha semplicemente cambiato stile in favore di un sound meno articolato, fortemente esotico. Spesso leggo, al riguardo, di psichedelia tropicale, che mi sembra peraltro un termine azzeccato; infatti il tappeto ritmico è fornito esclusivamente da percussioni simil-africane e certi concretismi fanno pensare di essere in una vera giungla. Ovviamente non c'è solo questo in On Patrol, ma è un componente molto importante: la chitarra di Stallones fornisce le linee guida con frasi acide e riverberate in classico psych-style, l'organo replica con risposte rapide e schizzi onirici, quando non è impegnato a mantenere bordoni di sostegno. Le parti vocali sono alterate, apparentemente fonetiche, declamazioni rare e brevissime, ma hanno una funzione comunicativa tutta loro.
Difficile citare un pezzo piuttosto che un altro, dato anche che si tratta di un doppio, lungo un ora e venti. Ma anche se queste jams hanno uno svolgimento lineare con variazioni minime, il pericolo noia è miracolosamente evitato. Con i suoi gorgoglii, i caldi infernali, le saune letargiche e le sue infinite dilatazioni, Stallones continua a divertirsi e a perpetrare una ventata di purissima genuinità freak.
(Da segnalare che l'ultimo singolo uscito nel 2011, Houston Abtros, è caratterizzato da uno stravolto dub-pop. Chissà come sarà il nuovo album, in uscita fra poco...)

sabato 25 giugno 2011

Battles - Live in Link, Bologna 24-06-2011








Lo spettacolo a cui abbiamo assistito ieri sera ci ha confermato, nel caso ci fossero stati ancora dei dubbi in merito, che i Battles sono dei giganti e propongono qualcosa di realmente inedito, uno stile unico e già ampiamente confermato col disco recente che, a mio avviso, non soffre assolutamente la mancanza del dimissionario Braxton.








Erano così tanti anni che non andavo al Link che neanche sapevo avesse cambiato sede: al posto degli angusti cunicoli della vecchia location in centro, ora sta in un capannone industriale di periferia, quindi raggiungibile più comodamente, con uno spazio esterno ampio ed al riparo da eventuali residenze limitrofe che ne possano limitare le emissioni. La serata si preannuncia molto lunga, ci sono due supporti e due dj fra gli headliner ma l'organizzazione funziona bene e tutto è proceduto agli orari schedulati.
Il primo supporto è Husband, un italian duo misto che svaria fra elettronica, dark-wave e post-rock: bravi e preparati. Un breve set che mette in mostra anche qualche bella composizione ricca di varie atmosfere e carisma (notevole la vocalità del maschio). A tratti, quando lui imbraccia la chitarra, riescono a ricordare certi passaggi degli Have A Nice Life. Può darsi che ne sentiremo riparlare.
Il secondo sono gli Eveline, italiani anch'essi. Leggo che esistono da una buona decina d'anni, ed hanno già fatto diversi dischi. Non li ho mai sentiti nominare e me ne dispiaccio se preferisco sorvolare, dato che li ho trovati pacchiani, dispersivi e francamente fuori contesto dalla serata.









Alle 0.45 arrivano i Battles ed è un tripudio ancor prima dell'inizio. Williams è impeccabilmente in giacca, si sistema fra le due tastiere e durante il set è stato difficile distogliere gli occhi dai suoi balletti, dalle sue movenze divertite e sciolte. Dall'altro lato Konopka, che a dispetto della sua relativa sconoscenza è tutt'altro che un gregario, si alterna fra chitarre, basso e diavolerie. Al centro quel grande asso delle pelli, Stanier, che sprizza sudore e suona con una forza ed un energia devastanti dall'inizio alla fine. Interessante anche osservarlo nel prendere la mira al momento di battere sul crash, posto ad un altezza fuori standard.









I meccanismi subliminali che innescano la macchina da Battaglie restano un mistero anche dopo un ora e venti di osservanza totale. E' chiaro che il trio fa ricorso massiccio a loops, samples e basi (tant'è che Williams in diversi passaggi si dedica alla danza senza suonare, ed imbraccia la chitarra in una minima parte del set), ma il lavoro preparatorio dev'essere qualcosa che sfiora il maniacale per poter replicare alla meglio i pezzi. A parte Race In e Tonto, se la memoria non m'inganna, hanno fatto Gloss Drop nella sua interezza. Aguayo fa la comparsata in Ice Cream, mentre su due pannelli posti nel fondo del palco vengono proiettati e trasmessi la Makino e Numan al momento dei pezzi di loro competenza, quasi come se facessero un live in teleconferenza..
Il senso ludico che già si percepisce alla grande sui dischi (ah, come dimenticare gli infiniti Storm & Stress, se ci si chiedesse ancora da dove proviene tale dna) ci viene riversato addosso con tutta la girandola di suoni ed effetti uniti alla potenza squadrata di Stanier, maestro anche nel saper gestire le ritmiche irregolari. Menzione d'obbligo per il mio pezzo favorito, Wall Street (da non perdere il video che li mostra sommellier d'elite in un palazzo d'epoca francese...).
Lunga vita.

Taku Sugimoto - Opposite (1998)

Mi interessava sentire questo chitarrista giapponese anche se rispetto all'area di competenza sono in pratica un profano. La mia curiosità nasceva da un paio di stroncature colossali su Blow Up in cui il recensore manifestava la propria delusione sulla base del fatto che Sugimoto, partito da una specie di interessante blues spettrale, aveva iniziato a registrare dischi fatti di lunghissimi silenzi interrotti ogni tanto (ehm, raramente) da qualche nota appena impercettibile, che ovviamente finivano per essere una rottura mortale. Ancor più significativo un live report in cui l'inviato di turno dichiarava di esser stato sul punto di addormentarsi.
Non avendo il coraggio di addentrarmi in questo filone di Sugimoto, mi sono limitato ad ascoltare quello che credo venga ritenuto il suo miglior prodotto. Ed in effetti in Opposite ci sono molti silenzi, ma sono tollerabili; in perfetta solitudine con la propria chitarra, concepisce un suono che si può definire davvero astratto, umile e ripiegato su sè stesso. Una grossa antitesi di melodia, sottilmente inquietante e del tutto priva di ritmi. Molto molto scomodo, ma a modo suo ricco di fascino. In due parole, chitarrismo anemico.

giovedì 23 giugno 2011

Stump - A fierce pancake (1988)

A volte mi capita di sentire che gli anni '80 ok, tendenzialmente viene considerato un decennio di merda ma c'era più libertà e coraggio da parte degli artisti. Che si sia d'accordo o meno (di solito lo asserisce chi li ha vissuti integralmente, e non è il mio caso), questo quartetto anglo-irlandese dal punto di vista della libertà c'era, spiattellando un bell'art-pop arzigogolato e per nulla scontato, nonostante la produzione un po' levigata della major arpia di turno.
Facevano bella mostra della loro alta tecnica, gli Stump. L'elemento più in vista era il bassista Hopper, un funambolo da fretless tutto armonici, acrobazie e tapping. Il chitarrista Salmon e il batterista McKahey però non erano da meno, e il complesso finiva per suonare come un incrocio fra la Magic Band degli ultimi anni del Capitano con gli XTC, in particolare per il canto di Lynch, abbastanza simile a quello di Partridge.
Ne esce un disco divertente, che mixa sghembe bizzarrie a melodie piuttosto ispirate (Alcoohol, In the green), quindi gli Stump avrebbero meritato almeno un'altra occasione per ottenere maggiore visibilità, proprio mentre i loro corrispondenti americani Primus si accingevano a spiccare il volo...

mercoledì 22 giugno 2011

Strobe - The circle never ends (1994)

Space-rock energico e tirato fino allo spasimo per questo gruppo inglese che evitava naturalmente la scena freak nonostante il primo disco uscì per Mystic Stones. Questo invece era il terzo, che con una grande cura del suono cercava di aggirare le trappole hawkwindiane per concentrarsi su un suono professionale, che attingeva dai Pink Floyd più mesmerici quanto dai trips tecnici dei primi Porcupine Tree, quelli di Up the downstairs per intendersi.
Alla fine quelle degli Strobe erano kilometriche jam da far ruotare attorno a pochissimi perni compositivi, cercando di spostare l'obiettivo sugli impasti chitarristici multistrato, ricchi di flanger e delay (il suono di Gilmour in Run like hell era un modello ossessionante), con qualche timido spunto etnico ed eterei vocalizzi femminili. Troppo poco anche per gli appassionati del genere, troppa voglia di strafare (un paio di pezzi sfociano quasi in territori crossover!) e la noia che assale facendo perdere l'attenzione.

martedì 21 giugno 2011

Strapping Fieldhands - Discus (1994)

Folk-rock sgangherato e genialoide per questa band filadelfiana che in Discus, primo albo, proponeva una divertente ma intelligente miscela.
Il fantasma di Barrett ormai era già stato espulso dalle coordinate direttive; qui semmai ci si rivolgeva ai primi Red Crayola, oppure impersonavano una versione professionale dei Godz, oppure una rozza dei Tall Dwarfs. Ma è sempre il solito giochino dei confronti che lascia il tempo che trova perchè gli SF avevano un'identità dissacrante e personale (come gli amici e compagni d'etichetta Grifters), fatta di scarti e sorprese continue. Tratto distintivo, oltre agli arrangiamenti contorti, la voce sguaiata del leader Malloy, un lamento ebbro di tracotanza (culmine, Abstract composition #2, degna del Captain Beefheart di Doc at the radar station).
Un Discus complesso da gustarsi e studiarsi tutto, al cui confronto altre band del periodo che accompagnavano in tour (un nome su tutti i Pavement) potevano solo impallidire. Teoremi astrusi-agresti.

Steel Pole Bath Tub - The Miracle Of Sound In Motion (1993)

Nè grunge, nè noise, nè punk-hardcore, gli SPBT erano un power-trio che svariava sul versante duro ma con l'approccio personale di chi proveniva dalla provincia come essi, che si trasferirono dal Montana a Seattle, dove furono ingaggiati dalla gloriosa etichetta Boner.
E come tante altre realtà di quegli anni, la sindrome Nirvana li portò alla corte di una major a rovinarsi fino allo split. Miracle fu l'ultimo disco su indie e portava suggestioni di vario tipo. Gli affronti muscolari di Bozeman, Thumbnail, 594 li facevano sembrare quasi dei NoMeansNo senza averne un decimo della tecnica ma con un pathos deciso e perverso. Il meglio di sè lo davano nelle tracce meno epidermiche, che evidenziavano un lato oscuro e malato ricco di spleen (Borstal, Exhale) o nella grungeggiante Carbon. L'uso dei samples concorre a creare un senso di scompiglio generale nei pochi momenti in cui uscivano dai binari del songwriting.
Non disdegnavano neanche due incursioni relativamente accessibili (per modo di dire), come il noise-pop di Down all the days e il Nick Cave nirvaniano dell'ottima Train to miami, che ben 15 anni dopo (!) sarà resuscitata per lo spot di un videogame.
Non esattamente un miracolo del suono, ma un onesto gruppo di seconda fascia dell'alternative.

lunedì 20 giugno 2011

Starfuckers - Sinistri (1994)

Quale gruppo è stato il primo a fare cose del genere in Italia? Forse soltanto gli Area più incompromissori, rumoristici e trasgressivi avevano velleità sperimentali di questa portata. Pur avendo un retroterra di garage e noise-rock, come testimoniato dalle prime pubblicazioni, gli Starfuckers sono pervenuti a questo atto di rottura totale che con gli anni è stato rivalutato e capito solo in parte, forse anche a causa dell'ombra fattagli da una stagione piuttosto fertile per il panorama indipendente.
Con cui non avevano nulla a che vedere. A parte alcune piccole incursioni simil-slintiane (Mutilati) e una fragorosa, canonica noise-track (Ordine pubblico), Sinistri è un implosione impressionante, un atonale cerimoniale di occulte rarefazioni sonore. Il capolavoro 251 Infinito rappresenta al meglio lo stile: percussioni sparse (Bertacchini), singhiozzi taglienti di chitarra e sparso recitato desolante (Giannini), elettronica e concretismi assortiti (Bocci), fino a scadere nella cacofonia più brada di Macrofonie 1a, che senza alcun spreco apparente di energie termina il discorso con un debosciato panorama post-nucleare.
Coraggio da vendere.

domenica 19 giugno 2011

ST 37 - Spaceage (1998)

Prendono il nome dall'esilarante gag dei Chrome sullo storico Alien Soundtracks, sono texani e hanno rappresentato uno dei nomi più importanti nella rinascita space-rock degli anni '90, seppur giunti alla corte della Trance Syndicate (via filiale Emperor Jones) quando ormai lo scenario stava per tramontare.
Loro invece sono tutt'ora in attività e nei primi dischi come questo avevano una forte particolarità. Mai sentito un ibrido fra gli Hawkwind e le ritmiche spigolose e nevrotiche della new-wave? I primi due pezzi in scaletta, Heather catherine tallchief e Vitamin C, nonchè l'ipertesa Night Jetz, sono chiari esempi di questa fotosintesi acida, e anche se poi è il lato space-freak a prendere il largo durante il disco si scorgono frangenti di questo tipo. Non male per un gruppo che si ispira dichiaratamente alle saghe cosmiche di Brock & Co. e al terrorismo chitarristico di Helios Creed, e finisce a volte per ricordare certe scorribande dei Can con Peter Hook al basso (!).
Una produzione più oculata e qualche eccesso in meno avrebbero reso Spaceage un piccolo gioiellino underground. Ma si sa, certe filosofie non vanno mai snaturate...(si veda la foto per capire di più....)

giovedì 16 giugno 2011

Spiritualized - Lazer guided melodies (1992)

Degli Spacemen 3 Pierce era l'anima melodica, meno trasgressiva e letargica, se vogliamo. All'atto dello split era prevedibile che avrebbe avviato un suo progetto dedito allo sviluppo della sua tipica bucolicità. Il primo album degli Spiritualized quindi è una collezione di carinerie psichedeliche, di caramelle increspate da qualche segno di nuova vigoria, quasi inaspettata (Angel Sigh, If I were with her now, I want you ).
Libero dalla zavorra "sperimentale" di Sonic Boom, Pierce si esaltava in ciò che gli è sempre riuscito meglio, e qui di songs valide ce ne sono un bel po', anche quando compare un pizzico molesto di elettronica come nella raffinata Run, nell'aria evocativa di Take your time, nei rilassati profumi sixties di Shine a light, nella sinfonia agrodolce di 200 Bars.Infine ci sono le due vette del disco, ovvero la sviolinata da sogno di Step into the breeze e il trip siderale Symphony Space, che alzano la media e fanno dimenticare un 2-3 episodi piuttosto passabili, rendendo Lazer guided melodies a mio avviso il miglior disco della carriera di Pierce.

mercoledì 15 giugno 2011

Soft Moon - The Soft Moon (2010)

Ascoltando dischi come questi viene da pensare "ma com'è stato possibile che i grandi nomi di quella stagione non abbiano potuto scrivere questi pezzi allora?". Esattamente come i Blessure Grave, i Soft Moon sono degli ispirati replicanti del dark-wave inglese di alta scuola, e quindi sono riservati agli amanti (non come gli Have A Nice Life che si sono imposti con le loro altissime qualità, e quindi vanno annoverati come personalità a parte da tutto), eppure sono così bravi che non si può non apprezzare il disco magnetico, ribollente e glaciale come da stile di riferimento.
E il disco è talmente fedele nelle sonorità che si sarebbe potuto tranquillamente produrre nel 1982: la meccanicità dei ritmi è affidata ad un'asettica drum-machine, il synth ha un ruolo corredativo molto importante, il basso è squadrato ed ossessivo, chitarra e voce minimali conducono le freddissime composizioni con fare perverso. Immerso in un marasma galattico perenne, Soft moon ricorda tangibilmente tutti quei nomi che sono stati tirati in ballo dalle recensioni maggiori (ok per i Cure della trilogia, ok per i primi Sisters Of Mercy, ok per i Suicide con qualche riserva, secondo me coi Joy Division e Killing Joke c'azzeccano molto poco), io semplicemente aggiungerei i Chrome di Red Exposure, anche per l'uso della voce.
Certo che, con tutti i limiti del caso, occorre ammettere che i replicanti di oggi sono 1000 volte meglio di quelli che salirono sul carro appena i maestri si ritiravano o cambiavano musica, nella seconda metà degli anni '80 (ricordo una raccolta orribile che comprai per sbaglio, Kiss of the vampire, infarcita di impostori...)

Smog - Sewn to the sky (1990)

Fa una strana sensazione mettere a confronto il Bill Callahan di questo esordio con quello recentissimo di Apocalypse (peraltro il migliore dei tre realizzati a nome e cognome, secondo me), tanto sono distanti ed opposti.
Eppure in Sewn to the sky, per quanto grezzo, disordinato e folle sia, io ci colgo un filo rosso che sarà comune denominatore dell'alterno ma personale percorso dell'americano. Ovvero l'eterno brancolare fra un ventaglio di umori variabili, il fatalismo ma anche la dolcezza, l'armonia sottilmente perversa e la scabra ironia di fondo.
Qui ci sono 20 schizzi di breve durata in cui le innumerevoli freakerie non sono mai fini a se stesse, anche quando si direbbe che Callahan fosse fuori di testa. Al punto che non si può neanche dire che qui era ancora acerbo (aveva 24 anni all'epoca), ma che le sue sperimentazioni noise-folk erano già un deciso punto di partenza che lo porterà in pochi anni a sublimare con i suoi capolavori, Julius Caesar in questo filone e Wild Love sul lato meno disordinato.
Un lavoro molto lo-fi, ispido come un tappeto di chiodi, che collezionava un primo bizzarro stralcio di poetica callahaniana. Un paio di titoli sul mucchio, Hollow out cakes e Coconut cataract.

lunedì 13 giugno 2011

Slaves - The devil's pleasures (1999)

Fra la fine dei VSS e l'inizio dei Pleasure Forever Rothbard, Hughes e Clifford pubblicarono questo EP (giustamente ristampato a mo' di opera omnia con l'integrazione di un paio di singoli), e c'è da pensare che Slaves fosse una sigla che evidentemente non potevano continuare ad usare, quindi va ritenuto come primo vero prodotto dei PF.
La storia dei nomi non importa, perchè siamo di fronte ad un altro grande disco di art-rock decadente, teatrale e grintoso. Apre lo strumentale Oscularum infamè, marcia tesa al servizio di una selva di chitarre acide. An exact seance parte in sordina e cresce incessante fino all'esasperazione. On your belly you shall crawl rilasciava per la prima volta l'influenza del migliore Nick Cave, con un Rothbard stridulo maudit e grande enfasi sul motivo.
Un organo acidulo '60 introduce la spiritata Honeycomb communiquè, quasi un preparativo ai 10 minuti angoscianti di Name of man, una variante iperarrangiata dei Three Mile Pilot di The chief assassin to the sinister e per questo probabilmente superiore. Perchè il punto forte erano proprio le scelte produttive a premiare gli Slaves, che corredavano le loro composizioni con gusto e tattica funzionale all'impressionismo.
Ancora profumi sixties per l'immediata e trascinante Chemical priest. Spirali ossessive di suono acido permeano Slender Spires, lenta e malsana così come la successiva, fantastica Kill a pony, climax espressivo globale con tanto di rasoiate di violino, e la seconda parte di Calling a loa che parte con una serrata pantomima, poi si riprende a passo lento e chiude con enfasi quasi spaziale questo disco ineffabile, di inafferrabile classe.

domenica 12 giugno 2011

Richard Skelton - Landings (2009)

Un musicista naturista come forse non se ne sono mai sentiti, Skelton, che con questo capolavoro plasma un suono mistico e tiepido da assaporare ad occhi chiusi se si è in centri urbani, ad occhi bene aperti per accompagnarsi in un escursione in aperta campagna.
A parte le location, che comunque per lui sono state fondamentali (specie a livello produttivo), Landings è un esplorazione dell'animo estremamente difficile da descrivere, se non dal punto strettamente tecnico: Skelton lavora con lunghi drones riverberati, rifrazioni di archi, arpeggi cristallini di chitarra classica per (far) raggiungere un contraddittorio ragguardevole: lievitare in relax pur restando ancorati alla nuda terra da un legame fortissimo (per l'appunto, atterraggi come da titolo).
Per questo è quasi inutile parlarne, se non per riportare che per me è di una bellezza stupefacente. Mi piace pensare, vista l'ispirazione ultraterrena, che sia un modo per mantenere in vita la moglie, morta qualche anno fa.

sabato 11 giugno 2011

Six Minute War Madness - Il vuoto elettrico (1997)

Piuttosto atipico nel panorama alternativo '90, il quintetto milanese è stato artefice di una progressione interrotta proprio sul più bello, su quel Full fathom six del 2000 che li elevava a italici traspositori credibili del suono gloriosissimo della Louisville più celebrata.
Il retaggio di origine invece era un grunge scuro e vigoroso che caratterizzava il debutto omonimo del 1997. Nel mezzo, pertanto c'era Il vuoto elettrico a mediare le due tendenze con ottimi risultati. In sostanza, i SMWM non era che inventassero chissà che cosa ma avevano una proposta seria ed onesta, senza strafare nè essere banali.
E soprattutto non assomigliavano agli Afterhours, nonostante la forte connessione: oltre ad Iriondo che si divideva fra entrambi, in organico c'era anche il primo chitarrista Cantù. Il vocalist, l'occhialuto Ciappini, aveva una timbrica molto particolare, seppur col difetto di essere un po' debole sui toni bassi.
Il disco si apre con Ottobre '96, una sorta di omaggio ai June Of '44 che furono un influenza molto importante specialmente sul capitolo finale. Echi delle ragnatele chitarristiche ipnotiche di Noble/Mueller si odono in diversi momenti, in particolare nei momenti più dilatati e docili. La title-track è un episodio lampante, soffuso recitato su arpeggi sognanti, ma sono parecchi i break di questo tipo. Una novità e Media 27 sono slintiane fino al midollo.
Il modello ancora predominante però era sempre l'articolato, abrasivo post-grunge che all'epoca avrebbe anche potuto ricevere consensi a livello popolare, vista la fertilità del periodo. Test, l'implacabile Dolores (con rigo memorabile di Ciappini, posala con cura, la mistura che va messa nel cannone), Texaco tap, Le mie streghe, Crash, sono trascinanti muri di chitarre lanciati a media velocità, fragorose affermazioni di indipendenza.
Ben più di sei soli minuti.

venerdì 10 giugno 2011

Silver Mt. Zion - He Has Left Us Alone but Shafts of Light Sometimes Grace the Corner of Our Rooms…(2000)

Tutto torna perchè nulla torni.... Non solo un unità distaccata dei Godspeed, i SMZ debuttarono con questo accorato, cinematico solco che contiene un evidente segno del dna madre, ma è proporzionato nell'impostazione.
Soltanto Sit in the middle sembra un outtake, ma nel complesso He has left us alone è un disco umile e raccolto, che rinuncia alle dinamiche maestose e alle tempeste emotive dei Godspeed per diventare un terzetto da camera. Menuck, l'ideatore del progetto, rinuncia quasi del tutto alla chitarra e siede principalmente al piano con delle linee guida semplici e lineari su cui hanno campo liberissimo la violinista Trudeau che si fa in 4 e il contrabbassista Amar. L'enfasi drammatica di Broken chords, Stumble then rise e For Wanda è un tratto subito importante e in parte mutuato, ma il meglio sta altrove.
Blown out joy
è un incantata elegia di arrendevolezza, 13 Angels standing è un ambient cameristico-spaziale da brividi, mentre Movie (never made) è il colpo che non ci si sarebbe aspettati, dolente crooning autoflagellante in pieno stile Black Heart Procession modello II, uscito soltanto un anno prima. Menuck per l'occasione canta e peraltro sembra proprio un timido, tremolante Pall Jenkins.
E poi? Vogliamo parlare del titolo del disco?

mercoledì 8 giugno 2011

Sightings - Arrived in gold (2004)

Declamato come uno dei capitoli più illuminanti del new-noise degli anni '00, il 4° disco dei Sightings è un atto di evoluzione rispetto ai precedenti tritatutto. La sede è New York, la violenza non è più in your face ma diventa diagonale, beffarda e persino arty, se vogliamo. La strumentazione è sempre quella classica ma irriconoscibile, l'uso delle voci passa dall'urlo liberatorio al sussurro demente al recitato angoscioso.
Basti sentire la parte centrale del disco per capire che i Sightings stavano cedendo a qualche compromesso musicale: Internal compass fa muovere il culetto con un passo alla primi Liars ed un basso incurvato, ma le asperità chitarristiche la fanno sempre da padrone. Switching to judgement è la sua versione dark a tempo dispari, Dudes pesta duro e veloce in un festival di wah-wah ultra-aciduli. Non esattamente delle piacevolezze, ma di grande presa immediata.
D'altro canto, il lato sperimentale si arricchisce di nuove consapevolezze. Le vetrioliche poliritmie in crescendo di One out of ten (quel piano inquietante in sottofondo, mamma mia!), il riff stralunato di sugar sediment, le mini-sinfonie industriali di Odds on e The last seed, il tour de force galattico di Arrived in gold, arrived in smoke, segnano il passo disumano di un sound che forse definire avanti è un po' eccessivo, ma di fronte ad estremismi artistici come questi non si può non restare impressionati.

martedì 7 giugno 2011

Shit and Shine - Jealous of Shit and Shine (2006)

Di solito li si definisce con aggettivi netti come "apocalittici", "aberranti", "colossali" e via dicendo, e non a caso giacchè questo collettivo suole suonare dal vivo con un numero variabile di batteristi (da 4 a persino 15) a supporto dei tre membri fondatori, due dei quali appaiono sempre con una simpatica maschera di coniglio ben calata in testa.
Anzichè rientrare nella schiera di terroristi noisers del decennio zero come Wolf Eyes, i SAS hanno intrapreso una loro saga incentrata sugli strumenti tradizionali, con un ricorso non eccessivo all'elettronica, grosse enfasi sul ritmo e ripetitività che definire ossessive è dire niente (vedi il secondo disco, Ladybird, una furia interminabile senza variazioni). Jealous invece è stato il vero salto di qualità in avanti, proponendo quello che poteva rischiare di diventare una pantomima ed invece si è dimostrato un progetto di estremo interesse.
Lo spirito avanguardistico dei Chrome di Half machine lip moves si agita in più meandri, al punto che se Helios Creed fosse nato negli anni '80 credo che ora suonerebbe proprio così. Gli sfracelli irregolari di When extreme dogs go wrong, l'industrial-punk di No darling, it's a pentragram, lo scanzonato carambolare di Unchained ladies shopper, il collage cupo e rimbombante di There are 2 bakers now, lo scherzetto saturante di Kitten mask, il funk robotico di Hot Vodka, sono quasi sempre condotti da una chitarra acidula ed impertinente che a tratti ricorda il grande terrorista ante-litteram della new-wave. Inoltre, nonostante l'atmosfera sia quasi sempre oppressiva ed incuta sensi di terrore, non si può non notare l'ironia di fondo che affiora spessissimo, anche nell'uso delle voci trovate o come nell'emblematica chiusura, quella Seeing life through a young man's eyes che potrebbe anche essere una sigla per cyber-cartoni animati.
Il punto focale del disco però resta l'episodio principe dello Shit&Shine-style, cioè il mastodonte minimale, Practicing to be a doctor. Questa volta dura soltanto 30 minuti ma a mio avviso è molto più riuscito di Ladybird, in virtù di un percorso che riesce a scavare meglio nell'inconscio dell'ascoltatore. Il riff è ispido e metallosissimo, ma si provi ad inserirlo in un contesto pulito e risulterà quasi pop! Con i molteplici drum-kits che fanno la loro catena di montaggio a sincrono, l'elettronica diventa lo strumento di assolo, fra trapanate in stile dentistico e sveglie belle trillanti. La voce declama il titolo del pezzo con un demenziale, afono baritono ed il piatto forte è servito. Alla metà precisa le chitarre fanno un break di un paio di battute e poi riprendono la grattugia urticante. L'effetto è allucinatorio ma Doctor non mi riesce a stancare neanche dopo diversi ascolti, tanto è riuscito nel suo intento (se mai ce ne fossero stati...).
Lo stop è improvviso, netto, fatale.

lunedì 6 giugno 2011

Seijaku - You Should Prepare To Survive Through Even Anything Happens (2010)

Nonostante la sua proverbiale incontinenza ed un inevitabile declino, Keiji Haino è ancora in grado di sorprendere e dare dimostrazioni di forza imponente come in questo recentissimo progetto varato con Mitsuru al basso e Yoshimitsu alle pelli, due veterani della scena nipponica e tutt'altro che gregari nello svolgimento del disco, che esce gemellato a Mail from Fushitsusha, leggermente inferiore a questo monolite di blues bianco geneticamente modificato.
Quattro pezzi fra i 6 e i 15 minuti, e ci si chiede come faccia KH ad avere ancora così forza e furia alla veneranda età di 60 anni. La voce è quell'urlo belluino cartavetroso da samurai che lo ha contraddistinto nelle sue pagine più estreme, eppure qui è inserita in un contesto musicalmente tutt'altro che violento.
Si tratta di improvvisazioni in studio: Want to head back e Showa blues lo vedono alla chitarra in stentoree sventagliate di dodici battute alla rinfusa, senza una struttura coerente (e notasi il bravissimo Mitsuru nel sapersi destreggiare fra gli inattesi cambi di tono!). Ciò che splende di più però è inevitabilmente KH nel suo ruggente deambulare, declamare come squarci nel buio, come lampi improvvisi nel cielo notturno.
Keep on fighting e Look over here invece lo vedono all'armonica impazzita, senza un'apparente attinenza di tonalità col basso minimale e profondissimo, nè di ritmica con le procedure fratturate dell'altrettanto ineffabile Yoshimitsu. L'effetto di questo gigioneggiare alla fine è quasi comico, per quanto impressionante nella sua potenza scarnificante.
Il vecchio leone sa ancora graffiare a dovere.