giovedì 31 gennaio 2013

Kito Mizukumi Rouber - Otonaki Touge De Hagureta Kmr (2009)

Come mettere in gioco la lunga solidissima reputazione di leader e mente degli Aburadako per Hasegawa?
Fondando KMR, uno dei trii più sconclusionati e primitivi che mi sia capitato di ascoltare. Davvero un altro mondo per il carismatico che per la prima volta in carriera imbraccia la chitarra e si lascia andare insieme ai due compari ad un ultra-garage-blues sciatto e cartavetrato.
La fonte primaria è lo stile Enka, un filone popolar-tradizionale che viene contaminato con lascivi deliri (estremizzati dalla registrazione che definire lo-fi è puro eufemismo) che a volte paiono derivati direttamente dai tardi anni '60. Come se i 13th Floor Elevators ubriachi facessero da backing band ad un ancor più sbronzo Captain Beefheart agli inizi della propria avventura, escludendo la voce di Hasegawa che non è il classico declamo isterico, ma un folle tentativo di canto destinato a spaccare vetri a destra e a manca.
Per stomaci belli foderati.

mercoledì 30 gennaio 2013

Kirlian Camera - Uno (1979 - 1981)

Ristampa del primo demo + il primo EP. I KC sono sempre stati più riconosciuti fuori dall'Italia, vista l'osticità iniziale della loro proposta synth-gothic alle orecchie nostrane. 
E nonostante questo sound porti un po' maluccio la propria età, occorre ammettere che in Italia furono praticamente i primi ad arrivarci ed erano contemporanei a cose simili che accadevano nel resto d' Europa.
Non soltanto per la qualità audiofila, l'EP omonimo del 1981 era molto meglio del demo e denotava un suono minimal-glaciale di buon impatto, seppur non scevro da qualche tentazione melodica e perchè no, anche da ingenuità (la pronuncia inglese quasi imbarazzante della cantante, ma poi chi se ne frega....).
E sembra quasi incredibile che tutt'ora siano in attività, un po' diversi ma sempre con lo stesso dna.

martedì 29 gennaio 2013

Jacob Kirkegaard - Labyrinthitis (2008)

Mi affascina il concetto che il danese ha voluto riversare su solco digitale. Ha registrato i suoni che si sviluppano naturalmente nella cavità auricolare, quando essa viene sollecitata, tramite un processo tecnico che non sto a riportare; tutti i dettagli si trovano in rete.
Ovviamente noi umani non li percepiamo a questo livello, ma il titolo stesso sta a parafrasare l'esistenza degli acufeni, ovvero i fischi e ronzii che sono fra i sintomi della labirintite. Infatti il flusso sonoro è costituito da drones costanti, perfettamente lineari, che non mollano un attimo.
Ci sono almeno 4-5 modulazioni di frequenza principali, tuttavia ognuna di esse è stratificata con altre a loro volta complementari. Da circa metà le toniche si rivestono con una parvenza di equilibrio diapasonico, dall'effetto ancor più astratto.
Una volta finito il solco, l'ottundenza di Labyrinthitis non si dimentica facilmente. Ma è una scultura di suono, e come tale va considerata.

lunedì 28 gennaio 2013

Leyland Kirby - Eager To Tear Apart The Stars (2011)

Non essendo riuscito proprio a trovare qualcosa da scrivere su Sadly, The Future Is No Longer What It Was, ripiego molto consolato su Eager To Tear Apart The Stars.
Come ho già scritto in corrispondenza di Caretaker, Kirby è uno dei performer attuali che seguo con più attenzione e trovo bellissimi  quasi tutti i suoi lavori. Su Sadly, che ha attirato persino le attenzioni di PS, è stato scritto di tutto e di più, col comune denominatore che si tratta di un opera imponente ed alta che mi ha lasciato (per l'appunto) senza parole. Eager, improntato su un minutaggio decisamente più umano, è un altro splendido assemblaggio di modernariato ambient, di grande umiltà e sensibilità armonica.
E' tutto ovviamente dominato da piano e tastiere, e l'elettronica pura sembra il più possibile emarginata . Ci sono ondate basinskiane arricchite (No longer distance than death), rasserenate di enorme respiro (This is the story of paradise lost), inquietanti scandagliamenti cosmici (The arrow of time), e persino autoreferenzialità parodistica di old-music a là Caretaker (They Are All Dead, There Are No Skip At All), ed il gran finale con lo struggimento di My dream contained a star, di una bellezza indicibile.
Senza parole.

domenica 27 gennaio 2013

King's Daughters & Sons - If Then Not When (2011)

Sembra ieri eppure dai primi passi sono quasi vent'anni, perbacco. E fa tristezza pensare che Jason Noble è stato consegnato a miglior vita pochi mesi fa.
Il tempo scorre e trovare nuovi stimoli a volte è difficile. Non è stato così per i KD&S, la cui line-up pesca 3 personaggi di quella Louisville. La pianista Grimes classicheggiava nei Rachel's, Cook era nei For Carnation, Crabtree prima negli Eleven Eleven e poi negli Shipping News.
If Then Not When schiude un suono ricco di sfumature ed altamente emotivo, in bilico fra slow-core, certe atmosfere abbandonate dei tempi ed una sensibilità roots altamente emotiva. In sostanza, un disco adulto, che si volta al passato nel tentativo di cercare ancora qualcosa da dire.
E lo trova in almeno 3 pezzi, Sleeping Colony in primis, poi A storm kept them away e Open sky. Chi ha amato le origini di questi musicisti non potrà non provare un brivido all'ascolto, le strutture circolari delle due chitarre, i contrappunti di piano e la coralità del gruppo. Peccato che il resto del disco sia quasi da buttare, composto da banali folk-rock senza nervo o da quelli che sembrano scarti dei Low, armonie vocali comprese. Mi tengo stretto le 3 gemme sopracitate e provo per un minuto la brezza fresca del revival.

sabato 26 gennaio 2013

Khonnor - Handwriting (2004)

Cantautorato abbastanza intimista spesso imbevuto in un'ovattata coltre di elettronica dagli sprazzi più che eccellenti per questo americano che però nel frattempo sembra essersi un po' perso. Un peccato, viste le premesse.
In Handwriting ci sono due aspetti dominanti: la ballad pigra per chitarra acustica e poco altro, e la ballad syntetica con beat-box, glitches e scenari ambientali. La voce incerta ed indolente di Khonnor, lasciata quasi sul sottofondo, è un mero corredo a giustificare la definizione di songs, quando in realtà sono gli spunti strumentali a risaltare maggiormente come nella splendida Crapstone o in Kill2, evocativamente simile al Barzin che aveva debuttato giusto un anno prima.
Un suono costantemente espanso, a dispetto della povertà di equipaggiamento dichiarata nelle bios, lascia l'ascoltatore nella sensazione di trovarsi in un limbo confidenziale come pochi altri solisti attualmente riescono a fare (Screen love, space, time), dove la freddezza degli interventi elettronici è sempre attenuata dalla calorosa attitudine della gioventù col cuore in mano.

venerdì 25 gennaio 2013

Khlyst - Chaos Is My Name (2009)


Ancora una volta Plotkin, e sempre grande musica di estremo confine nel suo decennio di assoluto splendore artistico. Questa volta, per Khlyst, in compagnia di una signora norvegese, Runhild Gammelsæter,  che quand'è in primo piano emette growls agghiaccianti e acutizza stridula, come in un ipotetico duello con Alan Dubin.
Scherzi del destino: nel 1994 la vocalist si trovava a Washington per studio e si aggregò per neanche due mesi ai Thorr's Hammer con i giovani Anderson e O'Malley, prima di tornarsene a casa e diventare una biologa.
Chaos is my name è un inferno eclettico diviso in gironi numerici romani, realizzato col prezioso contributo del fido Wyksida in alcuni pezzi. In I, III, V, VII si può udire una specie assurda di math-grind / free-jazz-death convulso ed elastico che fagocita tutto ciò che incontra, con Plotkin impazzito a svisare l'elettrica senza ritegno (come un Creed dell'oltretomba, tanto per dirne una).
Al contrario, i capitoli di numero pari invece sono delle esibizioni di dark-ambient controllata che nascondono chissà quali orrori, lasciati nel sottofondo non udibile. La Gammelsæter si intra-sente in lontananza,  mentre lo spettrale tema ricorrente lascia intendere che quella porta è meglio lasciarla chiusa.
Unica eccezione al percorso, il capolavoro finale VIII che prepetra gli effetti e le distorsioni di Plotkin, le scudisciate di Wyksida e le vocalità, questa volta pure, manipolate e moltiplicate, fino a raggiungere un livello di pathos da pelle d'oca.

giovedì 24 gennaio 2013

Khanate - Clean Hands Go Foul (2009)

E se ne andarono così, lasciando un vuoto pneumatico che molto difficilmente sarà occupabile. Clean hands go foul parla di un episodio n. 5 che non arrivò mai, registrato poco prima dello scioglimento e rilasciato postumo. 
Parla di un suono più espanso rispetto ai supremi capolavori, principalmente a causa di O'Malley, che invece di restare compatto come il granito si lascia andare in feedbacks tremebondi e mega-droni lancinanti. L'insieme ne subisce le conseguenze e pertanto s'intuisce come sarebbe potuto evolversi il futuro del poker d'assi; meno rabbrividente ed eroso da agenti atmosferici come lava e lapilli.
La formula-formula era stata spiattellata e noi eravamo rimasti senza parole: giocoforza occorreva girare l'angolo e vedere cosa succedeva. In Wings from spine e In that corner sono le frustate di Wyksida e Plotkin a reggere le debordanti folate di delirio del chitarrista, mentre Dubin fa il suo stridulo e terrorifico dovere. Gli argini sono ormai distrutti, e Clean my heart è un delta di droni incontrollabile.
Diverso il discorso per Every god damn thing. 32 minuti sono tanti e un editing più efficace avrebbe beneficiato. Ma se c'era da mettere una pietra tombale e sconvolgere per l'ultima volta, c'era un motivo per cui mettere un mega-mattone di cui più della metà del tempo è costituito da silenzio e/o emissioni quasi impercettibili, e l'altra metà una serie di sibili tremendamente inquietante.
A tre minuti dalla fine, inaspettata, arriva una breve eruzione afasica delle loro che si stampa sugli speaker. Khanate è morto, viva Khanate. Grazie.



mercoledì 23 gennaio 2013

Keith Kenniff - The Last Survivor (2010)

Documentario prodotto da due registi americani che ha come tematica 4 grandi genocidi del secolo scorso. Non proprio una cosetta leggera, ma il compito di sonorizzarla è stato commissionato a Kenniff che realizza 18 quadretti di breve durata e forse cerca di assecondare il senso del prodotto, che ovviamente sensibilizza sulle atrocità trattate cercando una via di ottimismo nella maggior diffusione possibile di senso civico ed umano.
Così Kenniff si traveste un po' da Goldmund ed un po' da Helios, seppur rinunciando ad ogni forma di battito percussivo, trova qualche commistione eccitante (in Lux sembra quasi di sentire la fragile presenza di Skelton, con quel violino) e lascia piccole pieces in sospeso, probabilmente vincolato dai ritmi del documentario.
Ma alla fine il vero senso della soundtrack è che Kenniff sperpera talento e armonie incantevoli come se ne avesse una cava aperta. Attendo sempre il momento in cui otterrà un maggiore riconoscimento.

martedì 22 gennaio 2013

Keiji Haino - C'est Parfait - Endoctriné Tu Tombes La Tête La Première (2003)

Riconosciuto come uno degli migliori episodi di KH (e non solo della fase over-50), C'est parfait è una suite di tre quarti d'ora per strumento-voce e drum machine. Il titolo deriva con ogni probabilità dal fatto che è stato pubblicato da una label transalpina.
Quasi superfluo dire che si tratta di un esperienza ai limiti del sovrumano, come generalmente capita. Gli elementi essenziali che di solito il folle applica alle sue lunghe elucubrazioni voce/chitarra si ripresentano anche in questa sede, rappresentati dalle repentine alterazioni umorali, dalle fasi quiete alle esplosioni di ferocia belluina, dagli astrattismi criptici agli abbandoni più bradi al rumore bianco.
Mancando per ovvie ragioni l'apporto melodico, C'est parfait finisce per diventare ancora più ostico della sua media. La drum machine che utilizza fa di tutto per sembrare umana, grazie ai suoni che rassomigliano a  tamburi naturali, con gran sferragliare di piatti e campanacci. Il delirio vocale, col suo corredo di raddoppi, è l'unico responsabile di ciò che si può definire una modulazione musicale.
Al termine del pezzo, il frastuono e le urla belluine vengono troncate di netto. C'è poco da spiegare. Dopo averlo visto dal vivo, mi diventa sempre più difficile descriverlo.

lunedì 21 gennaio 2013

Samuel Katarro - The Halfduck Mystery (2010)

Grande, grande talento visionario questo ragazzo toscano che ho scoperto soltanto di recente. Non mi era mai capitato di leggere qualche recensione ed ho visto il suo nome in continuazione sulle liste dei concerti nei locali di mio interesse, ma l'intestazione del progetto non proprio memorabile mi aveva spinto a sorvolare senza neanche documentarmi.
Dotato di un songwriting di media altissima, Mariotti recupera concrete reminescenze di un passato ormai remoto legato a cantautori storici che imbarazzerebbe anche il solo nominare. Ma per rispetto alla sua stoffa preferisco non pronunciarmi, bensì trovo sensato concentrarmi sul mistero del semi-papero, raccolta che regala un'emozione dietro l'altra, sventagliando passaggi malinconico-pastorali e sardonici stomp-blues come se nulla fosse, con tutto ciò che ci può stare nel mezzo. La voce di Mariotti fa lo stesso percorso, passando da falsetti visibilmente auto-ironici a grida strozzate a toni estatico-teatrali.
Gli arrangiamenti sono esclusivamente vintage, guidati dalle linee acustiche ma spesso ispessiti da azzeccatissimi archi. Non si possono non menzionare almeno 4 gioielli, come il melodramma orchestrale di Rustling che apre l'elenco facendo già sobbalzare sulla sedia. Pop skull inizia come un canonico e conviviale folk-rock, per poi trasfigurare in un'umida escursione lisergica. Il top risiede in 's Hertogenbosch Blues Festival, commovente fino allo sfinimento, per classica, pianoforte, violini e voce spezzata. You're an animal, quasi canterburiana nei suoi scarti, è un intensissimo preludio al finale spettrale  di Sudden death, che sta a sintetizzare il concetto base di Mariotti: il folk psichedelico è alla base di tutto, purchè assistito da un ispirazione che, rivolta al passato, diventa senza tempo quando il talento è così clamorosamente espresso.
Un piccolo orgoglio nazionale; spero tanto che non si perda.

domenica 20 gennaio 2013

Mick Karn - Titles (1982)

Tornando al discorso dello scioglimento dei Japan di poco tempo fa, il primo disco di Karn sta lì a 30 anni di distanza a ribadire uno dei pochissimi concetti che in musica si trasforma spesso in equazione: chi è bravo tecnicamente non è un grande compositore. La magia che i Japan riuscivano a sprigionare era dovuta, fra le altre cose ed oltre che alle doti di Sylvian, anche alle prodezze balistiche del bassista che però da sotto bramava per avere la propria visibilità.
Le velleità di Karn si riassumono in un disco a due facce: la prima è strumentale, incentrata sui giri elaboratissimi del fretless che si ripetono ipnoticamente su tappeti di synth, qualche battito percussivo e tessiture di clarinetto. Bella ed avvolgente, ma nulla di memorabile.
La seconda è cantata ed è un fallimento totale, perchè scade in un synth-pop triviale di cui c'è poco o nulla da salvare. La ristampa in cd chiude con un bonus, The sound of waves, strumentale in stile facciata A, di cui sarebbe stata la perla. Paradossale che ne sia rimasto fuori.
Ed intanto Sylvian se la prendeva con molta calma.

giovedì 17 gennaio 2013

Karate - In The Fishtank vol.12 (2005)

Enigmatico dilemma irrisolto per quello che è stato l'ultima release a tutti gli effetti, escludendo il live postumo: la verve ritrovata poteva rivitalizzare la carriera dei Karate oppure si trattò di un semplice divertissment?
Ok, l'essere su In the fishtank è stato, come per tutti i gruppi che vi hanno partecipato, un episodio a parte della discografia. A maggior ragione per il trio di Farina che per l'occasione approntava 8 covers, quindi compito facilitato ed esenzione da qualsiasi responsabilità di songwriting. 
Però, dopo il trio di pregevolissimi dischi indie-jazz fra il 2000 e il 2004, sentire il tiro ritmico irresistibile sul poker di pezzi dei Minutemen (+ uno di Watt solista) proposti è qualcosa che fa sobbalzare. Un po' meno esaltante la resa su Holiday e Dylan, mentre la vera ciliegina è A new Jerusalem di Mark Hollis, che seppur significativamente normalizzata in base ai loro canoni fa tornare in mente le belle emozioni slow-core del primo disco, con l'aggiunta del valore intrinseco della fonte.
Era la chiusura di quel grandissimo disco, ed era anche l'addio dei Karate, su una nota esistenziale.

mercoledì 16 gennaio 2013

June Of '44 - Engine takes to the water (1995)

Da quanto tempo non lo ascoltavo....forse 7 o 8 anni, direi, eppure quegli armonici fragili che lo aprono mi mettono ancora i brividi. Una lieve lieve progressione, come un lento albeggiare fino all'arrivo di basso e batteria, incedere smorzato e balbettante, pausa spettrale e poi boom!. Have a safe trip, dear, l'augurio era particolarmente propizio: nell'anno di gloria 1995 i June of '44 furono proprio ciò che ci aspettavamo noi già nostalgici degli Slint, o coloro che erano stati fulminati dai Rodan l'anno prima.
Un packaging disarmante: fragile cartoncino in 3 facciate (l'altra sera gli ho buttato un'occhio, il deterioramento è visibile), tema navale, laconicamente parco di note.
Sul disco in sè, beh: è risaputo che il loro migliore è stato Four great points, ma Engine conserva tutt'ora un posto molto speciale, che sperimentasse (Pale horse sailor), che violentasse (Take it with a grain of salt), che rilassasse (I get my kicks for you). E se il concetto di supergruppo per una volta funzionava alla grande, era giusto esaltarsi. E come sempre, un grande grande grande Doug Scharin.

martedì 15 gennaio 2013

Jumbo - DNA (1972)

Non è che vengano spesso ricordati fra i nomi importanti del progressive, i piemontesi Jumbo. Guidati dal songwriter Fella, in possesso di una voce grassa e rauca da orco bluesman, nell'arco della loro breve esistenza non sono riusciti a lasciare un segno tangibile nell'età dorata.
Richiami concreti ai Jethro Tull ed impennate Banco sono le impressioni più immediate all'ascolto di DNA, peraltro contenente la dignitosa Suite per il signor K che aveva il pregio di mettere in mostra le qualità del chitarrista Bianchini, mentre gli altri componenti sfoggiavano la buona tecnica della media del tempo ma senza impressionare particolarmente. Il problema principale del disco purtroppo riguarda la facciata B, di una inesorabile bassa qualità fra banalissima acustica e pseudo jazz senza alcuna fantasia.
Neppure col disco successivo, a cui partecipò persino Battiato, riuscirono a combinare granchè.

lunedì 14 gennaio 2013

Joy Division - Preston 28 February 1980 (1999)

Prova di forza e disperazione, il sudore di un fine-inverno a Preston, la precarietà nel poter mettere in scena la propria grandezza nonostante il notevole rodaggio sul groppone, la vigilia di un giorno bisestile immortalata e consegnata ai posteri. 
Chissà cosa pensarono i presenti; di certo non viene ricordato come il miglior concerto in assoluto, gli errori non mancano ma facevano parte del glorioso pacchetto. Hook che a metà di Twenty four hours scompare nel nulla, le 3-4 stecche di Sumner, l'attacco incartato di Morris in Disorder, diventano, per chi vuole ancora bene ai JD, quasi highlights.
Quelli veri invece riferiscono della versione bozza di The eternal, 9 minuti di gotico nebbioso-vaporoso ai limiti dell'ambient, una devastante Colony e una grande versione di Warsaw, che nel suo ritmo rallentato trovava una nuova collocazione e la prova trascinante di Curtis, una delle migliori ch'io ricordi di aver udito.

domenica 13 gennaio 2013

Jon Spencer Blues Explosion - Jon Spencer Blues Explosion (1992)

Residuato nostalgico dei tempi di vacche magre: 16-17 anni fa comprai questo disco in cassetta (!) per pochissime migliaia di lire, nonostante all'epoca fossi tutt'altro che entusiasta di Jon Spencer. C'è stato un momento, a metà anni '90, in cui era così pompato (persino i miei adorati speaker di Planet Rock lo incensavano) che mi sfiorava l'antipatia, ma non era solo quello: le mie orecchie ancora presissime da grunge, indie ed alternative sopportavano a fatica questi grezzi deliri punk-garage-blues.
A vent'anni di distanza, cosa resta di questo primo album omonimo? Venti, brevi sgraziate tracce che obiettivamente si farebbe anche un po' fatica a rivalutare, però....ora riesco a coglierne lo spirito divertito e dissacrante che la seriosità del post-Cobain opprimeva un po', nonchè l'approccio strumentalmente animalesco-primitivo che rendeva tutto così grottesco. Alcuni pezzi poi sono quasi irresistibili: Chicken Walk, What to do, Eliza Jane, Write a song.
Soltanto una cosa chiedo: che non venga tirato in ballo il nome di Don Van Vliet. Sarebbe una bestemmia.

venerdì 11 gennaio 2013

Jodis - Secret House (2009)

Come lasciato intendere sul suo sito all'atto dell'annuncio, Plotkin decretò la fine dei Khanate a causa dell'inaffidabilità di Dubin e di O'Malley. Ma la grande ispirazione che li aveva generati era ancora attiva, e così con Wyskida ha varato il progetto Jodis integrando Turner, il frontman degli Isis all'orlo dello scioglimento.
Jodis prosegue con abnegazione la ricerca ritmica dell'ultra-doom originale ma la spoglia di ogni pesantezza e ne costituisce una versione mistica. Grande sorpresa, al primo ascolto. Grande piacere, dopo decine e decine di ascolti. Un'altro capolavoro.
Il silenzio e i riverberi ora hanno un accezione quasi celestiale. Nei primi due titoli, Ascent e Continents, Turner esordisce con un tono da canto gregoriano che conferisce la levitazione mirata. Plotkin fornisce note parche e rarefatte di chitarra appena appena increspata, Wyskida se ne sta a tramare nel sottofondo, emergendo con rullate primordiali proprio quando uno penserebbe che non prende parte alla seduta.
E' un'ultra-slow-core riflessivo-esistenziale quello di Follow the dogs, che sublima verso altre stratosfere con Little beast, Waning e si polverizza sul drone agitato del finale di Slivers.
Unica eccezione, la title track che fa salire i toni e vede Turner al growl controllato. A pensarci bene, Jodis non ha molto a che vedere con Khanate a parte le (non)ritmiche. E' un entità che, mentre la si suona, sembra far levitare la stanza. Un grandissimo proseguio, come peraltro confermato dalla recente replica di Black Curtain.

giovedì 10 gennaio 2013

Jethro Tull - A passion play (1973)

Il disco forse meno amato dell'epoca gloriosa dei Tull, nonchè ridimensionato addirittura dallo stesso Anderson che in un intervista di parecchi anni fa lo tacciava di mancato sense of humour.
Bah. A me Thick as a brick è sempre sembrato pretenzioso e un po' troppo pomposo, mentre A passion play rappresenta un ascolto più complicato, più progressive nel senso stretto del termine ma che alla lunga riserva più sorprese. Non nel teatrino recitato che sta all'inizio della seconda parte, ma nelle sequenze intricate e laboriose della composizione.
Diversi sono i momenti da ricordare, anche se ci vogliono svariati ascolti per l'appropriata comprensione del concept. In fondo il giudizio su A passion play è condizionato alla considerazione generale che si ha dei Jethro Tull: chi ama Aqualung si può confondere e restare parzialmente deluso. Io invece amo Heavy Horses e quindi lo apprezzo.


mercoledì 9 gennaio 2013

Jesus Lizard - Down (1994)

Ultima perla per la T&G prima dell'approdo a major, Down viene generalmente giudicato come l'anello debole dei dischi indipendenti, e forse soltanto a causa di certe aperture melodiche ed un sound meno cruento. Prova ne era Fly on the wall, discreto successo indipendente che feceva il paio con Puss, che un anno prima aveva spartito il famoso singoletto splittato coi Nirvana.
Secondo me invece è persino meglio di Liar, anche perchè Steve Albini aveva capito che serviva una registrazione più aperta che privilegiasse le dinamiche implacabili del trio. Così pezzi memorabili come Destroy before reading, Horse, Countless backs of sad losers, The best parts scorrono in maniera avvincente e trasudano macabro divertimento, con un Denison sbilanciato sorprendentemente verso il jazz e il blues. Una direzione che verrà ulteriormente approfondita nei dischi successivi, che seppur meno incisivi, non saranno mai meno che sufficienti. 
Con buona pace del guastafeste Yow.

martedì 8 gennaio 2013

Jesu - Conqueror (2007)

Una spanna sotto il debutto eponimo, Conqueror perpetrava il delitto con una maggior iniezione di melodia. 
Se l'impatto è di conseguenza meno tortuoso (le tastiere fanno da contrappunto in diversi pezzi, con la comparsa addirittura del vibrafono in un paio), la trovata splende ancora di magnificenza e rude solennità per quasi tutto il disco. Il cui apice è rappresentato dai 10 minuti di Weightless & Horizontal, ma vale la pena citare anche Old Year, Transfigure e Medicine.
Sembra che siano passati 50 anni dai Godflesh, tanto è l'ottimismo che si respira.

lunedì 7 gennaio 2013

Jennifer Gentle ‎- Funny Creatures Lane (2002)

Un vulcano di radiosità e gioia di vivere quella che non è soltanto psichedelia, ma semplicemente buona musica. Un passo importante verso il riconoscimento internazionale per Fasolo e compagnia, a suon di vintagismi e ottime, ottime canzoni nel senso classico.
Perchè in fondo il Barrettismo era solo un punto di partenza, e non è che pesasse più di tanto. Il lavoro certosino sugli arrangiamenti esalta il contesto, a costo di puntate sul vaudeville o sul rumorismo, sia quando si vada decisi e vigorosi (le gemme My memories book e The shimmering ghost) che si trascenda in uno stato quasi zen (Wondermarsh, Floating Fraulein). Ah, per tacere di istanti sparsi quasi Arthur Lee.
Il passato a tutti i costi, i tardi sixties come genuino strumento di trasmissione della propria espressività: raramente il vintagismo è stato così godevole negli anni zero.

domenica 6 gennaio 2013

Peter Jefferies - The Last Great Challenge in a Dull World (1991)

Dopo una carriera decennale in due gruppi col fratello (escludendo l'outing art-freak con Jono Lonie), finalmente il grande Jefferies si lanciò nella sua personale avventura e lo fece subito con un colpo secco a pieno dal titolo programmatico, ovvero l'ultima grande sfida in un mondo noioso. 
No, per fortuna era soltanto la prima delle sue sfide. Un album che vive di ambivalenze e di ambiguità, grazie al suo modo anticonvenzionale di suonare il piano, alle psico-ballad austere, alle sperimentazioni ardite, e alle ultra-abrasive composizioni a base di chitarra.
Ciò che colpisce ancora oggi è che l'urgenza espressiva di Jefferies sapeva farsi largo in tutte queste varianti con fare sornione, quasi distaccato (il timbro vocale, che resta livellato su frequenze glaciali). Ed anche l'emozione di sentirsi avvolti nelle sue delicate tavolozze piano+voce come Neither do I, Listening in, On an unknown beach, o nell'angosciosa The fate of the human carbine, che qualche anno dopo verrà tributata da Cat Power.
Risoluto.


giovedì 3 gennaio 2013

Jean Michel Jarre - Les Granges Brûlées (1973)

Non conosco praticamente nulla di Jarre (lo so, dovrei perlomeno sentire uno dei suoi dischi), e ho voluto dedicarmi un attimo a questa colonna sonora soltanto perchè PS l'ha definita una influenza per Ok Computer dei Radiohead.
All'epoca il giovane Jarre era già uno specialista del synth, una novità per quegli anni (lo fu anche per Dark Side of the moon, si è detto), ed il film, che aveva Delon fra i protagonisti, finì per dare notevole visibilità a colui che allora era semplicemente un compositore di colonne sonore, promettente o no che fosse.
Detto questo, potrei permettermi di dire che più che i Radiohead Les Granges Brûlées ha influenzato i Muse, dato che il motivo portante, intercalato ad intervalli più o meno regolari, è una nenia in stile melodrammatico non troppo memorabile, mentre il resto si muove fra arie meditative e scherzetti vaudeville-futuristici di dubbio gusto.
Quindi, considerando anche la funzionalità del contenuto e l'uso massiccio dei synth, si può passare oltre.
Buon anno.