E se ne andarono così, lasciando un vuoto pneumatico che molto difficilmente sarà occupabile. Clean hands go foul parla di un episodio n. 5 che non arrivò mai, registrato poco prima dello scioglimento e rilasciato postumo.
Parla di un suono più espanso rispetto ai supremi capolavori, principalmente a causa di O'Malley, che invece di restare compatto come il granito si lascia andare in feedbacks tremebondi e mega-droni lancinanti. L'insieme ne subisce le conseguenze e pertanto s'intuisce come sarebbe potuto evolversi il futuro del poker d'assi; meno rabbrividente ed eroso da agenti atmosferici come lava e lapilli.
La formula-formula era stata spiattellata e noi eravamo rimasti senza parole: giocoforza occorreva girare l'angolo e vedere cosa succedeva. In Wings from spine e In that corner sono le frustate di Wyksida e Plotkin a reggere le debordanti folate di delirio del chitarrista, mentre Dubin fa il suo stridulo e terrorifico dovere. Gli argini sono ormai distrutti, e Clean my heart è un delta di droni incontrollabile.
Diverso il discorso per Every god damn thing. 32 minuti sono tanti e un editing più efficace avrebbe beneficiato. Ma se c'era da mettere una pietra tombale e sconvolgere per l'ultima volta, c'era un motivo per cui mettere un mega-mattone di cui più della metà del tempo è costituito da silenzio e/o emissioni quasi impercettibili, e l'altra metà una serie di sibili tremendamente inquietante.
A tre minuti dalla fine, inaspettata, arriva una breve eruzione afasica delle loro che si stampa sugli speaker. Khanate è morto, viva Khanate. Grazie.
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