Ancora una volta Plotkin, e sempre grande musica di estremo confine nel suo decennio di assoluto splendore artistico. Questa volta, per Khlyst, in compagnia di una signora norvegese, Runhild Gammelsæter, che quand'è in primo piano emette growls agghiaccianti e acutizza stridula, come in un ipotetico duello con Alan Dubin.
Scherzi del destino: nel 1994 la vocalist si trovava a Washington per studio e si aggregò per neanche due mesi ai Thorr's Hammer con i giovani Anderson e O'Malley, prima di tornarsene a casa e diventare una biologa.
Chaos is my name è un inferno eclettico diviso in gironi numerici romani, realizzato col prezioso contributo del fido Wyksida in alcuni pezzi. In I, III, V, VII si può udire una specie assurda di math-grind / free-jazz-death convulso ed elastico che fagocita tutto ciò che incontra, con Plotkin impazzito a svisare l'elettrica senza ritegno (come un Creed dell'oltretomba, tanto per dirne una).
Al contrario, i capitoli di numero pari invece sono delle esibizioni di dark-ambient controllata che nascondono chissà quali orrori, lasciati nel sottofondo non udibile. La Gammelsæter si intra-sente in lontananza, mentre lo spettrale tema ricorrente lascia intendere che quella porta è meglio lasciarla chiusa.
Unica eccezione al percorso, il capolavoro finale VIII che prepetra gli effetti e le distorsioni di Plotkin, le scudisciate di Wyksida e le vocalità, questa volta pure, manipolate e moltiplicate, fino a raggiungere un livello di pathos da pelle d'oca.
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