mercoledì 27 ottobre 2010

Red Sparowes - Live in Scalo San Donato, Bologna 26-10-2010

Un evento imprescindibile per me, fanatico inguaribile del quintetto losangeleno. Ancor di più sulla scia dell'ultimo, splendido The Fear Is Excruciating, But Therein Lies the Answer uscito qualche mese fa, che me li ha confermati alla grande come veicolo di coscienza ed emozioni siderali.
Così ci rechiamo in quel di Bologna e ci incamminiamo verso l'interno del cortile che circonda il Locomotiv, salvo poi accorgersi che è tutto buio e ben sprangato. Ben presto scopriamo che il concerto è stato spostato in un luogo a me del tutto sconosciuto, lo scalo San Donato in Via Larga. Saliamo la scalinata in muratura ed entriamo in un bar dove dentro fumano tutti; sembra di essere tornati indietro di 30 anni, in uno di quei circoli arci scarni e minimali. Ma al momento di approcciare la sala concerto, la scoperta è agghiacciante: uno scantinato ammuffito e strettissimo, con tanto di colonna portante ad 1/3 della lunghezza del palco che è alto ben 10 cm. In poche parole, un buco che si meriterebbe al massimo una cover band. Più tardi, parlando con Greg Burns, scoprirò che all'ultimo momento sono stati dirottati lì a causa di una sanzione contro il Locomotiv che evidentemente nella sua ultima serata aveva sforato o qualcosa del genere.
Comunque, arriviamo che le prime 3-4 file a destra della colonna sono già belle occupate, e con una seria preoccupazione riguardo all'acustica che promette alquanto male. Neanche il tempo di somatizzare la delusione che un distinto signore brizzolato si siede e inizia a suonare da solo, con un banjo effettato in mano. Sarà una lunga (almeno 20 minuti) elucubrazione dai toni misticheggianti-tragici, in un unica tonalità, abbastanza noiosa a mio avviso a parte gli ultimi minuti in cui tale
Paul Labrecque (che nel frattempo aveva imbracciato una Gibson) trova un wall of sound davvero interessante, di una potenza quasi atomica.
Passiamo oltre ed arrivano i beniamini; Meyer sulla destra, Arahood a sinistra, al centro come frontman c'è Burns, Clifford dietro e la Rundle che viene impietosamente coperta dalla colonna portante. Il mio rimpianto maggiore resta quello di non aver avuto nessuna possibilità di fare una foto decente, ma appena attaccano Alone and unaware inizia la meraviglia, che durerà circa 80 minuti e sarà inarrestabile.
Un set che pesca equalmente da tutti i loro prodotti: la mia preferita in assoluto dall'ultimo, Hail of bombs, è la seconda in scaletta e sono già in estasi. Nonostante i nostri timori, l'acustica è buona (forse più a causa del riempimento del tugurio piuttosto che a motivi strutturali) e i suoni sono a dir poco perfetti, cosa non sempre semplice quando si coinvolgono 3 chitarre. I fasci di luce irradiati, il senso di dramma trasognato che regna costante, le cavalcate eclettiche e le meditazioni accecanti vengono fuori perfettamente. Restiamo soprattutto impressionati dal basso profondo e poliedrico di un grande Burns, nonchè dalla maestria di Clifford, batterista dalla storia già lunga ed importante. Non fanno un paio di miei pallini che avrei desiderato tantissimo, ma chi se ne frega.
Mentre smontano il palco, faccio due chiacchiere con Burns. Gli chiedo per favore di non farmi aspettare altri 4 anni per un nuovo album... Fuori la serata bolognese è fredda, ma ogni rosso cuore continua a splendere verso il rosso sole.

martedì 26 ottobre 2010

Hood - Outside Closer (2005)

Sembra la classica storia complicata che coinvolge quei gruppi dall'equilibrio così fragile, che fanno 1/2 capolavori e poi si perdono, oppure scelgono di scomparire. Ora, sono passati 5 anni da Outside closer e spero sinceramente che i fratelli Adams tornino a produrre qualcosa, vista la crescita esponenziale dalle prime produzioni, passando quella prova generale che fu Cold House e arrivando a questo splendido, ultimo parto.
Raffinatezza è il termine giusto. Un continuum di ispirazione estatica, un flusso levitante. Smarcatisi finalmente dagli scomodi paragoni, i bros realizzavano quest'opera di arrangiamenti sublimi e splendide composizioni. Gli inserti elettronici venivano confinati sempre più e gli strumenti acustici prendevano il sopravvento, con archi in rilievo. Ed anche il lavoro corale, curatissimo, evanescente nella guida all'escursione naturistica che è Outside Closer.
Un must.

lunedì 25 ottobre 2010

One Dimensional Man - Live in Bronson, 23-10-2010

Devo dire la verità, quando erano in attività non li ho mai considerati molto. Sì, molto bravi, ma un po' derivativi dal filone noise newyorkese degli anni '90, evidentemente non li avevo sentiti con attenzione. Eppure lo show di sabato sera ha mostrato un power-trio fortissimo, fatto che evidenzia come la resa live dei veneti sia molto superiore alla dimensione studio (spero di non essere l'unico a pensarlo).

Un set generoso, di oltre un ora e mezza, in cui gli ODM ripassano un po' tutto il repertorio. Indubbiamente Capovilla è leader carismatico e di grande statura: canta in maniera molto diversa rispetto al Teatro Degli Orrori, e a mio avviso ne esce meglio. Una voce catramosa e potente e il Rickenbacker ringhiante a tracolla, e la maggior parte degli occhi sono per lui. Dall'altro lato un Favero concentratissimo e quasi chirurgico, di tanto in tanto interviene al microfono anche lui (avrebbe dovuto farlo anche più spesso, sentito il tono alto e schizzato!). Al centro, il nuovo batterista Bottigliero, molto bravo anche lui.

Capovilla, sudato marcio, si ferma un paio di volte per un breve monologo di sfondo social-politico, interventi comunque molto equilibrati e posati. Per il resto è un grondare torrenziale di ottimo indie-noise dai tratti blues-cavernosi, seguito con entusiasmo da un pubblico non delle grandi occasioni.
Sempre meglio tardi che mai per me, per valutarli positivamente....

venerdì 22 ottobre 2010

Holy Fuck - Latin (2010)

Oltre ad un pubblico naturale, chi, come me, ha trovato gli ultimi Trans Am un po' stanchini e senza tante nuove idee, non faticherà a farsi piacere questo travolgente terzo disco dei canadesi, che per me è una delle piccole rivelazioni dell'anno in corso (eh, non li avevo mai sentiti prima).
Protagonisti sono una sezione ritmica possente e tanto umana quanto robotica + una coppia di effettisti intenti a confezionare orde soniche di tutti i tipi, pare senza ausilio alcuno di basi nè computer. Ed in questo sta forse il segreto del funzionamento di Latin: l'elettronica ha un sapore vintagistico farraginoso che viene fuori alla grande (eh, le porte del cosmo che stavano lassù in Germania...), ma la potentissima ritmica è una zavorra fra techno, funk e space-rock.
E' un disco senza tregua; nonostante la natura puramente didascalica del progetto (oltre ad essere del tutto strumentale, i pezzi si muovono in orizzontale senza cambi di modulazione), ci sono anche soluzioni armoniche di grande gusto, come il moog di Latin America, il bozzetto quasi fiabesco di Stay Lit, le giravolte space di Silva Grimes, o il vortice math-ambient di Stilettos.
Fondamentalmente nulla di nuovissimo, ma fatto dannatamente bene. Un peccato che il loro tour del mese prossimo non sfiori nemmeno lo stivale.

giovedì 21 ottobre 2010

Henry Cow - Unrest (1974)

Doveva essere un bello spettacolo vederli dal vivo; tutti alti professori del loro strumento (ma anche più di uno), impegnati in partiture difficili e complesse, dovevano essere super-interessanti da seguire.
Dico così perchè proprio non riesco ad appassionarmi ai loro dischi (l'unica cosa che mi ha preso veramente è un pezzo live con la Krause, Beautiful as the moon...), nonostante siano vere e proprie opere, e non so con quanto livello di impro dentro.
Qui non c'è più neanche l'ombra di jazz. C'è qualche vago spunto zappiano in qua e in là, ma per il resto gli Henry Cow erano decisamente unici. Le 10 composizioni sono talmente slegate e arzigogolate che è impossibile mantenere un filo logico per seguirle.
Forse sono ancora troppo avanti per me, magari un giorno ci arriverò o forse non potrò mai giungerci, è troppo tardi?

mercoledì 20 ottobre 2010

Helios - Unreleased Vol. 1 (2009)

Quale miglior azione, in attesa del successore del fantastico Caesura, se non quella di pubblicare 2 antologie di inediti e un live sulla nuova label di proprietà di Kenniff? Escludendo il progettino Goldmund, di gran lunga inferiore ad Helios, è già un paio d'anni abbondanti che non giungono news dal premiato laboratorio di elettronica artigianale dell'occhialuto portlandiano. Ma se proprio non si vuole stare a sottilizzare, Unreleased vol. 1 (e il più recente Unleft) può collocarsi quasi all'altezza dei prodotti maggiori. Dieci tracce per il grande cantautore ambientale, che pur trattandosi di scaffalature conducono in egual modo alla sublimazione dei sensi e del piacere auricolare come da tradizione ormai consolidata.
Convilium apre con un tuffo nella ambient più puramente anni '90, con un pigro beat e ondate di synth patinate. Ma già con la chitarra e il disincanto melanconico di Cross the ocean si riconosce la mano e la mente di Kenniff, che confeziona qualche vertice emotivo dei suoi come Bounce dive o South Tree.
Altrove c'è qualche spunto di immobilismo cosmico (Jaguar Sun, Every hair in your head), caracollanti trips di lucida cinematografia (Friedel, Distance, Carry with us).
Avercene, degli scarti così...Gas pregiato.

Hazel - Toreador of love (1993)

Ma quant'è invecchiato il college-rock americano dei primi anni '90?
Mi trovo a porre la domanda durante gli ascolti di quelle cose, che sono rarissimi ed ormai non lasciano quasi più tracce. Con questo non sono qui a bocciare in toto questi 4 ragazzi di Portland (in realtà un power-trio + un ballerino, quello lungocrinito e con la barba) che sono senza dubbio un nome minore del movimento, sul versante più energetico, mai colluso col grunge, semmai più vicino al punk a tratti.
Le due voci (il chitarrista Krebs e la batterista Bleyle) armonizzano costantemente, a volte si sente lo sforzo di emulare i Pixies, ovviamente senza la brillantezza nè il songwriting di Francis. Eppure, eppure; il tempo avrà anche ridimensionato gli Hazel (che fra l'altro erano sotto Sub Pop, cosa di indubbio prestigio ai tempi), ma non si può non riconoscere che i ragazzi avevano onesta freschezza ed entusiasmo da vendere. Pazienza poi se i risultati non erano sempre esaltanti, ci si può sempre consolare con l'ultimo pezzo in scaletta che sarebbe d'obbligo includere in una qualsiasi ipotetica compilation del settore, quella Truly che regala 6 minuti di magiche emozioni fra delicatezze e deflagrazioni.

lunedì 18 ottobre 2010

Have A Nice Life - Voids (2009)

In un interessante intervista uno dei due HANL, Barrett, ha dichiarato che è già abbastanza percepibile la pressione dovuta al successo sotterraneo di Deathconsciousness, mentre sono al lavoro per fare un disco nuovo. Non male per due ragazzi che studiano e lavorano al tempo stesso (la vecchia teoria albiniana che ritorna e che condivido alla grande, ma è un altro discorso), e che stando alle parole di Barrett tenteranno di prendere altre strade soniche. La superflua raccomandazione è: prendetevela con calma, basta che ci diate un altra perla di post-dark vibrante ed efferato.
Intanto, sul finire dell'anno scorso è uscito quest'antipastino (seguito poi da uno nuovo di zecca, l'EP Time of land) che è poi una miniatura del disco madre, in quanto è diviso in due EP distinti con sottotitoli. Voids è di fatto un prodotto di scarti di lavorazione: il primo è composto da 5 demos ancora più grezzi degli originali che poi sono andati a confluire su Deathconsciousness. E la cosa più impressionante che mi sovviene è che gli HANL in un batter d'occhio sono già diventati un tale culto che persino i demos primitivi sono un ascolto obbligato, per udire la differenza con pezzi consumati fino all'ossessione. Poco da dire in merito.
Logico comunque che la maggiore attenzione sia riservata alla seconda cinquina, che sfodera delle outtakes vere e proprie. L'obiettivo sembra essere puntato su una maggior grinta e compattezza, con pezzi più aggressivi e lontani dall'arrendevole perdizione su cui era focalizzato il disco. Lo strumentale Human Error appare abbastanza debitore a certe atmosfere primi '80, seppur realizzato dannatamente bene, ma lo possiamo considerare l'unico neo (non certo esteticamente parlando). Trespasser W infatti sbuca dietro l'angolo con un humus joydivisioniano irresistibile, con un escalation da brividi nella seconda parte. Defenstration Song continua imperterrito nel recupero storico, ma c'è da dire che quando l'ispirazione è a livelli così alti non c'è neanche il pericolo di parlare di plagio.
Con Sisyphus si torna agli umidi sottoboschi di albe torbide, con una ballad tenue sporcata in escalation fino al wall of sound che garantisce un impetuoso effetto shoe-gothic-gaze. Infine i 13 minuti di Destinos, autentico viaggio psicologico nei meandri di un'introspezione devastata.
Già indispensabili.

Micky Hart - At the Edge (1990)

Percussionista dei primi Grateful Dead, ha costruito un intera carriera sulla ricerca etnica un po' di tutti i continenti. Che poi è uno di quei (tanti) generi che non ho mai voluto approfondire per pigrizia, ma che di sicuro meriterebbe ascolti più accurati e numerosi. D'altra parte At the edge è un'altro recupero dalle meravigliose Mental Hours di Planet Rock, e quindi occupa un posto speciale già a prescindere.
E riascoltandolo ora, ne carpisco ancora la magia. Hart creava panorami esotici e ricchi di fascino, di cui ovviamente le sue virtuose percussioni occupavano il ruolo principale. Ma è fin troppo chiaro che il tentacolare newyorkese sapeva dare anche un sapiente tocco musicale: la splendida Sky water, ad esempio, vive di colpi modulati eterei e di maestosa contemplazione. I flautini e qualche tocco di synth donano grande respiro alla vivacissima Lonesome hero. Anche quando i toni sono più seriosi (Cougar run), Hart dà l'idea di divertirsi un mondo e di condividere l'allegria di antichi popoli tribali. The eliminators è resa celestiale dall'emulatore vocal-synth, ed ha quasi parvenze di dub fantasmatico senza basso. In chiusura, la mosca bianca del disco, quel Pigs in space che è un esperimento ipnotico di vocalismo minimale astratto.
Rilassante anche se movimentato.

domenica 17 ottobre 2010

Harmonia - Music von Harmonia (1974)

Watussi inizia con un minimalismo elettronico che ha del giocoso, specialmente per i synth, ma sotto c'è la sagoma chitarristica di un grande protagonista della stagione teutonica che genera folate di fuoco.
Gli Harmonia erano un incontro di grande levatura: Rother, momentaneamente separatosi da Neu!, e la coppia Rodelius-Moebius, ovvero Cluster. Durò solo un paio d'anni ma questo Music resta come forte capitello portante. Dopo un intro tipicamente siderale, Sehr kosmich attiva i generatori ritmici in sottofondo e trasfigura in una splendida polverizzazione astrochimica. Imponente Sonnenschein, tribale reiterazione di figure marziali.
Dino è un po' la versione angelica dei Neu!, con Rother a suo agio grazie alle sovrapposizioni. Orhwurm gira bruscamente la medaglia, col suo rumorismo angoscioso da black-out.
Veterano (davvero curiosa questa storia dei titoli in italiano) è piuttosto kratwerkiana, se non fosse sempre per Rother che gioca a fare un po' il Veit dei Popol Vuh). La chiusura è riservata ad un altra epica escursione, Hausmusik, in tre parti: prima figure di piano in incrocio, poi ritmica meccanica e stratificazioni di synth, infine di nuovo piano in rallentamento fino a sfumare.
Insomma, un gran bel calderone di suoni e colori per questo supergruppo che non viene troppo spesso menzionato nei bignami della grande stagione tedesca.

venerdì 15 ottobre 2010

Peter Hammill - And close as this (1986)

L'uomo da solo, con le tastiere, a creare 8 saggi di maturità, alla soglia dei 40 anni. And close as this fu l'intro della collana "dischi in perfetta solitudine", filone in cui si ritroverà molto spesso da metà anni '90 in avanti. Ed è spesso segno della qualità del songwriting, che viene esaltato in piena regola dalla nudità estrema.
Ed è soprattutto l'ambiente che adotterà per i suoi live, pervenendo al capolavoro Typical qualche anno dopo (data di esecuzione). Con questi 8 saggi PH continua ad esplorare i subconsci della sua arte sublime: ovviamente l'impianto rende tutto molto soft, ma le inquietudini di rigore non mancano mai.
Innanzitutto, la meraviglia di Too many of my yesterdays, uno dei vertici della produzione globale, su cui non c'è bisogno di dire molto. Le arie più serene appartengono a Faith, Beside the one you love, Sleep now. Le teatralità oscure di Empire of delights, Other old clitches. La frizzante Confidence è una mini-operetta con tanto di synth. Silver è un altro vertice di imponenza, lunga ed articolata escursione in cui l'uomo sale con la voce fino a ruggire gagliardo, che potrebbe anche essere sbucata fuori dalle pietre miliari del 1973-1974.
In definitiva, il miglior disco degli anni '80 del maestro.

mercoledì 13 ottobre 2010

Hair Police - Certainty of swarms (2008)

Realtà estremamente interessante della scena americana free-noise, gli HP viaggiano nelle melmose paludi rumoristiche da quasi 10 anni e si distinguono per un approccio alquanto terroristico ma non per questo privo di concettualità.
Sento parlare di analogie col punk, per istinto bellicoso e spirito iconoclastico. Il count-off a 4 di charleston che apre Strict è forse l'unica cosa punk che esiste in questo disco, sinceramente. Le voci deformate in maniera mostro-robotica, il fracasso infernale della batteria, i muri sonici dei lavaggi gastrico-chitarristici e l'elettronica da attacco talebano sono i principali componenti dell'HP sound, ma le soluzioni sono diverse e come spesso succede in questo tipo di delicatezze, sono da cogliere molto attentamente.
Dopo la sfuriata tremebonda ad alta velocità dell'opening.track, Intrinsic to the execution ferma tutto con una marcia funerea fatta di feedback, rimbombi sordi e deliri sparsi. L'incubo continua con Paralysis simulacrum, le cui voci ricordano vagamente il Creed anfetaminizzato di Half machine lip moves dei Chrome, sopra drones fischianti e percussioni lattoneristiche di recupero.
Appare chiara ora la sorgente madre di questi sbirri tricologici: il vecchio, glorioso e poverissimo industrial di fine anni '70-inizio '80, filtrato attraverso il japa-noise degli anni '90 e assimilato (per non dire normalizzato) dai cugini Wolf Eyes negli ultimi anni. L'incubo grattugiato di Mangled earth, il festival da catena di montaggio di On a hinge e gli ultimi mostri di Freezing alone quadrano il cerchio alla perfezione; Certainty non stanca neanche dopo diversi ascolti. La bravura di Connelly, Beatty e Tremaine consiste nello sfruttare le combinazioni di suono a tutto tondo e con fantasia, sapendo equilibrare gli eccessi naturali di una macchina così spaventosa (ma solo ad un approccio superficiale).
Capelli dritti ed elettrificati, ammanettati dalle scosse.

martedì 12 ottobre 2010

Guapo - Five Suns (2004)

Ed ecco il gruppo inglese che meglio rappresenta la naturale traslazione anni zero dei Magma, ovvero la sua versione più priva di orpelli, esente da operismi e/o tendenze teatrali e filtrata dai clangori moderni del noise e del math-rock. Sulla carta una gran bella sfida, non certo facile da mettere in atto. L'ensemble di Vander, pur con tutte le proprie manie di grandezza e megalomanie fantascentifiche, ebbe il merito di coniare una forma unica di jazz-prog che esulava da qualsiasi altra esperienza passata. Da loro i londinesi ereditano l'inquietante liquidità dal piano elettrico di O'Sullivan, le ritmiche elastiche e vorticose del batterista Smith, e una costante tendenza alla drammaturgia epica. Il basso pesante e metallico di Thompson e certe esplosioni di ferocia invece rimandano spesso ai Melvins, quando non addirittura alle pagine più fuzzate dell'Hopper dei Soft Machine. Le robuste iniezioni di mellotron invece li tengono più immersi nell'età dell'oro progressiva.
Five Suns è una suite complessa e dilatata in 5 parti, di impatto a tratti horrorifico ed imponente, con qualche iperbole doom-metal che rende il piatto ancora più rischioso ed in pieno bilico. Denso di partiture dalla grande competenza tecnica dei tre, il Guapo-sound sa elevarsi verso lidi pastorali e poi cadere pesantemente a terra per macinare potenza mefistotelica.
Gli accostamenti apparentemente improbabili fruttano grandi risultati anche nei 2 pezzi a corredo della suite principale, Mictlan e Topan, in particolare quest'ultima è una trasfigurazione di jazz geometrico della più bell'acqua.
Titanici.

giovedì 7 ottobre 2010

Grifters - Rarities (2009)

Assemblato da qualche fan affiliato al benemerito What.Cd, Rarities è quella compilation che i memphisiani non hanno mai realizzato in vita e che mette un po' d'ordine nelle frattaglie sparse fra singoli, splits e various artists a cui hanno partecipato nel loro quadriennio di gloria, 1992-1995.
In altri 3 post qui ho decantato la mia passione per il quartetto, che resta per me una delle realtà alternative più ignorate e ingiustamente dimenticate. Il tempo non indebolisce la forza debosciata, la sporcizia lo-fi intrisa di noise e melodie epidermiche, di scossoni tellurici e fasi statiche, il tutto nel nome di una reale forma di blues deviato e moderno. Dal 1992, epoca del disastrato esordio So happy together, una pesantissima Under the ground colata lavica di fuzz e distorsioni maniacali. Poi ci sono 3 pezzi da Crappin' you negative, estrapolati in versioni differenziate da altrettante compilation di indies oscure. Look what you've down to me, power-ballad senza batteria, tesissima ed intensa. I'm drunk compatto blocco granitico di punk-blues. Dildozer e Corolla hoist altri blues-noise fratturati e dissonanti.
Ma la dimostrazione di creatività si vede anche in altri campi: Daydream riot inizia come un pop-core alla Replacements per poi effettuare una virata cosmica davvero inaspettata. E del 1995 è forse uno dei pezzi migliori che hanno scritto: Empty yard è una inquietante meditazione per beat simil-meccanico, pianoforte e violoncello ad affiancare l'impianto garantista delle chitarre di Taylor, Shouse e Lamkins.
Rarities è ovviamente indirizzato ai fans, oltretutto i Grifters erano profondamente anni '90 e non potrebbero interessare a nessuno che non li abbia conosciuti ai tempi. Ma ci tengo a ribadire che il loro era onesto artigianato metropolitano di blues moderno.

martedì 5 ottobre 2010

Gregor Samsa - Rest (2008)

Facendo passi da gigante rispetto al pur delizioso 55:12, i virginiani sono pervenuti a questo piccolo capolavoro di musica...da camera. Perchè tale è, seppur le radici affondino nel post-rock romantico che aveva caratterizzato i primissimi lavori. Rest è un titolo programmatico d'intenzioni: è un riposo, in tutto e per tutto.
Sembra quasi di vivere in una dimensione parallela, sinfonica. Lo spazio dedicato agli archi e a tastiere anacronistiche tipo glockenspiel è enorme, ma la magia maggiore la si raggiunge quando i due vocalist, Bennett e la King, intonano i loro motivi educati con fare accorato e trasognato.
Sono poche le increspature in questo placidissimo lago di emozioni; quasi assenti le percussioni, i drone gentili e soffusi ci avvolgono in un silenzio che non è mai spettrale nè eccessivamente melanconico. Anzi, prevalgono i toni positivi, in un contesto in cui di solito lo spleen viene rilasciato a dosi massicce. Invece i GS distribuiscono ambienti sereni e arie ottimistiche, con una gentilezza che ha quasi del commovente.
Difficile individuare tracce in rilievo, forse la mia preferenza va per Pseudonyms e First mile last mile, che sono entrambe alla fine della scaletta: segno evidente che il disco si lascia ascoltare che è un piacere incondizionato, senza soste.
Delicatissimi e sublimi.

lunedì 4 ottobre 2010

Grateful Dead - Anthem of the sun (1968)

Ancor più di Live/Dead, il secondo albo dei GD contribuì a settare una volta per tutte le coordinate del suono west-coastiano allo stesso modo in cui nello stesso anno lo facevano i grandissimi Quicksilver di Happy Trails o i Jefferson Airplane di After bathing at Baxter's. Lunghissimo ed articolato, Anthem è in parte di studio e in altra dal vivo, ed ha una caratteristica costante che lo differenzia dagli altri dischi dei primi anni: non c'è nulla di folk o country, componente che mi ha sempre sinceramente annoiato (e dominante in American beauty e Workingman's dead) e che credo sia invecchiata molto di più rispetto alle jams saltellanti, vivaci e sballate qui presenti.
In cui la chitarra acrobatica di Garcia è soltanto la punta dell'iceberg; il vortice impetuoso di orchestrazioni è un impasto di coesione perfetta. Diventa complicato discernere i titoli in elenco, vista la soluzione di continuità delle jams che si estendono lunghissime ma mai estenuanti. Sicuramente il lato live aumenta la torrenzialità delle esecuzioni, con un climax viscerale in Alligator, 18 minuti in cui una inusitata variante jazz sopravanza frenetica (merito soprattuto del tentacolare batterista Kreutzmann) proseguendo con Caution e fino a polverizzarsi nel classico incubo di Feedback, un urlo di trip andato a male nella notte.
Inno al sole cocente della California, ad una psichedelia diversa. Autonoma.

sabato 2 ottobre 2010

Grant Lee Buffalo - Mighty Joe Moon (1994)

Dopo un debutto strabiliante come Fuzzy, non sarebbe stato facile per nessuno ripetersi allo stesso livello. Eppure a Phillips riuscì il miracolo e Mighty Joe Moon ripetè l'impresa con un prezioso carniere di songs che replicava quella magia elettro-acustica senza perdere un'oncia di lirismo.
E' noto a tutti che il rinascimento folk che sorse dalle ceneri del grunge ebbe anche i californiani come prime-movers, specialmente se s'intende il versante di riferimento neilyounghiano. E Phillips ai tempi aveva stoffa compositiva stratosferica. Il bassista Kimble s'incaricava ancora di una produzione agreste e calibrata al fine di esaltare questa dote, chè i GLB erano di fatto il veicolo discreto per il croonering del leader. Quindi, nessuna svolta o rivoluzioni, semplicemente alternanza fra scosse elettrice sulla scia del Jupiter and teardrop dell'esordio (qui impersonate in Lone star song, Drag, Demon called deception e Sing along), melanconie rurali di commovente bellezza, cioè i pezzi migliori: Mockingbirds e il chorus in falsetto, col violoncello austero. La meraviglia della title-track, una roba stellare da far venire la pelle d'oca. La lentezza trascinata di Lady godiva and me, con slide degna degli American Music Club. Happyness, un'altra roba da emozioni stupite. Il resto si muove su coordinate più rilassate, con una puntatina sul country, ma in generale con melodie più accessibili. Dopo MJM inizieranno a perdere smalto e pezzi (Kimble se ne andrà dopo il terzo), e Phillips proseguirà con una carriera solista non propriamente esaltante.
Ma durante il biennio 1993-1994 è stato senza meno uno dei migliori songwriter, e non solo americani.

venerdì 1 ottobre 2010

Grails - Burning off impurities (2007)

A sentire il disco ci sarebbe da immaginare 4 hippies sbucati chissà come direttamente dalla Germania degli anni '70, e invece scopro da foto che sono ragazzi dall'aspetto assolutamente ordinario, vestiti casual e dalle pettinature ordinate e corte. E tutto ciò è molto bello secondo me, segno del tempo che passa e gli stereotipi sono andati a farsi friggere, mentre l'ispirazione e la mediazione di quel decennio non muoiono mai.
Non so se il gruppo è ancora attivo: da un paio d'anni il talentuoso e tornitruante batterista Amos infatti milita negli Om, con mia somma soddisfazione per averlo visto all'opera all'inizio dell'anno. In ogni caso non è che i Grails siano qualcosa di sconvolgente, con tutto il rispetto per la loro attitudine: sono un mix di Ash Ra Tempel, Cul De Sac e musica indiana. Per carità, le sonorità sono bellissime e variopinte; a tratti sembra di essere in Tibet, ora sulle rive del Gange, ora nel Grand Canyon, però...In sostanza i Grails fanno jam-sessions senza un idea compositiva di fondo (in fondo anche i Cul De Sac hanno poco di composizione, ma in quanto a stile e classe sono imbattibili), facendo sfoggio della loro eccellente tecnica e creando soundscapes di notevole effetto, ma alla lunga tediano un pochetto.
Sono uno di quei gruppi che devono essere molto più interessanti dal vivo, quindi.

Godz - Contact high with the (1966)

Quest'estate ho letto il libro Guida ragionevole al frastuono più atroce di Lester Bangs, e inevitabilmente è scattata la molla della curiosità al riguardo delle bands che esaltava. Ora, l'idea che mi sono fatto di LB è che fosse quasi più scrittore/dissacratore che critico vero e proprio, ma questo è un altro discorso.
Ora, a ben 44 anni di distanza, occorre ammettere che i Godz sono stati senza dubbio degli apripista (basti solo pensare alle primissime produzioni di Will Oldham, nonchè un po' tutta la scena neo-folk-lo-fi che venne fuori negli anni '90), degli innovatori poveri ma ammirevoli, e che la Esp era una mecenate coraggiosissima, come scrissi già in occasione dei Cromagnon, che tre anni dopo fecero la versione tribal-rumoristica dei Godz.
In pratica, ciò che i venti minuti di Contact high offrivano non era molto diverso da ciò che poteva garantire uno scalcinato quartetto di buskers in un qualsiasi angolo di strada. Chitarre scordate, percussioni trovate, litanie debilitate, abbozzi folk-blues educati ma irrimediabilmente sfigurati dagli arrangiamenti bizzarri (a tratti esilaranti, visti i risultati canonicamente fallimentari degli strumenti auto-costruiti), il che fa pensare o a degli ubriaconi o per l'appunto, a degli stralunati buskers prelevati dalla strada e messi in uno studio.
Ma questo ad un'esame superficiale: a me sembra chiara l'operazione concettuale, al di là della tecnica pressochè inesistente o delle demenzialità diffuse (la lite fra felini in Turn on, i coretti stonati, i violini maltrattati e tante altre cosette). Basti ascoltare gli psycho-delirii inquietanti di Eleven e Squeak, o la cantilena arabeggiante di Na naaa per capire che i Godz avevano idee interessanti senza saper suonare. Per questo si sono comunque guadagnati un posto di nicchia come pionieri.