mercoledì 29 settembre 2010

Godspeed You Black Emperor - Yanqui Uxo (2002)

Diciamo la verità, c'è bisogno di un ritorno dei canadesi. Non che il ritorno al palco di quest'anno significhi necessariamente una capatina in studio, ma sarebbe bello. Ci sono stati numerosi tentativi di imitazione da quando, 7 anni fa, annunciavano uno stop, e ora potrebbe essere un ottimo momento per tornare a fare la voce grossa.
Di certo sono stati unici, e primi; nei 90 ci furono i Rachel's che senz'altro aprirono una via traversa alla musica da camera, ma restò abbastanza formale e non si sviluppò oltre una certa auto-referenzialità e freddezza. I GYBE invece hanno preso gli archi e le chitarre e ci hanno emozionato come pochi altri. Yanqui Uxo, loro ultimo prodotto, è il mio preferito. E' un lavoro più meditato dei precedenti; ci sono le accelerazioni, le pause e gli scossoni decisivi, ma mancano quelle esplosioni fragorosissime che li avevano fatti decollare verso forme rumoristiche di grande suggestione.
Qui ci sono 5 grandi escursioni, 5 soluzioni psico-drammatiche, 5 cinematicismi di enorme respiro. Il disorientamento sinfonico di 09-15-00, si divide fra la prima parte, escalation da brividi in stile, e la seconda, soffusa aria pastorale. I 20 minuti di Rockets fall on Rocket falls e i 30 in due parti di Motherfucker = redeemer sono ascensioni epiche che potrebbero andare avanti all'infinito: se esiste un concetto di progressive moderno, i canadesi qui lo sintetizzano alla grande.
Venite avanti, è l'ora del varco.

martedì 28 settembre 2010

Godheadsilo - Share the fantasy (1998)

Il canto del cigno del power-duo dakotiano, che fu un antesignano di una certa corrente che nel decennio successivo (ad esempio, Lightning Bolt) avrebbe avuto una maggiore risonanza. Nonostante un contratto con la Sub Pop, dopo Share the fantasy Kunka e Haugh scomparvero letteralmente nel nulla; soltanto il bassista tornerà con gli Enemy Mine, progetto a 4 mani con un Low (?) che frutterà soltanto un disco, peraltro abbastanza scarso.
Le direttive sono le solite: basso ipersaturo, batteria indemoniata, claustrofobia a go-go, voci filtrate e dilaniate. L'influenza dei Melvins è papabile in mattoni come Bunson over the janson o Goin' Commando, dalla quale però riescono a svicolare grazie a varianti space interessanti. Per il resto triturano tutto ciò che gli si presenta davanti come un bulldozer: hardcore furioso (Friend Island), grunge inacidito e cattivissimo (Relationshit, Nap attack), noise newyorkese (Time to feed the pythons e Home crap home, che ricorda i Cows), e persino uno slow-core come Braincloud. Ma come gli intermezzi lounge di Scientific supercake e le ipnosi di Skyward in triumph, anche qui il duo trova il modo di divagare sperimentando: il piano inquietante di Dan vs. fellow Dan, la seconda parte di You're fighting me now minimale elettronica alla stregua dei Trans Am più sottilini. Ed infine la rivelazione del lotto, la cover di In the air tonight, famoso successo di Phil Collins che qui viene trasfigurata in un incubo post-industriale con voci androidi e fendenti chitarristici.
Il silos era pieno, la missione fu compiuta.

lunedì 27 settembre 2010

God Is An Astronaut - The end of the beginning (2002)

Folgorante debutto per il trio irlandese, coniatore di una felice formula di rock strumentale evocativo ed emozionale, con forti innesti elettronici ma pur sempre immerso nella classica forma-song di durata non eccesiva. Proprio ora stanno uscendo col 5° disco e la formula forse denota qualche segno di stanchezza e ripetitività, ma perlomeno i primi tre sono stati esemplari nel saperla sfruttare al meglio.
Quello che mi sembra essere il punto di partenza fondamentale per l'ispirazione dei fratelli Kinsella sono i Cure, nella persona delle migliori melodie atmosferiche e malinconiche dello Smith adulto. Con la differenza però che le trame di chitarre e synth tengono banco, e la ritmica "umana" viene quasi sempre doppiata da un beat elettronico. Appare quindi fuori luogo un eventuale accostamento col post-rock canonico; alcuni cori puramente funzionali si materializzano in alcuni frangenti, ed un senso di spazialità fa da padrone in lungo ed in largo.
La prima metà del disco è entusiasmante: la title-track, From dust to beyond, Ascend to oblivion, Coda, Remembrance alternano fasi cupe e movimentate ad altre più meditate, ma sempre con trovate melodiche di grande respiro ed effetto. La seconda metà è di poco inferiore (certo che la techno di Route 666 la potevano anche evitare, ma è praticamente l'unico neo del disco), e nel complesso The end of the beginning lo vedo bene come un disco da viaggio, un compagno di strada che non invade mai troppo i sensi e ti avvolge nelle sue spirali futuristiche con discrezione.

mercoledì 22 settembre 2010

Girls Against Boys - Disco Six Six Six EP (1996)

Nonostante una perdita d'intensità già lievemente palpabile in House of GVSB, il quartetto washingtoniano nel 1996 era pur sempre un nome di massima punta nel rooster della Touch & Go, in procinto comunque di (s)venturarsi alla Geffen. Per cui questo EP rappresentò il loro congedo dalla label di Rusk, con quattro inediti che avrebbero ben alzato la media del disco sopra citato, fossero stati inseriti correttamente al posto di altri.
La title-track è una tipica litania beffarda mid-time, con l'organo acidulo e distorto di Janney in evidenza. Avevano già fatto di molto meglio (vedi Tropic of scorpio e Cruise yourself), ed era ovviamente il singolo promotore estratto, quindi già conosciuto.
Il poker che segue è secco e servito: Distracted riattiva i potenti reattori del motorik di Fleisig, con McCloud a salmodiare col suo tono rauco e indolente, 3 minuti scarsi di altissimo livello. Do it like diamonds caracolla ispido, con Janney comico-inquietante a fare i controcori in falsetto e addirittura con un simil-assolo. Lounge-noise?
Atmosfera lugubre e minacciosa con Black leather, Temple sfodera una linea quasi dark-wave. Il chorus cambia e diventa quasi accattivante. Dark-grunge?Chiude Keep yer pants on, con un disordine assordante, atonale e rumoristico, un po' come i Pussy Galore di Dial M e un po' Flipper.
Ottimo testamento, da lì in poi ci sarà la delusione di Freakonica e poi lo stop, interrotto dopo anni da un ritorno pressochè ininfluente. Ma di certo sono stati una band simbolo della prima metà dei nineties.

lunedì 20 settembre 2010

Giant Sand - Glum (1994)

Non ho certamente ascoltato la sterminata discografia di Gelb & Co., anzi ne avrò sentito neanche un quinto, ma fui introdotto in qualche modo (Planet Rock) a questo discone che ogni volta mi fa pensare che dovrei rimediare alla lacuna, seppur continui a diffidare preventivamente di chi ha sfornato 25 pubblicazioni (senza contare quelli solisti) in 25 anni.
Comunque, Glum è il mio preferito fra i conosciuti. E' un viatico delirante ma non troppo sulla strada del deserto arizoniano, che oscilla fra country acido e sfuriate visionarie, grazie alle ottime doti compositive e alla sapienza eclettica di Gelb.
Innanzitutto l'apertura, la title-track, è un autentico capolavoro; inizia con arpeggio dimesso e lamentoso, cresce fino a raggiungere un climax fragoroso con tanto di fuga psichedelica. In pratica, il miglior pezzo mai composto dai Thin White Rope.
Nonostante il disco non raggiungerà più vette simili, il complesso è ottimo. Yer ropes è power-country carismatico con controcanto femminile ed assolo alla Neil Young, un ispirazione che coglie anche la drammatica Happenstance. Un riff saturissimo introduce Frontage road, altra ballad elettrica di grande effetto, da appaiare alla potente Painted bird, per certi versi affine alle cose meno disastrose dei Caustic Resin, nonchè a Faithful.
Qualche divagazione in materia non guasta per nulla: il jazz-lounge di Helvakowoby, le morbide piano-driven Spun e Left. La spettrale ballad con lamento infantile di Bird song e un altro fumosissimo lounge con I'm so lonesome I could cry chiudono in tono ribassato quello che è da considerarsi un disco sanguigno e pregno di sudore e polvere.

domenica 19 settembre 2010

Fetchin Bones - Cabin Flounder (1985)

-->(scritto da G.C.)
Originari della North Carolina I Fetchin’ Bones miscelano con felicità vari generi, dal folk country al rock garage. Tale virtù ne decretò il passaggio folgorante, ma inavvertito, nella seconda metà degli anni Ottanta e, anche oggi, epoca di improbabili ripescaggi, continuano a circolare pochissimo, almeno in Europa.
Probabilmente tale disattenzione risiede nella mancanza di vere hits; il gruppo è incapace di coagulare il suono trascinante e concitato in alcuni pezzi facilmente individuabili, gli unici che l’industria dominante (e quindi, spiace dirlo, il pubblico) possa sanzionare con la piena riconoscibilità (e i pieni riconoscimenti in termini pubblicitari e di venduto).
E’ un peccato perché questo loro primo album abbonda di canzoni memorabili: le chitarre di Gary White e Aaron Plotkin s’accendono nervose (Briefcase, Kitchen of life) o indulgono alla ballata (Spinning o la bellissima Too much con inserti preziosi della violinista Danna Pentes) sempre assecondati dalle grandi interpretazioni di Hope Nicholls, nevrotiche e scatenate, eppure sempre in controllo; la sua voce ricorda (ascoltare A fable) indubbiamente la migliore Patti Smith, ma sono sicuro che la grande vecchia, onusta di gloria, non vorrebbe mai che la terribile Nicholls aprisse le sue esibizioni: qualcuno potrebbe fare confronti.
In ultima analisi Cabin flounder ci appare simile a certi romanzi di cui abbiamo scorso con piacere alcune pagine, ma che solo retrospettivamente, si lasciano cogliere nella loro interezza ed eccellenza.

sabato 18 settembre 2010

Ganger - Hammock Style (1998)

Quartetto di Glasgow che viene ricordato più facilmente per essere la provenienza di Craig B., successivamente fondatore e frontman degli Aereogramme. Il drastico taglio del personale rispetto al primo album lasciò solo la sezione ritmica, Henderson e Young, che reclutò B. ed un altro basso nella persona della Noramly. Il doppio 4-corde, quindi, ed una sonorità che fin dall'inizio del disco ricorda moltissimo i Tortoise dei primi due album. E per inciso, anche gli americani Dianogah, più o meno contemporanei. Rispetto ai quali però mettevano in campo più soluzioni armoniche e fantasia, una attitudine impellente a sviluppare jams di lunga durata, a ricreare ipnosi simil-psichedeliche.
Ovviamente i due bassi (presumo plettrati entrambi) zavorrano per bene il sound a terra, con B. intento a svolazzare verso lidi lontani e sognanti. Capo e What happened to the king happened to me viaggiano attorno ai 10 minuti e risultano molto più interessanti dei pezzi per così dire convenzionalmente costruiti. C'è anche un ambient shoegaze di ottima fattura (qualcuno si ricorda i miei amati Magnog?), First thing in the morning. Il resto del disco è composto da una manciata di sornione tracce tipicamente Tortoise-style, ma senza ricopiare pedissequamente ed anteponendo un certo fattore scottish che di certo mai ha fatto male.

venerdì 17 settembre 2010

Peter Gabriel - Car (1977)

Disco convincente, il ritorno di PG da solo dopo il clamoroso abbandono che fece sensazione. Nel senso che azzecca in pieno il 70% dei pezzi, in ogni caso meglio di ciò che fecero gli ex-colleghi senza di lui.
Una bella rivincita, che evidentemente gli anni non hanno scalfito più di tanto visto il suo diniego recente non solo di fare una reunion, ma persino di ritirare un premio importante alla carriera.
Car ha 4 punti in comune col progressive di partenza: l'iniziale, bellissima Moribund the burgermeister, l'articolata ed energica Slowburn, le mini-sinfonie di Humdrum e Here comes the flood. In un certo senso si era in una fase di transizione ma Gabriel dimostrava di poter camminare da solo in piena autonomia e con delle trovate melodiche di razza.
Fripp lascia da parte l'avanguardia KC e mette i panni del chitarrista epico e classicheggiante. L'impatto fragoroso di Modern Love mostra una grinta spaventosa, quasi hard-rock concettuale. Down the dolce vita è un funk multiforme e fantasioso.
Un piccolo peccato, che le cadute di tono siano davvero pesanti: passi appena la sbiadita ballad Solsbury Hill, ma la fanfara vaudeville di Excuse me e il blues rancido di Waiting for the big one sono dei buchi dell'acqua.
Sempre in minoranza, comunque, rispetto al meglio del disco, che mostrava un signor autore, determinato ad emergere come poi gli è ben riuscito.

giovedì 16 settembre 2010

Furry Things - Moments away (1998)

FT ultimo atto prima della scomparsa. Nel giro di soli tre anni si erano resi protagonisti di una virata talmente netta da non poterci credere, passando dal folgorante psycho-pop-noise di The Big Saturday Illusion ad un elettronica satinata che strizzava l'occhio alle cose contemporanee degli Sneaker Pimps o a quelle più immediate dei Seefeel.
Era stato un cambio un po' inaspettato anche per la Trance Syndacate, con il boss Coffey che forse stava tentando di salvare l'etichetta da una chiusura che sarebbe arrivata soltanto l'anno dopo. In un certo senso c'era aria di cambiamenti, certo, il noise-rock anni '90 era in netto declino e ci poteva anche stare tentare nuove strade, ma evidentemente andò male per entrambi.
Non che Moments away fosse un brutto disco, era soltanto meno originale dei precedenti. Gibson aveva riposto parzialmente la chitarra nella custodia rigida e si era dato in primis ai macchinari, la Shive si prendeva il microfono e faceva la chanteuse soffusa e soffice. Pochissime le scorie non smaltite dei passi precedenti: Radiant imbalance è una corsa digitale ispida che piace parecchio, gli evocativi dub di Downswing e The statement, gli arabeschi ipnotici di I can lie e Overload, ricordano un po' il senso del gioco che caratterizzava il debutto, traslato su direttive elettroniche. Ma il livello era abbassato da imbarazzanti poppettini lounge come Between games e Strange new world, davvero poco adatti al contesto.
Finiva così la breve carriera dei texani, con un senso di incompiuta generica ,ma in compenso anche col ricordo dello splendido debutto.

Simone Giacomini - Works 2010

SG è un ragazzo romano di stanza in Olanda con cui ho scambiato qualche commento qui su TM e che invidio non poco perchè vide i God Machine dal vivo nel 1993. Dopo qualche chiacchiera si è smascherato e mi ha indirizzato sul suo ReverbNation, dove si può assaggiare un po' della sua musica. Entusiasta, gli ho chiesto di farmi avere una sua antologia, non tanto per farne un post ma prima di tutto per il piacere di ascoltarla.
Innanzitutto, l'importante background: inizia studiando pianoforte, cresce chitarrista e matura musicista elettronico. Ad oggi potrei dire che ha raccolto questi tre elementi in un tutt'uno e con ottimi risultati, a mio parere.
Ho detto antologia perchè SG non fa dischi.
Col passare degli anni ha trovato lo sbocco della sua creatività come supporto a diverse arti come la danza, il teatro, i film muti, le installazioni, etc, il che lo ha portato a vivere attualmente in Olanda. Ma secondo me questa è musica che viaggia e sta perfettamente in piedi da sola.
Seriosi sinfonismi su beat elettronici come Sad beauty 1 e Suspended 1 sono struggenti digressioni strappalacrime. An indian occasion è un evocativa sarabanda di percussioni digitali su motivo esotico. Vele 1 è un tenebroso e sporco residuo galattico, prontamente doppiato dal suo contraltare edulcorato di Yada 1.Le pieces più ambientali sono bellissime: Birds 1 è una stratificazione epica che inizia con un delicato arpeggio chitarristico, seguono onde di fiati tenui, frasi di organo (o synth), poi strumming di chitarra energico e infine anche la ritmica, fino al deragliamento finale.
Tengo per ultimi i miei due pezzi preferiti: Torches è un brivido sottopelle. Un drone in technicolour dalla tensione spasmodica, che viene rilasciata periodicamente con una graffiata siderale (credo sia ancora chitarra), fino a raggiungere uno stato di ipnosi allucinatoria.
Out there è scandito da un movimentato ritmo meccanico, pian piano si sente salire un duello fra la chitarra e (credo!) un violoncello, che incrociano i legni in un patto d'acciaio di rarissima bellezza.
Parlando di cervelli in fuga, (un tema purtroppo sempre più attuale, ma qui traslandolo sulla musica), chi può dire che non abbiamo un moderno Piovani in erba che vive in Olanda per continuare la sua missione? Sue parole testuali, "è impagabile (si parlava di lavorare facendo la propria musica in giro per l'Europa) anche se in realtà non ci penso quasi più è semplicemente quello che faccio, la mia vita, si pensa sempre alla musica come a qualcosa di astratto e impalpabile ma è un mestiere che si vive in maniera semplice, non è genio e ispirazione divina ma piuttosto artigianato conoscenza consapevolezza."
Buon lavoro!

(Il suo sito)

mercoledì 15 settembre 2010

Fra Lippo Lippi - In Silence / Small Mercies (1981-1983)

Molto prima dei Motorpsycho, era questo duo a portare la bandiera norvegese da esportazione. Alquanto curiosi gli sviluppi: ben lungi dall'essere rivoluzionari e storici innovatori del wave-dark (anzi, si potrebbero definire un nome minore), i FLL ottennero un successo clamoroso nientemeno che nelle Filippine!
Scherzi del destino. In corrispondenza del loro periodo d'oro, a metà degli anni '80, facevano parte del rooster della Virgin, ma non riuscirono mai a sfondare. Qui mi soffermo sui primi due album, che furono ristampati su un unico cd. Non so quanto la scelta sia stata strategica, ma si va all'indietro: prima il più melodico Small mercies e poi il più dark In silence; a mio parere funziona, chè il disco migliora costantemente....
Il debutto si smaschera fin dall'apertura balzellante di Out of the ruins: l'influenza dei Joy Division è quantomeno ingombrante. Ma i pezzi funzionano e sono bellissimi: A moment like this, In silence, Recession, The inside veil, I know, attraverso tonalità grigio scuro e desolanti ambientazioni, fanno ben presto dimenticare l'ombra scomoda degli ispiratori e danno vita ad un gotico scandinavo scarno ed essenziale, con dosi giuste di synth, voce da oltretomba e passaggi indovinati (i For Against probabilmente assimilarono le fasi velocizzate con molta attenzione).
Small mercies vide un cambiamento importante: alla voce il nuovo entrato Sorensen prese il posto del cavernoso polistrumentista Kristoffersen, con una dote di maggior brio e modulazione. Il passaggio al synth-pop era alle porte, ma nella transizione c'era ancora posto per qualche primizia; l'elegantissimo mitteleuropeo di A small mercy, l'atmosfera viscosa di Sense of doubt, la deca-danza di The treasure, il solenne tribalismo di Now and forever.
Le chitarre e le oscurità erano scomparsi del tutto, un educato e misurato pianoforte conduceva le composizioni. Ripeto, non saranno stati un nome di prima fascia ma hanno lasciato qualche bella perla.

martedì 14 settembre 2010

Forever Einstein - Artificial Horizon (1990)

Un'immagine che lascerebbe sperare ben poco, quella dei FE, ma che in realtà nasconde tre abilissimi strumentisti a cui importa soltanto suonare, divertendosi e perchè no? divertendo, dato che Artificial Horizon è un dischetto godibilissimo in cui l'alto tasso tecnico si sposa alla perfezione con le ondulazioni di emotività di questi 17 quadretti eclettici. Inevitabile che fossero assoldati dalla Cuneiform, forse la leader mondiale di una vasta gamma di espressioni di questo tipo di art in opposition.
Il leader è il chitarrista/pianista Vrtacek, coadiuvato dagli ottimi Sichel al basso e Roulat alla batteria. Interamente strumentale, la musica dei FE contiene un filtro intelligentissimo: pesca a piene mani dal jazz ma ne condensa idee melodiche con costruzioni cognitive (esempio, le bellissime Swimming Lessons, The iron booty of stupidity), evita qualsiasi distacco accademico e lunghezze chilometriche per mantenere alta l'attenzione.
Non è neanche tanto importante l'esecuzione perfetta delle partiture arzigogolate quando c'è una discreta varietà di temi: dalle meditative pieces per piano a certi fuorvianti scatti di aggressività ai limiti dell'heavy metal, dai surf cabarettistici (irresistibile Electric pants) a stacchetti di vaudeville demenziale, il tutto anche mixato all'interno dello stesso pezzo.
Altro che artificiali...

lunedì 13 settembre 2010

Flipper - Blow'n Chunks (1984)

Fin troppo logico immaginare che dal vivo fossero ancor più disastrati e rumorosi, il che è tutto un dire. In fondo erano i tempi di Gone fishin' e lo sbrago eroinomane di Shatter & co. era giunto ad un livello di estremo degrado. Non era neanche più una deviazione estremista di hardcore, era diventato un marciume sonoro in cui la voce abrasiva era il lamento di un pazzoide faccia al muro.
L'epica Way of the world apre col suo riff esaltante ed è uno dei pochi momenti di (presunta) lucida energia, perchè da lì in poi saranno dolori. Il lento fangoso gotico di The light, the sound, le risate sguaiate della delirante Ha ha ha, gli stordimenti beffardi di In your arms, Life is cheap, In life my friend, fino alla chiusura di Get away, sono cunicoli inestricabili di rumore compresso, con i due bassi a sommergere tutto, rintronare come bulldozer, in un insieme fondamentalmente scordato e drogato.
Forse a quei tempi era qualcosa che non si era mai sentito, era pura immondizia sonora, e fu influente di brutto su tanto noise che verrà anni dopo.

Flaming Lips - Embryonic (2009)

Non avrei più scommesso una cicca sui FL, per me erano un gruppo finito, dopo gli ultimi due sconcertanti dischi e comunque in assenza di colpi di genio o scherzi mortali da almeno 12-13 anni. E invece a sorpresa tirano fuori questo capolavoro di outing, secondo me il migliore dai tempi di In a priest driven ambulance. Da un ventennio, quindi. Non male.
Un'ora e dieci di arte folle e deviata, spesso caratterizzata da toni oscuri e stordenti, in cui le senilità sinfoniche e diabetiche degli ultimi 10 anni vengono abbandonate in favore di una maggiore fisicità. E' un disco fortemente ritmico: il basso ruvido e minimale di Ivins è quasi sempre in primo piano, la sferragliante batteria di Scurlock (finalmente accreditato come membro vero e proprio dopo anni di supporto live) è prodotta estremamente in your face, chiassosa come un pugno nello stomaco. Le chitarre sono spesso puri accessori, mentre il piano elettrico svolge una funzione armonica molto importante. Coyne e Drozd sfornano un lavoro di arrangiamento e concettualità spaziale davvero impressionante.
Sembrerebbe un concept, vista la concatenazione e lo svolgimento multiforme, così ricorda un po' certe opere psych-prog degli anni '70, ma i climax sono profondamente immersi nell'attualità: Worm mountain, See the leaves, acidi e convulsi stomp avvelenati da tossine radioattive. Convinced of the hex, Powerless, Silver trembling hands, The sparrow looks up at the machine, caleidoscopi complessi di psichedelia rombante e dagli spunti lunari di grande inventiva. Evil, Gemini syringes, Sagittarius Silver announcement, splendide meditazioni di morbida astrazione. Poi ci sono arcobaleni esplosivi (Acquarius sabotage, Scorpio seord), reminescenze di schizofrenia Lips anni '80 (the Ego's last stand), persino un teatrino demenziali con Karen degli YYY al telefono (I could be a frog), e un ambient di chiusura, Virgo self esteem broadcast, che stordendo l'atmosfera chiude alla grande il capolavoro.
Ci sono pochissimi riempitivi, due o tre al massimo, in questo ritorno inaudito che secondo me è stato uno dei 5 migliori dischi in assoluto dell'anno scorso. Questo dimostra che i grandi vecchi possono sempre tirar fuori qualche asso per dimostrare al mondo di non essere cerebralmente secchi.

martedì 7 settembre 2010

Feelies - Crazy rhythms (1980)

Disco consigliatomi dal buon Allelimo, del quale onestamente non avevo mai sentito parlare e che mi ha incuriosito non poco. Ed in effetti gli americani erano un quartetto molto atipico: innanzitutto la tecnica era davvero vicina allo zero, ma sapevano sfruttare questa carenza con una determinazione ed una testardaggine che ha dell'incredibile ancora adesso dopo 30 anni.
L'ispirazione era palesemente erede del folk-rock anni '60, con le chitarre pulite e gli accordi belli compatti: rispetto ad esso però imponevano i ritmi folli del punk e della new-wave (anche se non c'entravano praticamente nulla) col risultato che il titolo è davvero adatto, e la ritmica è l'aspetto più importante del disco. Minimalistici fino allo sfinimento ma frizzanti quanto basta per esaltare le stuzzicanti composizioni, sia spiccatamente pop (Fa Ce La, Original Love, Raised eyebrows) che un po' introspettive (la splendida apertura di The boy with perpetual nervous, Loveless love, Moscow night). Le mie preferite però sono quelle sparate alla velocità della luce (Forces at work, Everybody's got something to hide, Crazy rhytms), che mi divertono un sacco: li immagino piegati con le braccia impegnate meccanicamente, intenti a creare una gioiosa ed ipercinetica catena di montaggio.
Tralasciando la banale cover di Paint it black (nella cui rete è finita più di una band), Crazy rhytms fu una primizia pop di originalità non indifferente, specialmente in quegli anni di nichilismo diffuso.

lunedì 6 settembre 2010

Faust'O - Out Now (1982)

E' bello scoprire dischi così, che hanno 30 anni di vita ma suonerebbero attuali oggi. E a dire la verità ho scoperto il personaggio Rossi con colpevolissimo ritardo, nonostante la curiosità che avrebbe dovuto istillarmi, faccio per dire, anche soltanto L'erba che fu disco di un mese di Rumore nel 1995. Ma va bene così, chè al tempo ero troppo preso dall'indie-alternative in voga e comunque si tratta di un personaggio talmente defilato e fuori da ogni canone che è sempre stato facile ignorare. (Approfitto per segnalare anche il suo ultimo prodotto, Below the line, un pezzo di mezz'ora che è collage di songs melodiche nascoste e affogate in un mare di feedback in primo piano, straniante oltre misura!). E questo Out now fu una roba davvero contro, mai sentita e troppo avanti per essere capita in Italia. Un disco che molto superficialmente potrei definire dadaista, ma preferirei il termine cubista per la complessità e l'astrusità di quelle che non sono songs, bensì didascalie dell'assurdo.
E' tutto strumentale e non lascia respiro all'attenzione: i ritmi sono affidati ad una drum machine discreta e il basso di Fioravanti sarà protagonista in larga parte, l'intro di 20-12-81 Orange è tutta sua con una profonda digressione dub-dark. In sottofondo si possono udire frammenti di musica concreta e nastri che Rossi dissemina un po' ovunque. Con Distant kotos invece si sprofonda in un baratro agghiacciante, note sparse di piano e manipolazioni vocali che hanno a che vedere con gregoriani agonizzanti. Ancora il basso ad arzigogolare su Grey sand and wave, la chitarra caotica mixata bassissima ed il sax di Bianchi a jazzeggiare un po'. Impro di piano sono alla base di The game of the sunset, che prelude all'incubo industrial-metal-techno di A cup of tea: su un ritmo digitale serratissimo una selva di chitarre atonali seminano uno scompiglio terrificante, vista l'atmosfera relativamente quieta che comunque caratterizza il capolavoro.
Blue-just a man manipola ancora le voci, ma questa volta diventano bianchissime e delicatamente modulate, in un atmosfera misticheggiante ancora punteggiata da basso e sax.
The sound of my walls è il momento cosmico, il sogno bello con un filo di voce a dire chissà cosa.
Con The sound of one hand tornano i gregoriani incatenati, su un elettro-funk con Fioravanti a fare showcase di virtù e gli impressionistici nastri di Rossi. Si chiude con la sarabanda di fiati di Amedeo's, giustamente intitolata a Bianchi, che si stratifica in un caleidoscopio pindarico di sax e clarini, liberi di volare.
Avamposto.

domenica 5 settembre 2010

Fall - I am kurious oranj (1988)

Cosa c'entrassero i Fall con un balletto è un mistero vero e proprio, eppure questo disco fu concepito come accompagnamento ad esso, porta lo stesso titolo ma in fondo non ha nulla di molto diverso dagli altri 500 album che Smith ha fatto.
D'altra parte un brevetto è sempre tale e va portato avanti con costanza. Questo fu l'ultimo ad annoverare la moglie Brix in formazione, e anche se viene annoverato come episodio minore lo ritengo gioviale e gradevole, con una varietà di toni e timbri non indifferente. Ci sono le solite marcette minimali e stentoree (New big prinz, Cab it up!), ci sono anthem secchi e tirati che poi sono i migliori episodi (Dog is life/Jerusalem, Wrong place right time). C'è un reggae sgraziato come la title-track, una ballad spettrale alla Julian Cope (Guide me soft), teatrini impressionistici forse funzionali alla narrazione (Yes o yes, Bad news girl, Last nacht).
La produzione privilegiava la ritmica e specificatamente il basso di Hanley, sempre in primo piano, con pochi fronzoli come da tradizione a parte un paio di episodi con qualche inserto elettronico, comunque passabili.
E c'è anche un bel strumentale atmosferico, Overture, unica farina del sacco della Smith ed evidente distacco dal resto della produzione, nonchè suo canto del cigno.

sabato 4 settembre 2010

Faith No More - Angel Dust (1992)

Succede, di provare qualche impeto di blanda nostalgia. Nella fattispecie, ascoltando un disco che all'epoca dell'uscita consumai non poco (per la precisione, sotto forma di C-60 TDK), e che non risentivo da almeno 12/13 anni. E succede di dover ammettere che i FNM erano davvero un'ottima band di crossover, a tutt'oggi dimenticata (ah, si sono riuniti anche loro?) ma che ha evitato di scendere verso tristi declini come altre istituzioni dei nineties, RHCP su tutti.
Crossover, era un termine molto in voga ai tempi, e Angel Dust faceva veramente 13 con i pezzi variegati, multiformi e sfaccettati. Quando spingevano erano durissimi ma mai gratuitamente, sempre con stile e personalità. C'era quell'attitudine da teatro dell'assurdo, da macelleria artistica, da incubi metropolitani, la cui testa di ponte era il grandissimo Patton, uno che ha sempre fatto della ricerca vocale e in questa sede la poteva applicare in massima libertà.
Ma non è che gli altri stessero a guardare, di certo: Bottum, il fondatore, sapeva alternare tappeti atmosferici con sapienza, mai di corredo ma fondamentali. Il chitarrista Martin era l'animale feroce che sguainava metallo, e la sezione ritmica polivalente al massimo.
Così capita di provare un sottile strato di pelle d'oca al riascolto dell'hit Midlife crisis, travolgente e scurissima. Si scossa la testa in avanti ed indietro alle cavalcate calibrate di Land of sunshine, Caffeine, Smaller and smaller, Kindergarten, Crack Hitler, Jizzlober.Poi però ci si può anche disimpegnare con il vaudeville di Rv, gli inni power-pop di Everything's ruined e A small victory, ed infine rilassare con la chiusura country di Midnight Cowboy. Sì, chiudere perchè Easy like a sunday morning io la salto volentieri.
Eclettici e didattici per tutta la generazione successiva di (presunti) alternative-rockers.

venerdì 3 settembre 2010

Escape The Day - Ghostless (2005)

Altra meteora, questa volta dei giorni nostri e con pochissime info a disposizione, ma di grande qualità. ETD era un duo tedesco che ancor prima di far uscire questo primo disco non esisteva più, a causa del suicidio del povero Florian. Sulla scarna pagina a loro dedicata appare un trafiletto tanto autoreferenziale quanto struggente, e c'è da rimpiangere la loro scomparsa.
Per definirli mi verrebbe da dire che erano una specie di Gregor Samsa senza strumenti da camera, con un maggior pathos espressivo e ancora più introspezione (il che è tutto un dire). E con una valigia di splendide songs, le 8 qui racchiuse, di cui la maggior parte senza ritmo, scandite semplicemente da rintocchi atmosferici. Le trame cristalline della chitarra di Florian sono l'anima e il corpo principale, a partire dall'iniziale Hallways, una cartolina notturna di bellezza assoluta.
L'altro membro Lars invece era responsabile della voce delicatamente sussurrata, quasi un accessorio vista la saltuarietà dell'impiego. La title-track è un dispiego slow-core dall'incantevole coda pianistica che si tramuta nell'invernale quadretto di Days. Notabile accelerazione di ritmo e volume in The hour undone, con finale epico alla GYBE seppur nelle dovute proporzioni.
Ma è solo una piccola parentesi, in quanto la seconda parte prosegue con le stasi di spleen ripiegate su sè stesse, fra punteggiature di clarino (If I told you), suggestivi controcanti femminili (Still, This wave lenght), e la meravigliosa chiusura di Last words, immagignifica soundtrack di una riflessione a cielo aperto.
Nulla di rivoluzionario, ma con un cuore grande così. Che però era destinato a fermarsi....

giovedì 2 settembre 2010

Matt Elliott - Drinking songs (2005)

Mah! Non avevo mai sentito Elliott e leggendo le varie review e i servizi positivi in merito, riguardo alla trilogia delle varie songs (quelle bevute, quelle fallite e quelle ululate), ho pensato questo qui mi piacerà. Al che mi sono dovuto smentire clamorosamente, e con tutto il rispetto, l'ho trovato di una noia mortale.
Nonostante apprezzi generalmente questo tipo di cantautori maledetti, ho fatto davvero fatica ad ascoltare i vari pezzi fino in fondo, finendo per skippare regolarmente. E dire che la scarnissima strumentazione (chitarra, piano, un filo di voce) è arrangiata molto bene, ma ciò che manca sono proprio le songs. Elliott gira attorno allo stesso tema per 3/4 del disco, con cantilene lamentose oltre misura e ultra-monotone, in un terreno in cui viene letteralmente fatto a pezzi dai Black Heart Procession più depressi. Quando si arriva al 7° pezzo, A waste of blood, si tira finalmente un sospiro di sollievo e perlomeno si trova una composizione decente, con una variazione impressionistica interessante. E non basta certo la variopinta drum'n'bass-maudit di The maid we messed per rialzare le quotazioni.
Più che canzoni bevute, mi sembrano addormentate.

mercoledì 1 settembre 2010

Eleven Eleven - S/t (or Star City or Watch me) (1996)

Meteora oscurissima di Louisville che viene citata soltanto per via del batterista Crabtree, che successivamente entrò negli illustri Shipping News. Un trio del quale non si hanno praticamente notizie esaustive, che diede alle stampe sulla locale Doghouse soltanto questo cd di un unico pezzo di 33 minuti (anche se la durata effettiva è di 25, gli ultimi 8 sono quasi silenzio), di cui non si ha neanche la certezza del titolo. Poco importa, qui non c'è molto da mitizzare una band che era palesemente ispirata agli storici concittadini Slint, ma riferire di un onesta entità che lo faceva con piglio comunque personale, a cui un maggior lavoro di produzione avrebbe fatto solo bene, e di cui un eventuale proseguio secondo me avrebbe potuto riservare qualcosa di ancor più interessante.
Star city è una suite in piena regola fatta di rimandi ed ipnosi, stasi letargiche (reminescenze Codeine) ed improvvise ripartenze (alcuni stacchi sono quasi da emo-core), e già il concetto in sè era molto fuori moda: era vero che dischi di riferimento come Spiderland o il primo June of '44 avevano una media abbastanza lunga, ma una durata del genere era un caso praticamente inedito.
Il clima, com'è facile immaginare, è fatalmente malinconico come da copione, con il chitarrista Tucker protagonista incontrastato del disco, fra arpeggi mesmerici e accordi vigorosamente sostenuti. E' chiaro che è un disco riservato agli amanti stretti degli artisti sopra citati (Blow Up gli diede 5,5 con poche scarne righe nel momento di maggior visibilità per queste tendenze), e dato che io lo sono sempre stato non ho l'obiettività giusta per giudicare Star City. Dico soltanto che è molto molto bello.