giovedì 31 ottobre 2013

Seefeel - Seefeel (2011)


Fa un certo effetto udire i Seefeel al giorno d'oggi. La formazione è cambiata rispetto ai tempi d'oro, non c'è più Van Hoen e ci sono due giapponesi (!) a basso e batteria, di cui uno pare ex-Boredoms. La scintilla di questa riunione è stata scatenata dalla ristampa Warp di Quique, e questo si chiama mettere in discussione un glorioso passato. Clifford e la Peacock firmano un ruvidissimo scenario in cui manipolazioni di chitarre aliene (o morte, come recita uno dei titoli) vanno a sbattere sistematicamente contro una ritmica spezzettata oltremisura. Sembra quasi la colonna sonora della disillusione di una generazione, quella dei 40 e qualcosa. Nessuna traccia delle radiazioni divine di 20 anni fa; ci sono certo linee melodiche, ma sono beffarde. La Peacock vocalizza ancora eterea come allora, ma diffidente e circospetta. Difficile che i puristi nostalgici amino questo coraggioso eponimo, ma se lo esaminassimo come di una formazione esordiente l'entusiasmo non sarebbe forse minore.

mercoledì 30 ottobre 2013

Sedia - Sedia (2004)

Torrenziale effluvio di math-rock d'assalto per questo power-trio anconatano dalla vita brevissima: due uscite su Wallace alla metà del decennio scorso e poi lo scioglimento. Dopo di che soltanto il chitarrista Coletti si sarebbe fatto notare con altri progretti ed un paio di episodi solisti, non troppo esaltanti a dir la verità.
Scalmanati ma intelligenti, i Sedia martellavano sghembi e coesi i lori ritmi sciancati sotto le granate di chitarra e basso, corde maltrattate schizofrenicamente. Il sound è crudo e scarnificato fintanto che le partiture sono distinte, e poi sa farsi noise in un attimo quando si decide di deragliare barbaramente.
Concettualmente, a metà fra Don Caballero e Zu, con le dovute differenze tecnico-strumentali. Difficile scegliere gli highlights, vista la compattezza granitica delle esecuzioni e la nevrosi suscitata senza pause.
Ascolto obbligato per gli amanti del genere.

martedì 29 ottobre 2013

Section 25 - Always Now (1981)

Factoryani, epigoni dei Joy Division al punto che, oltre a far loro da supporter act in più occasioni, si scomodò Ian Curtis, loro fan acclarato, a co-produrre il loro primo singolo datato 1980.
Talmente epigoni che dopo pochi anni finirono per imitare i New Order....logico che non siano iscritti nell'albo d'oro del post-punk inglese, ma non è tutto da buttare solo per la derivazione. L'impeto è tipico del dark-punk, ma con l'intenzione di creare tensioni drammatiche alla Closer senza avere stoffa compositiva rilevante, puntando più sull'ossessività e su un vocalist ultra-monotono e stonato, incapace di trasmettere emozioni che non fosse senso di alienazione dilettantistica.
Nella ristampa perlomeno sono inseriti i primi due singoli, un filo più interessanti per il maggior dinamismo e per qualche dissonanza chitarristica interessante, un po' alla Gang Of Four.
Da ascoltare solo per completismo.

lunedì 28 ottobre 2013

Peter Searcy - Could You Please And Thank You (2000)

No, decisamente non è più stato il dynamite-kid che si arrochiva allo spasimo sulle trame avant-hardcore degli Squirrel Bait, un po' alla Westerberg ma con un identità impressionante anch'egli alla stregua dei compagni suonanti. Il tempo passa per tutti e anche Searcy si è lasciato alle spalle quella testimonianza ma, invece di evolversi in direzioni sperimentali come Grubbs & McMahan e gli altri, il louisvilliano è retrocesso ad un tradizionalismo canzonistico; onesto quanto vuoi, ma sempre retrocesso.
Chiaro che non è corretto dargli colpe specifiche per questo: Could you please fu il suo primo disco da solista, dopo esperienze in un paio di bands non proprio irresistibili e nel frattempo diventò un agente immobiliare con tanto di scheda biografica professionale ben accessibile. Il suo è un songwriting semplice e potenzialmente di successo, sia in zona power pop che in un'area folk-rock modello Counting Crows / Soul Asylum; eppure si sente che in fondo l'onestà c'è, ed un paio di pezzi come Broken e la splendida Movie star life ti si attaccano dentro come alcune delle migliori piacionerìe di Robin-Sophia-Proper-Sheppard.

domenica 27 ottobre 2013

Scraping Foetus Off The Wheel - Nail (1985)

Discone-maelstrom di una cattiveria impressionante e di un'omogeneità invidiabile, ovvero l'anello di congiunzione fra il primo Nick Cave, l'industriale percussivo e i futuri Cop Shoot Cop, stabilendo un format personale di altissima razza.
Innanzitutto l'opprimente sinfonismo, seppur digitale, che regna incontrastato mentre sotto capita di tutto, dai  martellanti effetti infernali alle gag macabre: sembra che Thirlwell la voglia buttare sul grottesco, ma in realtà è tutto molto catastrofico.
Nail porta ancora molto bene i suoi quasi 30 anni, e persino il suono fustinato anni '80 della batteria sembra avere un suo senso dato che siamo in un regno drammaticamente kitsch: potrà piacere e non piacere, ma impressiona ancora tanto.

sabato 26 ottobre 2013

Stephen Scott - New Music for Bowed Piano (1984)

In questa variante del piano preparato Scott non fu il primo, ma senz'altro questo campionario di artifizi riesce a stare in piedi da solo e si può anche ignorare la reale provenienza del suono per ricavarne un ascolto magico.
Professore di musica nell'Oregon e nel Colorado, Scott ha dedicato la sua (pur parca) produzione discografica alla tecnica che prevede la vibrazione delle corde del grand piano con fili di nylon; l'effetto finale è quello di un suono espanso e riverberato che assomiglia ad un combo di archi, con particolare assonanza al violoncello nelle parti solitarie, e persino al sitar in altri momenti.
Ma l'aspetto più interessante è che New Music in sè avvolge i sensi a causa della bellezza intrinseca delle partiture e del suo minimalismo dronico stratificato; se consideriamo che correva l'anno 1984, è stato anche discreto anticipatore di correnti attualmente radicate nell'underground.

venerdì 25 ottobre 2013

Scorn - Gyral (1995)


Nel giro di un paio d'anni, la sigla Scorn subisce una di quelle mutazioni che ha velocità maggiore della luce. Harris si ritrova da solo, senza più Bullen, ed abbandona egli stesso la batteria per diventare un musicista elettronico. Gyral  è un coacervo di ritmi anemici e di emissioni di elettronica algida, in cui non è più rimasta traccia nemmeno del dub: l'unica parvenza musicale resta un piano minimalista che ogni tanto fa capolino.
Ricordo che ai tempi divise: da un lato i recensori amanti dell'elettronica salutarono Harris come un nuovo paladino, dall'altro gli scettici art-metallari lo salutavano e basta al proprio destino. Certamente non ha sconvolto la storia, ma il sound da bassifondi di Gyral mantiene intatto il proprio fascino lunare, ancora dopo 18 anni.

giovedì 24 ottobre 2013

Scorn - Vae Solis (1992)

In origine era il grindcore, con Scum dei Napalm Death e la sua bestiale carica di furia cieca; gli stessi musicisti che suonavano in parte di quel disco si ritrovarono sotto la sigla Scorn, con una velocità di reinvenzione che aveva del prodigioso, mentre i ND stessi iniziavano rapidamente a stagnare nelle paludi di un genere destinato a bruciare le proprie cartucce in poco tempo.
In Vae Solis del metallo non resta quasi nulla, magari qualche chitarrone macellaio o le vocals rognose di alcuni pezzi, il resto era davvero novità e fusioni a freddo: le meccanizzazioni futuriste dei Killing Joke, le pesantezze industriali, il dub allungato, tirato e stirato, i samples pesi.
Anche se il vero promotore del progetto Scorn fu Harris, non a caso il chitarrista della situazione era il grande Broadrick, in prestito da Godflesh. Già l'anno successivo in Colossus non c'era più, ma l'evoluzione era talmente spedita che era naturale fosse così.

mercoledì 23 ottobre 2013

Armando Sciascia - Sea Fantasy (1972)

Credo che sia il disco più bloggato in assoluto del filone library settantiano, e non ritengo giusto dovermi esimere vista anche la relativa qualità del lavoro. Al netto di curiosi exploit fuori sede, Sciascia era comunque un eccellente compositore e Sea fantasy non fa eccezione anche se certi momenti sono un po' troppo stucchevoli. Un paio o tre su dodici, comunque, nulla di compromettente: tra dolci sinfonie, impennate drammatiche, e arie melanconiche la sua orchestra viaggiava che è un piacere.
Certo, siamo sul lato più accomodante  della library / soundtrack, ma il tocco magico dell'epoca e la stoffa del creatore indorava più o meno tutto. Le tracce migliori sono High tide, Tempest force 8, In the ocean depths, Calm sea.

martedì 22 ottobre 2013

Savages - Silence Yourself (2013)

Il milionesimo gruppo revivalista del post-punk, come se il mondo ne avesse ancora bisogno. Un po' fuori tempo massimo, ma come ho già scritto per altre bands non importa più di tanto: contano spirito e personalità e le londinesi Savages sembrano difettare di entrambi.
L'aspetto più preponderante è costituito dalla cantante, che sembra una versione maschile di Siouxsie, sempre sull'orlo della crisi nevrotica e con quelle tipiche, sottili stonature. Il trio alle sue spalle si muove baldanzoso campionando più o meno qualsiasi cosa di fragoroso sia stato fatto nei primi anni '80, dai Bauhaus ai Gun Club, persino un paio di pseudo-parodie di Nick Cave con Waiting for a sign Marshal Dear, che paradossalmente finiscono per essere i migliori pezzi del lotto, in contrasto alle martellanti (e monotone) maggioranze.
Erano molto meglio le Organ.

lunedì 21 ottobre 2013

Savage Republic - Customs (1989)

Il canto del cigno della prima fase dei Savage, e con ogni probabilità il loro picco artistico, dall'ecletticità abnorme; Customs passa di palo in frasca, fra un versante ed il suo esatto opposto, con ispirazione e visionarietà.
Abbandonata ormai la percussività ossessiva dei primi dischi, i californiani passavano in rassegna noise-rock nevrastenico (Sucker punch, Rapeman's first EP), gotico esotico (Sono Cairo), folk etnico (Mapia, Song for Adonis), allucinazioni minimali pre-post-rock (the birds of pork, che anticipa quanto farà Licher con gli Scenic pochi anni dopo), chiudendo con un gioiello di mulinelli rutilanti trance, Archetype. Un po' frammentario, ok, ma debordante di visioni misteriose.

domenica 20 ottobre 2013

Satan Is My Brother - A Forest Dark (2011)

Progetto milanese strumentale che fonde elettroacustica ed un fumoso post-rock, o per meglio dire nebbioso vista la provenienza e le premesse della copertina che mostra un bosco immerso nella foschia.
Il digipack mi è stato donato da Blow Up qualche mese fa e molto probabilmente non li avrei mai ascoltati di mia iniziativa, quindi si tratta di una buona sorpresa. L'impianto prevede sax fisso e piano elettrico, sezione ritmica compassata ma ben presente ed un elettronica sulfurea, a tratti gorgogliante che durante i 7 movimenti di A forest dark diventa più volte regina della scena. Quando il quintetto viaggia a pieno regime invece il primo riferimento che mi viene in mente sono i Cerberus Shoal di Elements of structure, il che è senz'altro un complimento per quel che ne penso io: un sound swingante ed alieno al tempo stesso. Bravi.

Sand - Golem (1974)

Dire "un anomalia della scena tedesca" non è corretto, perchè essere anomali era la regola e non l'eccezione, però può aiutare un minimo a capire di che pasta erano fatti i Sand, trio sassone autore soltanto di questo Golem. Anticipatori del folk apocalittico e di atmosfere ottenebranti di certo suono industriale e quindi spontaneamente omaggiati da Tibet e Stapleton anche in termini di ristampe, erano i fratelli Papenburg a basso, chitarra e synth + lo strambo cantante Vester.
Non c'è da dire altro che il disco è di una lungimiranza devastante, eccetto la produzione di Klaus Schulze che indugiò un po' troppo sugli aspetti stoned-spaziali finendo per impastare un po' il suono. L'assenza di batteria provoca uno strano senso di galleggiamento, ed è uno dei motivi per cui si resta un po' contrariati al primo ascolto, ma già al secondo si capisce che questi erano freak d'avanguardia: le spirali ottundenti, gli accordi dolenti e il canto sommesso di Helicopter, le movenze caracollanti nel vuoto di The old loggerhead e soprattutto i 10 minuti di stupefacente thriller che strabordano in Sarah fanno capire che non scherzavano per niente e nulla c'entravano con i pur sodali contemporanei.
Diventa anche logico spiegarsi la dissolvenza nel nulla, chè allora dovevano essere ostici persino alle orecchie più aperte.

sabato 19 ottobre 2013

Saltland - I Thought It Was Us But It Was All Of Us (2013)

La Constellation lancia tal Rebecca Foon, violoncellista del giro epic-instru canadese che tangeva (tange ancora?) il giro Godspeed YBE; nello specifico, militante nei Silver Mt. Zion etc etc. Dev'essere difficile per la label tirare fuori qualcosa di innovativo, ma capisco: il ricambio generazionale è stato quello che è stato e se la differenza continuano a farla i 40enni tanto vale tenerli sul piedistallo e lanciarli anche se non si è più ragazzini.
La Foon prova ad emergere con 8 pezzi evocativi in cui il violoncello non è unico protagonista, ma linea guida: all'abbellimento ci sono una moltitudine di strumenti e la sua flebile voce. Le idee ci sono, la potenzialità per piacere al di fuori dal circoletto anche (il chill-out di Colour the night sky è quasi pop in confronto al resto),  la produzione è curatissima anche quando si cade nella trappola del drone-folk, ma se ci si fermasse meno a rimirarsi allo specchio.........
Può darsi che col prossimo disco ne esca qualcosa di molto, molto bello. Me lo auguro.

venerdì 18 ottobre 2013

Arthur Russell - First Thought Best Thought (2006)

Anzichè andare a trafugare la moltitudine di nastri lasciati incompiuti, i compilatori hanno preso la saggia scelta di recuperare queste rare incisioni risalenti agli anni '70, che mostrano il lato più organizzato, se vogliamo, di Russell in veste di direttore di ensemble / compositore d'avanguardia. 
La prima metà, Instrumentals, fu registrata dal vivo fra il '77 ed il '78 e mostra un talento compositivo giovane ma già in grado di guidare i suoi uomini con partiture curatissime di una leggerezza disincantata e cristallina; fino alla traccia numero 10 siamo a livelli altissimi, se non ai vertici russelliani assoluti. Nel momento in cui chitarre e percussioni scompaiono e restano soltanto archi e fiati le arie si fanno plumbee e strettamente orchestrali, e l'approdo all'altro tassello dell'antologia, Tower of meaning è un passaggio del testimone emblematico.
Senza star neanche a discutere l'aspetto tecnico / concreto / compositivo, si tratta di materiale un po' troppo serioso e cupo per poter essere apprezzato, complice anche un minutaggio importante. Quando si arriva all'ultimo inedito isolato, lo Sketch for the face of Helen, sembra davvero uno scherzo: 10 minuti di elettronica primitiva e gorgogliante che non portano pressochè da nessuna parte, ma perlomeno si respira un po' di aria fresca.

giovedì 17 ottobre 2013

Rub Ultra - Liquid Boots And Boiled Sweets (1995)

Crossover bello muscolare come si faceva una volta, ma con una englishness che lo rendeva particolare specialmente nell'uso delle voci, non troppo mache come da tendenza. Per il resto ok, chitarroni, mid-tempi, stilettate funk-metal, qualche bel pezzo che si fa ricordare (Generate, Brown box nitro), onesti trascinamenti. Devono aver infiammato più di un palco ai tempi, ma scomparvero nonostante il loro unico disco uscì su una sussidiaria della Virgin specializzata nel power-pop. Uno dei chitarristi confluì negli Honeycrack, transfughi dai Wildhearts. E le frittate erano già belle fatte e servite.

mercoledì 16 ottobre 2013

Rrope - Mahagonny (1996)

 
Secondo ed ultimo atto per questi art-noisers, seguito innaturale all'esordio fulminante di un paio d'anni prima. Praticamente scomparse le derive avanguardistiche che ne contraddistinguevano una parte, si concentravano sul lato potente e conciso (poco più di 20 minuti), finendo per assomigliare di più ai Mission Of Burma o ai Lungfish che ad altro. Tuttavia, nonostante il passettino indietro si tratta sempre di buona qualità, di un furioso post-hardcore dalle ritmiche irregolari e dalle chitarre fragorose (non più debitrici dei Sonic Youth, almeno). Un paio di episodi vagamente slintiani (Pocket song, What I didn't hear) interrompono l'infiammabilità dell'EP e si fanno apprezzare. Dopodichè, scomparvero.

martedì 15 ottobre 2013

Fausto Rossi - Below the line (2010)

Colpo basso, sotto la cintola per Rossi che non ha mai compiuto grosse rivoluzioni ma ha avuto fasi arty invidiabili, culminate in quel capolavoro che fu Out Now. A 50 anni e passa è tutt'altro che cotto anche se diventato estremamente lineare nelle ultime produzioni contrassegnate da un placido e brillante cantautorato, così Below the line costituisce un episodio di rottura implicito, segnato senz'altro dalla sua ininterrotta denuncia sociale che da oltre 35 anni si protrae, lunghi silenzi inclusi.
Un pugno di canzoni, peraltro abbastanza orecchiabili, si agitano nel sottofondo, ricoperte da un assordante feedback di origine chitarristica in primo piano per 20 minuti. E non è, come ha scritto qualcuno, una cosa che si ascolta una volta e poi si mette via: io ne sono rimasto stregato, anche perchè al minuto 23 scatta la vera follia: apertura ambient, un vorticoso frullìo elettronico con suoni concreti, troncatura netta, sgocciolio nel silenzio. 
Una cosa che soltanto un vecchio leone come lui poteva ideare.

lunedì 14 ottobre 2013

Rope - Heresy, and then nothing but tears (2006)

Heresy è stata la prima cosa che ho ascoltato dei Rope e ricordo la mia grande sorpresa e l'entusiasmo che mi provocò. Ora, osservandolo in prospettiva, si può dire che sia la summa artistica di quanto proposto (anche se non potrei individuare un episodio migliore dell'altro, sono tutti e 3 stupefacenti) e che culmina con i 20 minuti di Grand humiliation of misery, definito da SIB un western morriconiano ambientato su Marte.
Kendrick acquista coraggio e spazio: su She the assassin, sulla title-track e Blood stained lust le sue bordate martellanti invigoriscono il tessuto sfibrato delle trame sempre più elaborate e dissonanti di Drazek; sembra quasi di sentire una versione lunare degli Storm & Stress con zero-0-zero voglia di scherzare.
Nella seconda parte del disco scivola circospetto Eugene Robinson, che sostituisce Iwank alla vocalità lugubre e schizofrenica, con gli effetti che si potevano preventivare: l'adattamento è perfetto e il suono si fa  sempre più rarefatto nella notte impenetrabile di Chicago.
Obiettivamente sarebbe stato improbabile fare di meglio e andare oltre un percorso così impressionante, a meno di non cambiare drasticamente area. Drazek e Iwank giunsero perciò a fine missione e l'anno successivo divisero le loro strade. Il resto è un altra storia; onore e gloria ai Rope.


domenica 13 ottobre 2013

Rope ‎- Widow's First Dawn (2003)

Nel momento in cui Fever viene ripubblicato, Iwank e Drazek mollano la madrepatria e si trasferiscono a Chicago, immagino alla ricerca non certo di fama nazionale ma perlomeno di un po' di riconoscimenti. Nuova vita, nuova formazione; inseriscono Kendrick, nevrotico batterista di chiara estrazione free-avant, e diventano un trio che debutta così sulla lunga distanza con Widow's first dawn.
SIB di Blow Up, l'unico italiano che abbia scritto qualcosa sui Rope e che aveva incensato Fever, resta deluso e boccia il cambiamento come una normalizzazione, allineamento ad una (presunta) moltitudine di bands già esistenti su questo filone. Ma quale, poi?
Widow si apre, lussurioso e famelico, alla ricerca di nuovi spazi, fuori dalle paludi purgatoriali, con timbri inediti ed un assetto rilanciato: il poderoso batterista si presenta cauto, svolazza sui piatti, rispettoso dei due capi pensanti, ma quando c'è da entrare in campo sul serio lo fa a gambe tese, ritagliandosi lampi di notevole esposizione. C'è come un'evoluzione dinamica che arricchisce il complesso, e lo testimoniano le ospitate anche se abbastanza marginali: una cantante jazz soprano che emette singulti altissimi, un sax e un piano che abbelliscono qualche passaggio. E' soprattutto un disco di composizioni, per tanto fratturate e scomposte che siano, è l'apoteosi dei loro scarti-pieno/vuoto che incutono timore ed interrogativi: è il disco in cui Drazek rinuncia drasticamente a trapanare le corde alte alla velocità della luce ed emerge come talento irregolare dal campionario sorprendente (specialmente sugli accordi impressionistici), in cui il lamento di Iwank si fa più stentoreo e udibile (in Widow's first dusk alza persino la voce).
E' un capolavoro senza se e senza ma; per quanto Fever fosse sorprendente, forse non avrebbe tenuto la lunga distanza. E l'evoluzione fu formidabile.

venerdì 11 ottobre 2013

Rope - Fever EP (2002)

Un'entità assurda, fuori non dai canoni, ma proprio dal normale, capace di inventarsi una formula che tal si potesse definire, che ha bruciato in 5-6 anni tutta la sua perdizione avanguardistica. E che non a caso, direi, proveniva da una landa estranea sia all'anglosassone che all'Europa occidentale; la Polonia.
Drazek e Iwank registrano il loro debutto nel 2001, che esce sulla tape label locale Every Colour Production e finisce chissà come fra le mani dell'etichetta avant Family Vineyard di Minneapolis, la quale l'anno successivo lo ripubblica come Fever.
Ed è mezz'ora di paura, all'istante. I due non hanno bisogno di molta strumentazione: Iwank suona un basso cupo e rimbombante, intestardito su linee minimali e scurissime, di tanto in tanto biascica qualcosa di catacombale a voce bassa. Drazek elettrifica una chitarra classica a cui infonde il maggior delay/riverbero possibile, ed è il lobotomizzatore della situazione che si inerpica sulle note più alte con una foga ossessiva (plettro folle) che ha del sovrumano, creatore di spirali che si conficcano nel cervello senza far prigionieri.
Quando Drazek si dà una calmata o perlomeno non impazzisce, la musica dei Rope è un lungo e nevrotico requiem capace di creare tavolozze cubiste (Liquid courage, la fase centrale di Imagination of rhythm) e solenni astrattismi di fascino monumentale.
Alla prossima puntata....

giovedì 10 ottobre 2013

Ronin - L'Ultimo Re (2009)

Una delle 3 occupazioni di Dorella, che lo vede factotum, chitarrista e compositore; Ronin è il suo quartetto strumentale che produce folk elettrificato, quasi sempre molto compassato e dai toni blandi.
Il nome della band è preso da un film con De Niro e potrebbe anche rendere l'idea e le intenzioni, dato che sembra sound studiato per sonorizzare qualche pellicola ambientata generalmente nel sud Europa; affiorano ambientazioni sub-balcaniche, qualche incursione riecheggia i Calexico, nei momenti più letargici sembra addirittura di sentire gli ultimi Earth.
Ma è troppo poco per emergere, ed in sostanza non ci si eleva mai da un anonimo manierismo.


mercoledì 9 ottobre 2013

Rollerball - Trail of the Butter Yeti (2001)

Da quando, un paio d'anni fa, ascoltai per la prima volta i Rollerball, sono corso a procurarmi la loro intera discografia ed ho scoperto qualcosa di più di un interesse. Non ho modo di sapere se sono ancora attivi (l'ultimo disco è del 2009), ma la sostanza è che questi art-rockers hanno creato una formula chimica intrigantissima a base di free jazz (l'iniziale Pest suona come una variazione di The end of an ear di Wyatt), grossi echi canterburyani (meraviglie come Lon chaney e Earth 2 wood) e sballi astratti come manco i Jackie-O Motherfucker.
Isolati da qualsiasi scena ma in grado di attirare piccoli seguiti in tutto il mondo, i Rollerball sono da ascoltare in tutta la loro complessità, che dopotutto suona mai pesante e si fa amare per le spiccate melodie che affiorano.

martedì 8 ottobre 2013

Rodan - Fifteen Quiet Years (2013)

Quando ho visto per la prima volta il titolo mi è venuto un colpo ed ho pensato: ma che fanno? La reunion adesso che Noble è appena scomparso? Invece no, per fortuna è (non solo) una raccolta che finalmente diffonde in via ufficiale la Peel Session del 1994 ma non solo; mette un po' in ordine le poche cose scarse fatte uscire nel biennio di esistenza. Il singolo How the winter has passed, 2 apparizioni su compilation e due versioni embrionali dell'infiammabile Shiner ed il loro climax emotivo Tooth retribution manifesto.
Sbrigate le formalità, c'è poco da dire sulla qualità intrinseca, che rispetto a Rusty si manifesta più grezza ed immediata; ideale anello di congiunzione fra post-rock della prima ora e complessità post-hardcore, i Rodan furono una congiunzione astrale di quelle che non restano scolpite nella memoria soltanto per via della propria meteorità. E persino una raccolta di frattaglie disomogenee come questa sta lì a dimostrarlo, che si chiama 15 anni tranquilli perchè era stata ideata nel 2009 e poi posposta ad oggi.

lunedì 7 ottobre 2013

Claudio Rocchi - 1971 Volo Magico No.1

Figura peculiare di cantautore, sfuggente ed evanescente al punto di non potersi fregiare di un disco-capolavoro nel vero senso della parola. Forse perchè troppo girovago su diversi stili, alla ricerca di chissà quale visione. Ecco, Rocchi fu un visionario cresciuto nel melodismo ma troppo diverso per attirare successo commerciale nel paese.
Comunque, Volo Magico n. 1 viene normalmente indicato come il suo lavoro migliore, ma per favore non mi si venga a parlare di psichedelia. La title-track dura 18 minuti, inizia abbastanza hippy-westcoastiana, poi subentra il motivo principale, per la verità molto bello e struggente; quando il pezzo potrebbe finire e fare ancora la sua sporca figura, subentra invece una jam interminabile e abbastanza noiosa che ne sminuisce il lavoro. L'altra traccia significativa, Giusto amore, contiene sempre lo stesso schema per 11 minuti che pur essendo pregevole viene ancora tirato troppo per le lunghe. Poco importanti le altre due brevi tracce per piano e voce.
Va bene, non ho ascoltato la sua discografia intera. Massimo rispetto, ma.....

domenica 6 ottobre 2013

Eugene S. Robinson & Xiu Xiu - Sal Mineo (2013)

Per me un caso più unico che raro, andare a vedere qualcuno dal vivo prima di averlo mai sentito su disco. Chiaro che non si tratta di elementi sconosciuti, però fa un certo effetto e ad ascoltare Sal Mineo a casa le considerazioni sono semplici ed elementari. Innanzitutto la produzione privilegia certi aspetti musicali (talvolta anche notevoli, nel miglior stile Xiu Xiu) che Stewart aveva certamente estremizzato sul palco; non vi sono pressochè rumorismi assordanti che spesso ci facevano sobbalzare dalla paura. Inoltre, pare di visualizzare nella mente l'impatto teatrale di Robinson e l'ascolto ne guadagna; forse senza di questo una attenzione superficiale ne pregiudicherebbe il giudizio.
Considerazione finale, il contesto resta sempre molto ostico e credo concettuale (non ho avuto modo di capire la tematica, ma è una mia carenza), lo collocherei in un area free-elettronica che non sarà forse avanguardistica, ma fa impressione.

sabato 5 ottobre 2013

Steve Roach - Dreamtime Return (1988)


Monumentale e monolitico archetipo di ambient puramente tastieristica, con sprazzi di etnica dovute a dibattimenti di percussioni che a tratti movimentano un po' questo oceano che segue la curva del pianeta con solennità e perchè no, anche candore, senza nulla togliere.
Onestamente, è l'unico disco che conosco di Roach e lo ascolto oggi per motivi criticamente e cronicamente noti: bello, bellissimo e monumentale, i suoni cristallini e tutto, però....due ore e passa sono difficili da seguire, quindi risulta un po' complicato trarre una disamina sulla concettualità del disco, sempre che ce ne sia una (pare sia l'Australia). Sottofondo di lusso, sia ben chiaro; ma dopo averlo ascoltato una volta non scatta quella freccia che fa breccia.

giovedì 3 ottobre 2013

Rivulets - You Are My Home (2005)

Il miglior disco di Amundson, sempre ricco di lirismo ed ombroso intimismo ma con qualche apertura strumentale nuova che per qualche bel tratteggio potrebbe anche dare l'idea di gruppo, al contrario dei due precedenti che erano fin troppo scarni.
Merito degli ospiti, di indubbio valore (fra cui Brokaw alla batteria, senza fare cose turche ma con vigore costruttivo specialmente in Happy ending, ed il violoncellista dei Rachel's) e a volte risolutivi nel mischiare le carte di un cantautore a volte un po' soffocato dalle sue nenie. Che poi a volte sono davvero bellissime, Glass Houses, Can I wonder, Morning light, un po' Drake e un po' Kozelek anni 95-96, a volte un po' più manieristiche e scontate. Però nel complesso You are my home si fa piaciucchiare; non gli fa fare il salto di qualità (poi definitivamente scongiurato con l'ultimo, debole We're fucked) nell'olimpo dei grandi songwriter acustico-introspettivi, e resta appannaggio degli stretti appassionati del settore.

Ride - Nowhere (1990)

Capitolo simbolico della stagione shoegazer inglese, e che tutto sommato è invecchiato bene; non so se per la produzione che fu molto buona o per via delle composizioni che suonano meno caramellose di quanto si possa pensare, all'orecchio di chi non lo ricordava (come me) o di chi l'ha mai ascoltato. Segnale che il grande successo inglese per una volta arrise a musicisti di buona qualità.
I Ride gettavano un ponte fra jingle-jangle di chiara derivazione '60, il pop più autunnale britannico e la psichedelia acida per mezzo di chitarre squillanti e mai troppo ipnotiche, un cantante soave ed un ottimo batterista. Il bello di Nowhere è che non ci sono pezzi deboli ed il meccanismo è oliato a perfezione, con In a different place, Paralysed e la title-track in rilevanza. Riuscirono in sostanza a fare ciò che i potenziali concorrenti Levitation non furono in grado di fare: concentrarsi e fare un gran bel disco.

martedì 1 ottobre 2013

Rex - All 7" (1995) + Waltz EP (1996)

All fu il primo singolo dei Rex, non so se uscito prima o dopo il disco lungo d'esordio, ed ovviamente ne ricalcava registrazione lo-fi ed ipnosi circolari: sonnolenta ballad con fisarmonica sul lato A, inquietante e minimale nenia strumentale sul B.
Meglio l'EP Waltz, che ripescava High school dance hit sempre dal primo ma poi sfoderava tre inediti presumo rimasti fuori dal divino C. Willow garden e Sorry esplorano il loro concetto di langue country abbinato ad uno struggente songwriting; chiude con clamore Blue eyes you're not, da considerare uno dei massimi inni dello slow-core, o come uno dei migliori pezzi mai composti dai Codeine. Grandi.