Il miglior disco di Amundson, sempre ricco di lirismo ed ombroso intimismo ma con qualche apertura strumentale nuova che per qualche bel tratteggio potrebbe anche dare l'idea di gruppo, al contrario dei due precedenti che erano fin troppo scarni.
Merito degli ospiti, di indubbio valore (fra cui Brokaw alla batteria, senza fare cose turche ma con vigore costruttivo specialmente in Happy ending, ed il violoncellista dei Rachel's) e a volte risolutivi nel mischiare le carte di un cantautore a volte un po' soffocato dalle sue nenie. Che poi a volte sono davvero bellissime, Glass Houses, Can I wonder, Morning light, un po' Drake e un po' Kozelek anni 95-96, a volte un po' più manieristiche e scontate. Però nel complesso You are my home si fa piaciucchiare; non gli fa fare il salto di qualità (poi definitivamente scongiurato con l'ultimo, debole We're fucked) nell'olimpo dei grandi songwriter acustico-introspettivi, e resta appannaggio degli stretti appassionati del settore.
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