Nel momento in cui Fever viene ripubblicato, Iwank e Drazek mollano la madrepatria e si trasferiscono a Chicago, immagino alla ricerca non certo di fama nazionale ma perlomeno di un po' di riconoscimenti. Nuova vita, nuova formazione; inseriscono Kendrick, nevrotico batterista di chiara estrazione free-avant, e diventano un trio che debutta così sulla lunga distanza con Widow's first dawn.
SIB di Blow Up, l'unico italiano che abbia scritto qualcosa sui Rope e che aveva incensato Fever, resta deluso e boccia il cambiamento come una normalizzazione, allineamento ad una (presunta) moltitudine di bands già esistenti su questo filone. Ma quale, poi?
Widow si apre, lussurioso e famelico, alla ricerca di nuovi spazi, fuori dalle paludi purgatoriali, con timbri inediti ed un assetto rilanciato: il poderoso batterista si presenta cauto, svolazza sui piatti, rispettoso dei due capi pensanti, ma quando c'è da entrare in campo sul serio lo fa a gambe tese, ritagliandosi lampi di notevole esposizione. C'è come un'evoluzione dinamica che arricchisce il complesso, e lo testimoniano le ospitate anche se abbastanza marginali: una cantante jazz soprano che emette singulti altissimi, un sax e un piano che abbelliscono qualche passaggio. E' soprattutto un disco di composizioni, per tanto fratturate e scomposte che siano, è l'apoteosi dei loro scarti-pieno/vuoto che incutono timore ed interrogativi: è il disco in cui Drazek rinuncia drasticamente a trapanare le corde alte alla velocità della luce ed emerge come talento irregolare dal campionario sorprendente (specialmente sugli accordi impressionistici), in cui il lamento di Iwank si fa più stentoreo e udibile (in Widow's first dusk alza persino la voce).
E' un capolavoro senza se e senza ma; per quanto Fever fosse sorprendente, forse non avrebbe tenuto la lunga distanza. E l'evoluzione fu formidabile.
Nessun commento:
Posta un commento