martedì 31 marzo 2020

Wipers ‎– Youth Of America (1981)

Il secondo album dei Wipers, due anni dopo Is this real?, denotava una crescita irregolare. Anzichè progredire verso l'hardcore o verso la new-wave, Greg Sage se ne stava per una strada tutta sua, contribuendo ad una forma embrionica di grunge, grezzo e contaminato in anticipo. La vorticosa Can This Be e la dimessa altalena di No Fair in effetti possono ascriversi a progenitori di Nirvana e dintorni, giustificando la decantata ammirazione di Kurt Cobain. Ma non sarebbe corretto limitarsi a questo: il fragore psichedelico dei 10 minuti della title-track, l'iniziale Taking Too Long, quasi una precursione del Grant Hart adulto, i clangori quasi gotici di Pushing The Extreme ed il lungo melodramma acido di When It's Over, tutto denotava un autore maturo e pronto per un capolavoro omogeneo pronto in canna.

domenica 29 marzo 2020

Lino Capra Vaccina ‎– Metafisiche Del Suono (2017)

Dopo aver giustamente incassato la rivalutazione che meritava per la ristampa di Antico Adagio nel 2014, il vecchio Vaccina è tornato ad avere un'attività continua e cospicua e con franchezza non mi aspettavo che potesse raggiungere un risultato artistico rilevante con questo Metafisiche Del Suono, un superbo album. Segno importante che la vecchia classe avanguardistica dei '70 può ancora riservare belle sorprese, che le generazioni antiche possono ancora dare del filo da torcere ai giovani e che la loro classe resta immutata anche dopo tantissimi anni.
MDS è un disco splendente, luccicante, dal suono fantastico; l'architettura delle 6 tracce si regge su vibrafono e percussioni leggere suonate dal barlettano, che si avvale in un paio di tracce di due collaboratori (il chitarrista Tanner e l'oboista Mozzoni). Ma appare evidente come il suono imponente ed immortale di un grand piano sia il vero protagonista dei 14 minuti di Metafisica Del Suono, la monumentale traccia di apertura, un autentico circolo magico che avvolge senza possibilità di ritorno. Il contraltare consiste nella chiusura, i 10 minuti di Metafisica del Silenzio, dove il grand piano ritorna in vesti più dimesse, per un finale dal sapore notturno e divinamente meditabondo.
Il centro dell'opera svaria su panorami più espansi, dai sapori etnici (Lo spazio trascendente), grotte sonore minacciose (Policromie sospese), sgocciolii acuti (Il silenzio interiore), cattedrali solenni (Geometrie Astrali). Un disco quasi impossibile da smettere di ascoltare, di quelli che diresti appartenenti ad un altra era, che in questi anni disordinati solo un glorioso reduce a braccia aperte può permettersi di realizzare e dare in pasto ad orecchie bisognose di sollievo interiore. Applausi.

venerdì 27 marzo 2020

Screams From The List #93 - Smegma ‎– Glamour Girl 1941 (1979)

Il super-delirante esordio dei californiani, uno dei gruppi più longevi dell'intera storia moderna (l'ultimo album è del 2019, ed è circa il 50esimo, ma più che altro perchè l'attività si è fatta ultra-frenetica negli anni '10) nonchè uno dei più folli e comunque tributati dalla scena weird-noise americana.
Difficile analizzarne la carriera, perchè ho ascoltato solo due album a caso degli anni '80, e non ne ho maturato una grossa impressione. Invece Glamour Girl 1941, forse favorito anche dalla congiuntura temporale (qualcuno osa sostenere che il 1979 non sia stato un anno incredibile nella storia della musica moderna?) è un notevole compendio di musica off, ovviamente prodotto e suonato in maniera approssimativa ma con una visione di follia molto lucida e ludica. La prima parte del disco verte su un free-jazz demente e compassato, con sax e contrabbasso in evidenza, mentre la seconda spinge agli estremi psicopatici, con collage vocali dell'assurdo, rumorismi, concretismi, ed un'aggressiva chitarra elettrica che in qualche modo giustifica il coraggioso appellativo da parte di qualche giornalista di uno dei primi gruppi noise-rock della storia (primo anche no, si pensi soltanto alla Nihilist Spasm Band). In ogni caso, un capitolo importante della non-ortodossia americana, e abbastanza seminale.

mercoledì 25 marzo 2020

Scott Walker ‎– Climate Of Hunter (1984)

L'unico disco di SW negli anni '80, ben distante dalle precedenti prove con i Bros ed ancora di più da quel tenebroso Tilt che lo vedrà tornare dopo un decennio.
Climate Of Hunter pertanto è un oggetto misterioso, non soltanto nella sporadica carriera dell'artista, ma anche relativamente al periodo ed ancor di più nel decennio. Si tratta di un disco formalmente impeccabile, suonato e prodotto in maniera millimetrica (con ospiti di tecnica ineccepibile), in grado di aggiornare all'epoca il glorioso cantautorato sinfonico del Nostro (Sleepwalkers Woman, Dealer), ma con una decisa accelerazione delle ritmiche verso una forma di new-wave di eleganza sopraffina (Track 3, Track 5, Track 7) e con episodi ancor più anomali come l'incrocio di tutto di Rawhide, la spettrale Track 6, con il sax dissonante di Evan Parker sugli scudi, e la finale acustica Blanket Roll Blues, una cover rarefatta di country-jazz per chitarra e voce che chiude in maniera controversa un disco che resta una felice anomalia isolata nella carriera di SW.

lunedì 23 marzo 2020

Nivhek ‎– After Its Own Death / Walking In A Spiral Towards The House (2019)

A sorpresa, a neanche un anno dal disarmante Grid Of Points, la divina Liz Harris è tornata con un nuovo monicker, forse per motivi contrattuali, forse no, perchè questo lavoro è collegato ad un installazione audiovisiva in società con un artista specializzato nella materia, quindi probabilmente slegato dal percorso che negli ultimi anni l'ha elevata a diversi metri da terra.
Comunque non ha molta importanza, perchè tanto Liz è in uno stato di grazia artistica tale da potersi permettere anche questa (presunta) divagazione. Non è tanto un ritorno alle vaporose stratificazioni dei primi anni, nè una raccolta di brevi composizioni soffiate in punta di piano e voce; si tratta di un'ora divisa in 4 lunghe parti, in cui il suo tocco magico si diffonde concentrico e dilatato nella creazione di diversi paesaggi sonori, apparentemente con un filo conduttore, in un ipotetico viaggio nelle località di riferimento dell'installazione sopracitata.
La prima sezione, After Its Own Death, è una superba quarantina di minuti che inizia con una corale mozzafiato, prosegue con un drone intermittente che subordina minaccioso, fiorisce e svanisce in un cicaleccio labirintico di vibes. Il tempo di girare il piatto e Liz rispolvera la chitarra elettrica, per un lungo soliloquio dal sapore desertico. Altro intermezzo assordante di drone, e poi lunga fase di organo.
La seconda sezione, Walking in a spiral, dura venti minuti e verte essenzialmente su quest'organo (mi si perdoni la non conoscenza del termine preciso oppure l'incomprensione) che suona come le vibes, per una suite compatta che gira attorno ad un tema desolante e contemplativo. 
Liz ha fatto di nuovo centro, e con questo lavoro ha mietuto consensi anche fra la stampa specializzata, dopo le forti critiche ricevute per Ruins e Grid Of Points. E' il risultato superbo di un perfetto incrocio fra la sua anima ambientale e quella emotiva, la cui salomonica copertina in b/n, chissà perchè, mi ha ricordato la scena finale di Perdizione di Bela Tarr.

sabato 21 marzo 2020

Spandau Ballet ‎– Live From The N.E.C. 1986 (2005)

Un tuffo nella giovinezza più remota, per un live che peraltro all'epoca non uscì e pertanto permette di affrontarlo con orecchio vergine e la dovuta obiettività. Non ho mai nascosto il mio amore per gli SB, non soltanto per i primi due dischi, che erano sì pop ma con delle raffinatissime inflessioni electro-wave, ma neanche per quelli di maggior successo, e che mi riportano a respirare l'aria degli anni '80, della mia pre-adolescenza e di quel mondo che era così sereno e spensierato (a torto, ma questo è un discorso più ampio).
Live From The NEC immortala gli SB al vertice assoluto della loro popolarità, nel dicembre del 1986, finalmente vincitori anche in casa, in quel di Birmingham. E' un set da 90 minuti che si concentra sui pezzi di Through the barricades, Parade e Gold, (unica eccezione una straordinaria rendition analogico/organica di To Cut A Long Story Short), che vede una band rodata ed in forma stellare, in grado di rendere piena giustizia ad un materiale nettato dalle levigature produttive dello studio. Ci guadagnano un po' tutti, soprattutto la sezione ritmica, e ci fa il solito figurone Tony Hadley, con una performance impressionante e zero stecche rilevate.
Un set altamente energetico, il che spiega forse anche il motivo per cui non venne pubblicato all'epoca.

giovedì 19 marzo 2020

Chrome – Retro Transmission (1997)

La storia è ben nota; nell'estate del 1995 un Damon Edge obeso ed in pessimo stato di salute generale morì di attacco cardiaco nel suo appartamento e nessuno se ne accorse per un mese, fino a quando i vicini fecero forzare la porta d'ingresso. Helios Creed solista viaggiava già a gonfie vele da un decennio e poco dopo sentì non meglio previsate voci di corridoio tipo "hey, prendiamoci il nome Chrome e sfruttiamolo, chè è libero", così ri-prese prontamente possesso del marchio, richiamò i fratelli Stench, aggiunse due membri stabili del suo gruppo, si accordò con la Cleopatra e ristabilì l'entità Chrome in madrepatria. Che fosse un tributo all'ex-amico scomparso o che fosse un esigenza di diritti, non ha avuto molta importanza. Retro Transmission era di fatto un suo nuovo album solista, perchè conservava tutti i caratteri dei suoi predecessori; l'unica differenza è che fu il migliore dal 1992, da Kiss To The Brain, quindi si potè salutare come un buon ritorno alla forma per il re dell'Acid-Punk. A parte un paio di cadute di tono e qualche giro a vuoto, il suo cyber-chitarrismo faceva ancora scintille, sia scatenato nelle tracce più anfetaminiche che dilatato in quelle più sulfuree e spacey. Interessanti anche le derive della seconda parte del disco, su sonorità decisamente più rilassate, seppur sempre intrise di quei sentori alieni che il Nostro porta sempre con sè.

martedì 17 marzo 2020

Public Image Ltd ‎– First Issue (1978)


Si fa presto a dire Metal Box, certo. Ma siamo sicuri di non esserci dimenticati l'importanza di First Issue e la portata di rottura che ha comportato? Quella produzione così precaria ma al tempo stesso così significativa e pregnante?
L'ossessione è il concetto alla base di tutto, con l'apertura shocking di Theme, e avrei voluto vedere le facce e le reazioni all'epoca. Con le felici anomalie di Public Image, Low Life, Attack, inni post-punk tutto sommato ancora nella norma, First Issue è un assalto all'arma bianca art-punk destinato a non essere replicato. Religion II e Annalisa i ponti supremi di passaggio. E la chiusura di Fodderstompf è il k.o finale, come gettare la maschera, digrignare i denti e bofonchiare ma cos'avete capito? Un bel niente, perdenti.

domenica 15 marzo 2020

Stray Ghost ‎– A Shade Under Thirty (2018)

Uno iato insolito per Anthony Saggers, quello intercorso fra i due album maggiori del 2014 e quest'ultimo A Shade Under Thirty: nel frattempo sì, ha rilasciato delle pubblicazioni corte / di outtakes su Bandcamp, ma da quando ha iniziato non aveva mai fatto passare così tanto tempo fra un album e l'altro. Pausa di riflessione? Preparazione di cambio stilistico, insieme a quello consueto di etichetta?
No, nulla di tutto questo: Saggers è rimasto sè stesso e non è cambiato di una virgola. Sinceramente, non so se mi piacerebbe ascoltare una sua conversione ad altro. Le sue compassate panoramiche pianistiche restano inconfondibili (ispiratissime anche le tracce a base di archi, forse una direzione che dovrebbe intensificare)., e questo doppio vinile centra l'obiettivo per l'ennesima volta, col suo intento di ricreare un microcosmo che permette all'ascoltatore di evadere dai problemi quotidiani, e dallo stress della vita moderna. Come solo i grandi hanno saputo fare.

venerdì 13 marzo 2020

Monster Magnet ‎– 25 Tab (1991)

Episodio in qualche maniera collaterale dei primi MM, di quando in formazione c'era ancora l'importante chitarrista John McBain, defenestrato da Dave Windorf poco dopo il loro capolavoro Spine Of God. Tab, una testimonianza dei primi concerti del gruppo, è un monolite insensato di 32 (!) minuti, dalla ritmica medio-lenta immutata, sopra di cui si innervano tutti gli audio-generators possibili che si mangiano chitarre e voci. A seconda dello stato d'animo con cui si affronta, può essere completamente inascoltabile come un viaggio avvincente.
Le cose serie arrivano nella facciata B del vinile. 25, di 12 minuti, è una delle prove migliori di tutto il loro repertorio, un killer efferato calibrato alla perfezione fra gli Stooges di Funhouse e gli Hawkwind di Doremifasol latido, una composizione in progress che decolla veramente col passare dei minuti. Esaltante anche  la compatta Longhair,  mentre Lord 13 chiude con profumi d'incenso spinoso, relax meritato dopo un trip davvero duro. La ristampa del 2006 ha aggiunto come bonus una versione live dell'epoca originale di Spine Of God, molto lo-fi ma dalla resa tremebonda, con la voce di Wyndorf che si inerpica su vette che non avrei mai pensato potesse raggiungere.

mercoledì 11 marzo 2020

Pixies ‎– At The BBC (1998)

Più o meno a metà dello iato che ha separato la fine dei Pixies dalla reunion del 2004, una 4AD in fase di cambio di proprietà mise in commercio l'antologia delle 6 sessions tenute dai bostoniani alla BBC, in un arco temporale fra il 1988 ed il 1991. Per i nostalgici fu una manna piovuta dal cielo, ed infatti At The BBC resta un documento indirizzato principalmente a loro: le versioni non differiscono di tanto dagli originali, gli inediti sono soltanto 2 cover che più che altro sembrano scherzi, e la scaletta curiosamente non soltanto non è in ordine cronologico, ma sembra proprio fatta a random, senza un criterio apparente.
Tutto questo soltanto per dire che, una volta fatta la tara da questi piccoli contro, ci si immerge in queste sessions senza pensieri e si gode l'ennesima volta del genio di Frank Black, della tipica, ispida e in-your-face produzione BBC e di queste canzoni che restano immortali. Pace.

lunedì 9 marzo 2020

Evergreen - Evergreen (1996)

Quanto sia veramente folle Britt Walford l'abbiamo ben scoperto visionando Breadcrumb Trail, il fantasmagorico documentario sugli Slint. Il suo peregrinare senza una meta dopo la fine del gruppo, il suo finire a fare i lavori più disparati, le sue risposte all'intervistatore, tutto fa seriamente dubitare sulla sanità mentale di questo genio non completamente espresso e purtroppo fermo per troppo tempo senza fare musica. Una delle sue rare partecipazioni attive post-Slint fu quella con gli Evergreen, un quartetto concittadino dedito ad una forma evoluta ed intelligente di garage-punk. Certo non tantissima cosa rispetto al passato, ma nel suo genere quest'unico album rilasciato nel 1996 si allinea agli standard più alti del genere. Influenzati principalmente dai Fugazi ma in grado di convincere per la scrittura, gli Evergreen avevano le potenzialità per sfondare ben oltre il Kentucky, con tracce trascinanti ed intelligenti come Solar Song, Whip Cream Bottle, Klark Kent, New York City e Coyote, che hanno anche il merito di malcelare un evidente contributo/deviazione dalla comoda strada maestra, che indovina indovinello, da chi saranno state imbeccate?

sabato 7 marzo 2020

Idaho ‎– You Were A Dick (2011)

Solo un desiderio; che You were a dick non rimanga l'ultimo. E' estremamente importante che Jeff Martin non abbandoni questo magnifico viaggio, che lo porti al trentennio, non importa quando uscirà il prossimo; basta che ce ne sia uno.
Non ha usato mezzi termini in un intervista, questo mio idolo; fare musica per la televisione non è un lavoro invidiabile. Può essere molto frustrante, limitante, frettoloso, può portare anche fuori di testa, ma in fondo è l'unico che può garantirgli la sicurezza economica. Ciò ha inevitabilemente influenzato il suo modo di fare musica ed ha trasportato l'entità Idaho alla naftalina, dopo l'ennesimo gioiello The Lone Gunman del 2005. E così, in verità, You were a dick è rimasto il suo ultimo di inediti; ma come Jeff stesso ha ammesso, è composto di scarti derivanti dalle sonorizzazioni, rilavorati e adattati al formato dell'album. Questo spiega il breve minutaggio generale delle 15 tracce, la mancanza di coesione ed il salto di palo in frasca delle atmosfere; dalla vignetta iper-indolente alla power-ballad, dal solo piano al solo ambientale, senza un filo conduttore apparente. Forse con un lavoro produttivo più accurato si sarebbe potuto tirare fuori un super-disco, ma è proprio questa sua natura precaria che rende speciale YWAD; oggi Jeff è così, prendere o lasciare. Weigh It Down, Waited For You, Impaler, The setting sun le nuove, piccole perle.

giovedì 5 marzo 2020

Stormy Six ‎– L'Apprendista (1977)

Quello che viene definito normalmente il disco più progressive degli S6. Un'ossimoro. Come si fa a definire progressive un gruppo che ha avuto così tante metamorfosi in corsa e che, anche avvicinandosi al genere, riusciva a mantenere la propria inossidabile dote senza svalutarsi?
L'apprendista dimostra tutti gli anni che ha, esattamente come l'it-prog stesso. Ha la produzione secca e calibrata tipica di quegli anni che mette in mostra tutti gli elementi e i ricchi arrangiamenti, ma conserva una sua misura e un buon senso mirabolante. Grande risalto alla sezione ritmica, ai fiati e agli archi. Composizioni strabilianti come Il Labirinto, Carmine, Il Barbiere sono già purissimo RIO-style, e quindi giù un unicità del tutto mediterranea. Da non dimenticare.

martedì 3 marzo 2020

Daughters ‎– You Won't Get What You Want (2018)

Ottimo esperimento di modifica genetica al noise-rock. I statunitensi Daughters, nati ad inizio anni Zero, fecero due album per poi sciogliersi, e questo ritorno in sordina ha finito per diventare uno dei dischi più incensati dalla stampa degli ultimi tempi. La riuscita generale di You won't get...non sta soltanto nell'approccio, allucinato e rabbioso, ma sta anche nella produzione che permette loro di evolvere dalle radici classiche noise/post-hardcore; la chitarra di Sadler, infatti, a volte suona più come un synth che come un infiammabile tipica, e come quasi sempre in questi casi, i pezzi più interessanti sono quelli che sviano dal seminato originale per assumere direttive quasi gotiche (Satan In The Wait, Daughter, Less Sex), alla Swans. Per il resto, gli echi di Unsane e Cop Shoot Cop vanno a scontrarsi con memorie antiche di Gun Club e tardi Dead Kennedys, tutto trasposto nel presente disastrato e caotico di questo mondo marcio. I Daughters ne sono una voce attualissima e credo che, se avranno più coraggio, potremo sentirne ancora delle belle da parte loro.

domenica 1 marzo 2020

David Sylvian + Holger Czukay ‎– Plight & Premonition (1988)

Ristampato nel 2018 insieme al suo fratello minore dell'anno successivo, il primo atto di DS + HC è un masterpiece ambientale nonchè operazione di fusione artistica dalla chimica perfettamente riuscita. Sylvian si era già dato con successo alle musiche di meditazione e contemplazione con il secondo disco di Gone To Earth, ed ancor prima con l'ambizioso Alchemy. Czukaj veniva da un decennio post-Can iniziato alla grande, ma in cui successivamente aveva denotato una certa indecisione ed una tendenza generale alla collaborazione collettiva.
Plight & Premonition fu una specie di epifania: mi sembra tutto tranne che scontato stabilire con facilità chi ha fatto chi, come invece ha sentenziato PS nella sua scheda. Ciò che conta è che questi due flussi contengono del divino, che avvolgono con le puntate minacciose e poi rilasciano con quelle serene e distese. Ci si abbandona sui droni puliti, si sobbalza alle impennate di found sound (quelle senz'altro di HC), si sogna ad occhi aperti. Più seriosa e concentrata Plight, più rilassata e sgranata Premonition. Giocoforza, il successivo non sarà a quest'altezza stratosferica.