domenica 30 ottobre 2022

Fishmans ‎– Uchu Nippon Setagaya (1997)


No, non mi illudevo di trovare qualcosa di simile al diamante Long Season, perchè la scheda di PS è stata fin troppo chiara: i Fishmans erano un gruppo pop a tutti gli effetti, cresciuto per cercare il successo e compiacere il pubblico di casa. La storia racconta che non ci arrivarono e furono brutalmente costretti al finecorsa per via della prematura morte del cantante, ma questo è un altro discorso. Intanto il successore di Long Season tornava a modelli compositivi più standardizzati, ma metteva comunque sul palco una band che, pur confinata in una produzione molto mainstream, riusciva a coniugare il proprio spirito libero e rilassato con composizioni genuine e accattivanti senza essere troppo zuccherose come il j-pop più canonico. La ragione è semplice: erano ottimi musicisti e trovavano soluzioni armoniche ricercate. Dream-pop, trip-hop, funk, dub-reggae, soul, pop sinfonico, quello dei Fishmans era un citazionismo-situazionismo brillante e sofisticato. Vien quasi da ipotizzare che ci sia stato un motivo per cui non sfondarono presso il grande pubblico trasversale: a pensarci bene, questa è musica adulta anche per noi occidentali.

giovedì 27 ottobre 2022

Part Chimp ‎– Thriller (2009)


I possenti PC al terzo album, degnissima chisura di un trittico micidiale prima di un lungo iato che li vedrà tornare soltanto nel 2017. Il precedente I Am Come li aveva rivelati come i campioni britannici di un noise-rock monolitico e bruciante; Thriller rallentava i ritmi, andando spesso a sfiorare un passo doom, in un ottica quasi melvinsiana, ma senza l'ombra di una minima ironia. E' un disco concettualmente melmoso e cattivo, ma con una cura del suono impressionante; le chitarre sparano granito puro, l'ottimo batterista si erge protagonista con uno stile non dissimile da quello di Dale Crover, i pezzi si susseguono con omogeneità creando muri di tensione velenosa: Sweet T, Tomorrow Midnite, Starpiss i più avvincenti. Se il loro percorso si fosse concluso qui, non li avrei comunque dimenticati.

lunedì 24 ottobre 2022

Bay – Alison Rae (1995)


Secondo ed ultimo album del duo Jason Taylor-Aidan Moffat, con quest'ultimo immortalato in una foto che forse a rivederla lo imbarazzerebbe un pochettino. Rispetto all'esordio dell'anno precedente non era cambiato un granchè, al limite un miglioramento nella produzione, qualche chitarra fragorosa in più e qualche impennata ritmica (che dimostrava anche il progresso di Aidan alla batteria). Il cantautorato di Taylor, per quanto derivativo fosse, era comunque in buona forma e i numeri di livello non mancano in scaletta: Ruptured, Dutch, Siamese, A Great Red Shark, In Lisa's Living Room, denotavano uno slow-core di indubitabile derivazione RHP, sotto tutti i punti di vista, e quindi riservato agli strettissimi amanti del genere. A riascoltarlo oggi, dopo tanti anni, non nascondo che la sua qualità mi ha sorpreso, a dispetto anche della durata (insieme ad Alison Rae è presente un secondo CD per voce e chitarra acustica, niente male anch'esso); Jason Taylor avrebbe meritato un proseguio anche se non se lo sarebbe filato nessuno, ed invece finì per rosicare nei confronti di Moffat, a suo dire colpevole di avere esportato lo stile Bay negli Arab Strap. Bah....

venerdì 21 ottobre 2022

Radiohead - Kid Amnesiae (2021)


Vent'anni sono un lasso di tempo adeguato per voltarsi ed analizzare la doppietta con cui i Radiohead sconvolsero il mondo, critico e non. Il mio parere è che restano due grandi, ottimi dischi, ma sostanzialmente sopravvalutati in chiave storica; il quintetto di Oxford non inventò nulla di nuovo se non esso stesso, con una buona dose di coraggio ma anche una visione mirabile, degna di ricevere il massimo riguardo. Il box set ad essa dedicata, pur in assenza di rimasterizzazione (e diciamocelo, non ce ne sarebbe stato alcun bisogno, vista la qualità produttiva, praticamente impossibile da migliorare), ci dona un extra-cd chiamato Kid Amnesiae, il vero centro focale dell'operazione. Di fatto un album di remix incentrato su un drappello di estratti, ma fatto dannatamente bene ed in affascinante soluzione di continuità: Like Spinning Plates, Morning Bell, Fast Track, How To Disappear from strings, in versioni notevolmente differente rispetto agli originali, ne escono con un figurone. Gli inediti sono contrastanti: le 3 Untitled sono brevi cuscinetti di raccordo, seppur ottime. Mediocre Follow Me Around, una ballad appartenente più alla genetica pre-Ok computer, mentre sbaraglia tutto il resto If You Say The Word, giustamente lanciata come singolo: un pezzo ombroso, fosco e dolente (oserei dire i Can in purgatorio....) nel miglior trademark che non c'avrebbe azzeccato un granchè inserito nei due album, ed infatti il suo destino è stato quello di finire sotto le luci della ribalta dopo un ventennio. Meglio tardi che mai per qualcosa che finisce dritto dritto nel best of  personale.

martedì 18 ottobre 2022

Screams From The List #111 - Tangerine Dream ‎– Electronic Meditation (1970)


Ma chissà perchè è stato il primo poi, a finire nella List, e non i colossi più rappresentativi degli anni successivi. Provo a darmi un motivo: nel suo essere anomalo in prospettiva, Electronic Meditation fu una fonte di ispirazione enorme per i primi due NWW, per l'attitudine psichedelica e curiosamente anche per la line-up, con la differenza che i TD sapevano suonare: un chitarrista, un percussionista ed un organista, sospesi fra caos e meditazione, per l'appunto. Schulze, che lascerà subito dopo per imbarcarsi sulla sua navicella spaziale, inscenava un battito primordiale tempestoso e spirituale. Froese poneva basi bucoliche e stendeva tappeti onirici di organo, Schnitzler lanciava strali elettrici ed infiorettava con cello e violino. L'influenza di A Saucerful Of Secrets ed Ummagumma Live è enorme, pertanto il giudizio sostanziale dipende dalla gradazione di gradimento psichedelico di ciascuno. A mio avviso, una felice anomalia.

sabato 15 ottobre 2022

Deep Freeze Mice ‎– Hang On Constance Let Me Hear The News (1985)


Ad ogni disco dei Mice che sfoglio, la riflessione è immutata; appartenevano sicuramente alla categoria british che più british non si può, con i vantaggi dell'era storica di appartenenza ed il possesso di un know-how artigianale che aveva del sublime. Oltretutto, partendo da una base poco più che amatoriale, ebbero un progresso tecnico-produttivo che portò il loro art-farfisa-wave-pop quasi alla perfezione formale. E senza mai rinunciare del tutto alle stranezze assortite, alle incursioni nei collage surreali, alle provocazioni dadaiste; un binomio irresistibile.

Hang On Constance fu il sesto. Se pensiamo in generale all'anno 1985, ci possono venire in mente tante cose, escluso il loro sound. Un disco di schegge, 17 tracce, la più lunga 3 minuti; erano in una fase altamente energetica, con la sezione ritmica a pompare, a volte anche in dispari, ma anche con strutture armoniche elaborate, senza mai smarrire il loro proverbiale melodismo. The Disappearance of the guard dog, Reading An Agatha Christie, Neuron Music, Diagonally, The unpronuncable finn le vignette più irresistibili.

La ristampa monstre del 2008 include uno dei loro collage extralarge, Blue Moon, 25 minuti di delirio avant-dada che all'epoca comparve in un 12" che però non figura da nessuna parte nelle loro discografie (e conoscendo i soggetti, non escludo che si tratti di un'invenzione pura).

mercoledì 12 ottobre 2022

Lingua Ignota – All Bitches Die (2017)


Uscito a soli 6 mesi di distanza dal sensazionale esordio, All Bitches Die ne è stato l'ideale complemento nonchè la giusta prosecuzione. Anche in questo caso, difficile trovare le parole per descrivere quella che, più che musica, è una forma di auto-terapia generosamente donata al mondo. La Hayter avrebbe potuto insistere sul versante più urticante del suo stile, come lascia intuire l'incipit di Woe To All: clangori metallici, scansione harsh-synth e scorticamento belluino di ugola. Al quinto minuto però tutto si placa e la nostra eroina si siede al piano, compassata, e comincia a gorgheggiare estatica, dando la stura a ciò che preferisco della sua arte; il rapimento etereo, la vocalizzazione virtuosa ed emotivamente spericolata.

God gave me no name è la sonata gotica per organo e performance gospel nero-pece, un raggio di sole nel suo buio esistenziale. Sempre più rapita, intona la title-track su un filone similare (ma al piano) e genera 13 minuti da pelle d'oca, con un brevissimo intervento di larsen a fare da spartiacque fra due distinti, brillantissimi tronconi. For I Am the light ripristina l'atmosfera da messa horror, che finisce per deflagrare in un altro gospel sotterrato dal rumore bianco ad intermittenza. Chiude Holy is my name, evocativa fino alla massima rarefazione.

Probabilmente frutto della stessa miniera da cui ha estratto Let the evil....., All Bitches Die è stata la conferma perfetta di un talento mostruosamente fuori da ogni canone. Credo che la si possa amare o la si possa odiare, difficile riscontrare indifferenza. Divina.

domenica 9 ottobre 2022

Cerberus Shoal – Cerberus Shoal (1995)


Credo che non si sia mai dato abbastanza risalto alla grandezza dei CS. Anche nel momento di maggior visibilità, a cavallo del 2000, quando ebbero il sostegno della Temporary Residence per un paio di albums, la stampa li guardò con curiosità e stima, ma mai col (a mio avviso) dovuto entusiasmo. Di certo non aiutò il frastornante eclettismo che manifestarono disco dopo disco, dimostrando totale libertà artistica e disinteresse da qualsiasi riscontro commerciale. Ora ovviamente sono dimenticatissimi, eppure il tempo non scalfisce minimamente la qualità del loro repertorio, soprattutto quello dei primi anni. L'influenza esercitata dal secondo, splendido And farewell to the hightide su Mogwai ed Appleseed Cast, tanto per citare soltanto due nomi popolari, è clamorosa. Il terzo del 1997, Elements of structure / Permanence, fu il miglior album che i Talk Talk non fecero mai dopo Laughing Stock (o lo stesso discorso per i Bark Psychosis dopo Hex). E l'avventuroso proseguio verso commistioni sempre più ardite fra psichedelia e suoni etnici degli anni successivi testimonia una progressione che potenzialmente non aveva fine.

Il debutto omonimo del 1995 c'entra molto poco col loro futuro. All'epoca erano un quartetto canonico con doppia chitarra e sezione ritmica che tradiva a più riprese le proprie origini emo-core di area Gravity e dintorni, per certi versi affini ai Native Nod. Eppure le fragorose sfuriate tipiche con voce isterica rappresentavano solo una parte del loro sound, che indugiava in strutture circolari ripetute come mantra ipnotici, anticipando spesso i Van Pelt di Sultans (Rain, Breakaway Terminal Cable), di nuovo i Mogwai per le alternanze vuoti/pieni (Daddy as seen from Bar Harbor, Change), il tutto riprendendo la lezione di Spiderland soprattutto negli intarsi chitarristici di grande rilievo (Elena), con una propensione psichedelica sottocutanea a rilascio controllato. Un lavoro non perfetto e persino acerbo in prospettiva, ma superbo indicatore di un futuro radioso.

giovedì 6 ottobre 2022

True Widow ‎– True Widow (2008)


In attesa di qualcosa di nuovo che manca ormai da 6 anni, il recupero del primo, fondamentale omonimo dello stone-gaze trio texano, un qualcosa che ai tempi fece sensazione non solo per il fattore novità ma anche per la qualità del songwriting, confermato 3 anni dopo dal grande secondo e poi parzialmente proseguito col terzo. Non nascondo che mi dispiacerebbe che la loro avventura fosse giunta al capolinea, perchè la loro speciale mistura (l'incrocio maledetto fra Jesu e Low, per sintetizzare alla massima esponenziale) potrebbe avere ancora qualcosa da dire di significativo.

A.K.A, Duelist, Corpse Master, K.R., i pezzi più memorabili che restano scolpiti nella mente e nel cuore in maniera indissolubile. Una spanna sotto gli altri, ma soltanto perchè contengono le prese meno immediate o emettono meno rumore dell'anima. Un lotto emotivo granitico, dalle melodie arrendevoli e dalla scorza ruvidissima, qualcosa che richiamava leggende ma che nella sua essenza non l'aveva mai realizzato nessuno.


lunedì 3 ottobre 2022

Beats The Hell Out Of Me - Beats The Hell Out Of Me (1994)


Quintetto dell'Arizona che fece due album su Metal Blade a metà dei '90, ma che di metal non aveva in pratica nulla. Fu possibile che l'etichetta californiana volesse provare ad investire in un settore ai tempi abbastanza fruttifero, ovvero quello del post-hardcore contaminato da noise-rock e grunge, due nomi popolari su tutti, Fugazi ed Helmet, le più evidenti influenze sui BTHOOM. Un suono granitico, prodotto con impeccabile compattezza, nello standard del periodo, con la coppia di chitarre in primo piano, uno screamer furioso e strutture quadrate che più non si poteva.

Si tratta di un nome minore e sostanzialmente dimenticato anche dai nostalgici del tempo, in possesso comunque di qualche punto distintivo tuttora interessante, che rispolvero per un ricordo molto affettivo: l'accoppiata Intro / Act Like a Man, il momento migliore del disco, fu passato su Planet Rock in quel periodo e divenne uno dei miei pezzi preferiti di tutto il genere ed affini. L'intro, per l'appunto, suonata in punta di dita, con uno straniante feeling psichedelico (gran lavoro delle chitarre, inaspettabile per quanto lo precede in scaletta) prima di riazionare il tipico panzer cingolato nella seconda parte. Una tendenza minoritaria che però torna prepotentemente con la finale Godbox, in cui le 6 corde tornano a deragliare con gagliardia, in una sorta di inusitato tributo al David Gilmour del 1969/1970.

Bastano questi due episodi per rendere interessante un disco che per il resto viaggia su coordinate abbastanza ordinare sui suoni di cui all'inizio, ma mai in maniera banale nè troppo derivativa. Avrebbero meritato maggior fortuna, ma ai tempi non era facile emergere per nessuno e la concorrenza era vastissima.