lunedì 30 dicembre 2019

Piano Magic ‎– Closure (2016)

Dopo vent'anni di onorata militanza indie, i Piano Magic hanno deciso di chiudere il libro e lo scrigno dei loro segreti. Fra alti e bassi, incertezze, capolavori e conferme di maturità, l'unità sempre guidata da Glen Johnson si è fatta largo in una nicchia di pubblico costante e fedele, facendo della propria britishness il punto di forza, ma ottenendo più consensi in continente che in patria. Forse non passeranno alla storia della musica, ma hanno saputo elaborare una voce personale, fuori dalle correnti, dal coro, dalle masse.
Closure non ha riservato sorprese al pubblico, dimostrando che il gruppo ormai viaggiava col pilota automatico compositore, con la formula ultra-collaudata a base di wave, maudit e gotico decadente, ma ha comunque regalato la solita manciata di perle sopraffine (Let me introduce you, Landline, I Left you twice, not once), un sorprendente ballabile di potenziale successo (Exile), mentre il resto veleggia in un ordinarietà che tale non è mai stata, neanche nei punti meno alti di una parabola che termina, indimenticata e scolpita sulla roccia della perfida Albione.

sabato 28 dicembre 2019

Screams From The List #90 - Xhol ‎– Motherfuckers GmbH & Co KG (1972)

Valeva bene la scusa del dimezzamento della ragione sociale per aggiungere un'altro nome alla List, quel volpone di Stapleton. I prodi teutonici di Electrip, indecisi fra scorie residue alla Colosseum e tentazioni avant, chiusero qui la loro carriera, con un album controverso capace di impennate superbe (Love Potion 25, 13 minuti dalle fasi strumentali reminescenti i migliori Soft Machine), dilazioni psichedeliche (Side 1 First Day), cincischiate etniche (Grille, per grilli notturni, flautino e bonghi), collage sconclusionati (Radio) e radiazioni organiche (Orgelsolo).
Love Potion 25 da sola tiene su il disco e lo chiude in bellezza, ponendo la parola fine ad una band che forse terminò la propria strada per differenze di vedute fra i membri. Avevano un grande potenziale ma restarono una sostanziale incompiuta.

giovedì 26 dicembre 2019

David Sylvian - Live 1995 Slow Fire - Hitomi Kinen Hall, Tokyo 1995.10.19

Bootleg d'annata per un DS appena smarcatosi dalla controversa joint venture con Fripp. Erano tempi carenti di ispirazione, perchè passeranno altri anni prima di un nuovo album, e nel volersi riappropriare di una nuova identità decise di fare questo tour in perfetta solitudine, del quale ebbi splendida testimonianza nella tappa del 24/10 al teatro Medica a Bologna.
Di qualche giorno prima fu quest'esibizione a Tokyo, recuperata in una qualità sonora povera ma tutto sommato ascoltabile, che mi riporta con palpabile emozione a quel tempo. Il miglior Sylvian, quello di Secrets of the Beehive, Brilliant Trees e Gone To Earth, reso nella nudità estrema della sublime voce e della chitarra acustica (o il piano in una minoranza di pezzi), ma anche quello delle varianti: Ghosts in una versione esuberante, le due superbe cover di Tim Hardin (ai tempi mi chiesi mai se le avrebbe pubblicate, senza sapere di chi fossero....), Every color you are, ed un terzetto di estratti con Fripp. E giù il cappello.

martedì 24 dicembre 2019

Caretaker ‎– Everywhere, An Empty Bliss (2019)

Con la (estenuante, direi) collana in 6 volumi di Everywhere at the end of the time, LK ha dichiaratamente posto la parola FINE alla ventennale saga del Custode. Mossa azzeccata, dato che credo non ci fosse davvero più alcuna possibilità di sorprendere, ed affermare questo mi costa tanto, visto l'affetto intrinseco che provo per l'Artista in sè.
Il percorso autoterminante, un viaggio contrastante ed eccessivo (come il personaggio in sè, che si sa non ha mai posto limiti quantitativi), non ha fatto altro che amplificare l'eco di questa morte annunciata. Everywhere, an empty bliss esce a titolo di epigrafe, a corredo ufficiale di un'installazione avvenuta in Francia la scorsa primavera col suo partner grafico Ivan Seal. Stando alle note, si tratta di un antologia di outtakes e si fa gradire per la brevità delle 17 tracce, tutte sotto i 4 minuti.
I rimandi all'intera carriera ci sono tutti, ai compassati balletti anni '20/30, alle granulose contemplazioni ambientali, ai gorghi dark, ai loop dementi. Il titolo d'altra parte è una combinazione che rievoca il suo massimo capolavoro, quella rivelazione che ce lo fece conoscere, quasi casualmente. Il glorioso filone fantasmatico è terminato, ora l'augurio è che James torni a produrre qualcosa che provenga dal suo grande cuore, un po' inaridito negli ultimi anni.

domenica 22 dicembre 2019

Locanda Delle Fate ‎– The Missing Fireflies (2012)

Operazione nostalgia della Locanda che, riunitasi quasi al completo nel 2010, ha fatto perdurare il proprio revival fino al 40ennale di Forse Le Lucciole..., per poi chiudere definitivamente la propria saga. Anche se rimasta appannaggio di un pubblico settoriale (per quanto internazionale), resta una storia piuttosto romantica, la loro, e questa reunion non ha fatto altro che aumentarne lo status, a differenza di altre che invece rimpiccioliscono il mito.
Non ha fruttato materiale nuovo, ma in compenso ha riportato il gruppo in studio per recuperare e dare nuovi natali a 3 inediti dell'epoca; l'articolata Crescendo, ricca di acrobazie ma forse un po' vanitosetta per i loro standard, la sonata impetuosa per piano Sequenza Circolare, un po' troppo seriosa. La cosa più bella di TMF è che finalmente ha avuto una sua santificazione discografica l'eccezionale La Giostra, che conoscevamo in una versione lo-fi in Live 77, e che trova la giustizia in una fedeltà degna della sua magnificenza. 
La cosa curiosa è che la registrazione (che include infine una ripresa, tutto sommato pleonastica, di Non chiudere a chiave le stelle) sembra davvero provenire dal 1977, tanto la produzione ha voluto rifarsi a quei canoni. E poi c'è da dire che il ruggente Leonardo Sasso non sembra davvero avere 35 anni in più di allora, tanto la sua voce è intatta e granitica.
Completa il cd un terzetto di estratti da un concerto d'epoca, di fedeltà piuttosto carente (nel senso che il microfono sembra posizionato nella hall, anzichè nella sala stesssa). Il peccato originale della LDF, sentita la performance ed assimilata la lontananza, è proprio questo: non essere riusciti a salvare una registrazione live all'altezza. Ma per un gruppo che in vita andò poco oltre il Piemonte, di più sinceramente non si poteva pretendere. Onore e gloria a questi signori, campioni di eleganza prog come nessun'altro nello stivale.

venerdì 20 dicembre 2019

R.E.M. ‎– Chronic Town (1982)

Il primo extended dei Rem, caratterizzato di quella splendida effervescenza giovanile ed inquietudine che sublimerà di lì a poco nel fondamentale Murmur
5 tracce, di cui soltanto l'epica Gardening At Night sarà destinata a memoria collettiva. La migliore è Wolves Lower, che contiene già i tratti compositivi della maturità, in notevole anticipo; strofa in minore che strabocca di tensione, ritornello in maggiore con apertura panoramica. Inferiori le altre 3, ma soltanto per una questione di evidenza; i Rem del 1982 avevano ancora grossi margini di crescita e dipendevano troppo da chi li gestiva e li registrava, era solo questione di tempo.

mercoledì 18 dicembre 2019

3/4HadBeenEliminated ‎– Theology (2007)

Specchi opposti. Così la storica etichetta esoteric & dintorni Soleilmoon presentava il cd Theology accoppiato col vinile The Religious experience, prodotti gemellati fra loro, da intendersi botta il primo e risposta il secondo, matrice l'uno e reinterpretazione l'altro.
Al terzo album, i 34HBE erano già patrimonio italiano nel mondo. La chiamata oltre oceano arrivò al terzo capitolo, dopo la prima autoprodotta e la seconda di marca svedese. Un percorso inesorabile verso altre dimensioni acustiche, verso corde dell'anima sconosciute, verso l'infinito oblio delle loro escursioni metafisiche.
Il misticismo artefatto dei 28 minuti di I Am Daughter può aver avuto a che fare con la religione e la teologia, certo. E i 19' di The Cradle magari ne rappresentano la medaglia oscura, forse la disillusione ed il risveglio dalle utopie. Ambarchi era già innamorato di loro e li diffondeva il più possibile in Australia.
Quel che usciva vincitore, al termine di quest'esperienza extra-sensoriale, era il complesso; smarcatisi dai (pochi, in realtà) residui post-rock del precedente, i nostri eroi creavano il loro microcosmo, inespugnabile ed inestricabile: alieni ma terreni, neutri ma non glaciali, sintetici ed organici. Impermeabili, permeati della loro stessa essenza di natura così umana, fragile ed inattaccabile. Onore e gloria a loro, sempre.

lunedì 16 dicembre 2019

Tim Buckley ‎– Blue Afternoon (1969)

Capitato fra la rivelazione totale di Happy Sad, le coeve prodezze live europee e gli sconquassi di Lorca, Blue Afternoon non ha guadagnato la fama che meritava. Colpa sicuramente anche della sua irreperibilità ai tempi del revival maggiore di TB, negli anni '90; prima dell'avvento del P2P era impossibile trovarlo, mentre gli altri erano ben scolpiti nel cervello e consumati all'ossessione.
Un peccato, perchè in dotazione non ha niente in meno; era sempre un frutto della sua fase più mirabolante, quel biennio 68/70 che l'ha consegnato alla storia. Con la stessa formazione di Happy Sad, è più meditato e raccolto e contiene 8 pezzi, di cui almeno 4 destinati a diventare classici dal vivo; Happy Time, Blue Melody, I Must Have Been Blind e Chase The Blues Away. Ma i restanti non sono inferiori per nulla; la meraviglia rarefatta di Cafe, un dolente slow-core acustico ante-litteram, la marziale imponenza di The River, il gigioneggiare sornione di So Lonely, gli 8 minuti finali di The Train, che riprendono lo stile scatenato di Gypsy Woman ed includono l'assolo chitarristico più lungo e scatenato di Lee Underwood.
Tutti dettagli da poco, quando si chiama in causa la storia della Musica. E questa fu.

sabato 14 dicembre 2019

Idles ‎– Joy As An Act Of Resistance (2018)

Per adesso, l'effetto Sleaford Mods funziona. Un'anno dopo il debutto, l'irresistibile Brutalism, il quintetto di Bristol rilancia con un disco sostanzialmente identico, ma altrettanto fatto bene, con 12 pezzi punk-wave di durata media 3/4 minuti, col cantante Talbot sugli scudi, la coppia di chitarre in stile classico e pochissime diversificazioni dal tema.
Rispetto al precedente, semmai, l'approccio sembra più amaro e disilluso, con una scaletta che spara le sue cartucce più epidermiche all'inizio e man mano che scorre si fa meno divertente, ma non per questo meno efficace.
Al prossimo episodio, staremo a vedere se riescono a centrare ancora l'obiettivo.

giovedì 12 dicembre 2019

Rollerskate Skinny ‎– Shoulder Voices (1993)

Una di quelle copertine che non si dimenticano facilmente: faccione sorridente e sdentato di uomo intorno ai 60 ed una corona sospesa a mezz'aria pochi centimetri sopra la sua testa glabra. La conosco molto bene: era nel box recensioni evidenziate in uno dei primi Rockerilla che comprai, anno domini 1993, e soprattutto il cd restò parcheggiato nel negozio del Pig, ovviamente invenduto fino alla chiusura, nel settore a sinistra della porta d'ingresso.
Il contenuto invece l'ho ascoltato solo dopo 26 anni, e sorpresa sorpresa, è buono. Con quella cover non l'avrei mai preso sul serio, e infatti non me ne interessai minimamente. Eppure, questo quartetto irlandese che annoverava il fratello di Kevin Shields dei MBV, era il perfetto contraltare europeo dei Mercury Rev (quelli iniziali di Baker), con un indie-psych bello colorito, ordinato nelle strutture ma sballato quanto bastava per schierarli fuori dalle righe. Due/tre pezzi sono clamorosi.
Un recupero che più '90 non si può, quindi con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti. Ed un altro fendente, dolcemente nostalgico, per quell'epoca così innocente e piena di entusiasmo, di risorse ed insidie.

martedì 10 dicembre 2019

Aidan Baker ‎– Book Of Nods (2008)

Di solito funziona così, per AB: ascolto 3 suoi dischi uno dopo l'altro, fra quelli più citati (ma  prendo i titoli che mi piacciono di più, confesso); i primi 2 sono da buttare, il terzo è buono.
Book Of Nods ha il suo maggior pregio nella secondarietà delle chitarre, rivelando un rovescio alternativo dello spirito estatico, per quanto leggermente naif, del canadese. E' in sostanza una ambient organica, in quanto incentrata su piano ed organo, dalle strutture minimalistiche. Love parte con dei tintinii ovattati di piano, quasi alla Charlemagne Palestine d'annata, ma con una sequenza cinematica di gran gusto. Survival è una stagnazione di organo per i primi 6/7 minuti, poi AB inizia a dare qualche colpo sparso alla batteria, per poi innescare alla chitarra un riff gothic-shoegaze che fa decollare la suite. Obsession ha una struttura similare, anche se giocata tutta sull'organo ed accentua i colpi percussivi aleatori. Good & Evil stratifica diversi bordoni e chiude con un'atmosfera stranita, quasi cosmica.
Come sempre, una durata ridotta avrebbe giovato all'insieme e non sarà certo ricordato come uno dei suoi episodi più memorabili, ma Book Of Nods funziona perchè ha uno spirito oserei dire terapeutico, che infonde serenità e leggerezza.

domenica 8 dicembre 2019

Christian Death ‎– Catastrophe Ballet (1984)

In quella storia che più travagliata non si può dell'entità Christian Death, Catastrophe Ballet rappresenta un'episodio felice a tutto tondo. Rozz Williams, a gruppo sciolto, si vide contattare da una label francese per la ristampa di Only Theatre Of Pain e per l'incoraggiamento a proseguire l'avventura. Reclutati 4 nuovi membri, insieme a loro realizza questo secondo album, che è uno stacco abbastanza netto rispetto al, pur miliare debutto. Immersa in una nebbia gotica impenetrabile, l'atmosfera generale è se possibile ancor più morbosa; le tirate punk aggressive sfumano anche se la chitarra di Valor è capace di graffiare con stile, le ritmiche sono wave-compatte ma a più riprese si spezzano per dare enfasi alle implosioni teatrali.
Esemplare la facciata A, con Sleepwalk, The Drowning e The Blue Hour. Era chiaro che i CD non inventavano un granchè (Bauhaus e Sisters Of Mercy erano attivi già da qualche anno all'epoca), ma la loro iconografia e lo stile espressivo fissavano uno standard molto peculiare.

venerdì 6 dicembre 2019

Stabscotch ‎– Uncanny Valley (2017)

Una delle sempre più rare scoperte di PS, proveniente da quello che una volta si chiamava underground ed adesso non esiste più, ma romanticamente ha ancora una consistenza perchè il disco è uscito in cassetta e di questo trio dell'Indiana non si sa praticamente nulla.
Non importa, perchè hanno abbastanza da dire nella pratica; non possiedo il supporto fisico, ma mi chiedo che tipologia di cassetta possa essere, dato che va oltre i 100 minuti di durata; nuove frontiere del glorioso supporto?
Venendo al contenuto, gli Stabscotch sono una rivelazione, c'è poco da dire. Non suonano come nessun'altra cosa mai sentita, e lo suonano come se non ci fosse un domani, con uno sforzo sovrumano ed un dispiego di idee e soluzioni impressionante, in pratica inesauribile. Il bassista / vocalist ha un'imprinting  tipicamente hardcore, con quel declamare furioso e monotono. L'asso del gruppo è il chitarrista, l'elemento più raffinato ed in grado di sfornare riffs dalle mille sfaccettature, che più volte mi ha ricordato il grandissimo Drazek dei Rope. 
E le composizioni? Indefinibili, inafferrabili, psicotiche, dei rebus inestricabili. Gli Stabscotch parlano un linguaggio dell'assurdo, sono accompagnatori verso una Zona del mistero più fitto ed inspiegabile. Un labirinto di post-hardcore, prog, art-metal, avanguardia e tanta, tanta psichedelia.
Uncanny Valley è talmente lungo e pieno di dettagli che credo occorrano 10/15 ascolti per assimilarlo al meglio, il che significa circa 24 ore. Follia totale, di questi tempi, ma gli Stabscotch sembrano non fare parte di questo mondo, ed entrare nel loro, almeno metaforicamente, è un esperienza da provare.

mercoledì 4 dicembre 2019

Stephan Micus ‎– Listen To The Rain (1983)


Incastonato in una splendida foto di copertina che ritrae una foresta confusa fra sole e nebbia, Listen To The Rain è il settimo album di Micus, distante 6 anni da quelle Implosions che avevano rivelato il talento multi-etnico del tedesco.
Il disco, al contrario dei precedenti, è molto chitarristico. La facciata A, tre pezzi lunghi improntati sulla 6 corde spagnola, sullo shakuhachi e sul flauto di bambù, il suling. Tre digressioni dolenti, d'ispirazione iberica ma con sfaccettature tutte da scoprire.
La facciata B, una prodezza vera e propria. I 20 magici minuti di For Abai And Togshan, in cui è protagonista il dilruba (sitar suonato con l'archetto), sono una struggente, commovente mini-sinfonia dal lirismo indicibile. 
Un cuore grande come tutto il mondo, quello di Micus.

lunedì 2 dicembre 2019

Tangents – New Bodies (2018)

Quintetto australiano così composto: un addetto all'elettronica, un tastierista, un chitarrista, un violoncellista ed un batterista. Provengono da Sydney, città che inevitabilmente richiama un nome gigantesco come quello dei Necks.
Il sound dei Tangents, magnificamente registrato, è uno strumentale vivace e brioso che in alcuni momenti può richiamare le fasi più inquiete dell'iper-trio A-B-S (Immersion), ma vista anche la ricca orchestrazione vira verso un post-jazz-rock zona Tortoise, suonato con parco virtuosismo e che non disdegna richiami verso epoche molto più lontane, visto lo stile elegante ed ortodosso del pianista.
Qualche fase che non convince (i 10 minuti di Gone to ground stancano), ma i momenti migliori (l'accoppiata vincente Terracotta e Arteries) rendono New Bodies un gradevole sottofondo-ma-non-troppo, cinematico e fantasioso. Per i fans dei sopradescritti, senz'altro consigliato.