martedì 27 aprile 2010

Tim Buckley - Dream Letter (Live in London 1968)

Affermare che è stato il più grande cantante uomo della storia del pop-rock potrebbe sembrare un po' azzardato, ma parlando di cantanti-interpreti, di assi che hanno trasformato la voce in uno strumento, Timothy Charles Buckley III è stato il più grande di tutti. Dall'alto delle sue 5 ottave di estensione ha esplorato terreni sconosciuti (forse inesplorati anche dopo) e raggiunto una liricità ed un espressione ineguagliabili. La sua breve carriera decennale è stata un monumento alla più pura libertà artistica, uno status necessario per poter spiccare il volo nel modo in cui voleva e credeva.
Dream Letter è stato il primo live postumo ad essere ristampato, il primo segnale di riscoperta 15 anni dopo la morte e che sarebbe stato seguito da una miriade di tesori disotterrati. Documenta uno spettacolo assolutamente mozzafiato di due ore che Buckley tenne a Londra nel 1968, in una delle sue primissime puntate europee. E' famosa la leggenda scritta da Lee Underwood, suo fido scudiero, in cui si narra che per contenere i costi della trasferta Buckley dovette rinunciare a Collins e Miller lasciandoli a casa, portando con sè il chitarrista e il vibrafonista Friedman. In Inghilterra ad aspettarli c'era il contrabbassista dei Pentangle Danny Thompson, disposto a suonare dopo una mezza prova insieme. Il quartetto di virtuosi in questione suona così senza uno straccio di ritmica, ma è talmente coeso e fluido che non sarebbe davvero servito altro.
Probabilmente Buckley non aveva scaletta pronta e tutto il gig è pervaso da un senso di improvvisazione e jam lunare. Le parole di Underwood nel booklet servono a descrivere perfettamente la situazione all'epoca in maniera così esauriente che non serve aggiungere altro: voleva che la sua musica fosse assolutamente naturale e senza forzature, non serviva provare. Voleva che tutti improvvisassero senza tante indicazioni e che il risultato finale venisse fuori in base al momento.
Al di là dei vocalizzi che dominano dall'inizio alla fine, l'accompagnamento che ne viene fuori è un mix di folk e jazz che scaturisce da un approccio assolutamente entusiastico. Citare i pezzi è relativamente inutile; per quanto mi riguarda i brividi maggiori mi vengono sempre procurati dal medley di Pleasant Street / You keep me hanging on, Phantasmagoria in Two, Hallucinations, Wayfaring Stranger. Al primo posto però rimane sempre un pezzo che esiste solo qui, un inedito al quale sono troppo legato; Troubador incarna perfettamente quel lieve senso di malinconia che non è mai mancata nel suo repertorio.
Arte pura e incontaminata.

(originalmente pubblicato il 02/06/08)

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