martedì 29 novembre 2022

Barzin – Voyeurs In The Dark (2022)


Ogni tanto pensavo chissà che fine ha fatto Barzin, forse avrà messo su famiglia, si sarà trovato un lavoro regolare ed avrà smesso di fare la fame e di restare un perfetto sconosciuto, così ordinario e fuori dai circuiti, così classico ed obsoleto. Sono passati ben 8 anni da To Live alone in that long summer, in cui il canadese ha fatto una colonna sonora (nel 2020, sinceramente me la sono persa) e null'altro, ma chi apprezza il suo finissimo artigianato sa che il nostro ha bisogno di tempo e di estrema calma per concepire le sue trasognate ed autunnali ballads. Voyeurs in the dark non fa altro che ripetere questo piccolo miracolo, a dimostrazione che questa magica matrice deve soltanto far decantare ciò che produce. Un disco che peraltro non lesina sulla qualità degli arrangiamenti, a volte persino esuberanti per il suo standard. Se devono passare così tanti anni fra un album e l'altro, ben venga il lavorare con lentezza.

sabato 26 novembre 2022

Church ‎– Priest = Aura (1992)


Smaltita la sbornia del successo di Under the milky way, i Church si ritrovarono a maggior agio in una situazione di minor pressione e minori aspettative da parte dell'industria. Priest = Aura viene definito da Steve Kilbey il loro indiscusso capolavoro, io non la penso altrettanto ma siamo da podio. Gli anni '90 furono sicuramente il loro habitat naturale più congeniale; una produzione più aperta, più panoramica favorì lo sbocciare dei loro impasti chitarristici e del songwriting. Ripple, Lustre, Paradox, The Disillusionist, Old Flame, Film denotavano uno stato mentale (molto oppiaceo, a detta delle bios) introspettivo ed espanso, che mai e poi mai avrebbe rinunciato alle loro essenziali melodie imbevute di spleen, mai così vicine ai contemporanei Cure. Manifesto della maturità espressiva; tagliando 3-4 pezzi superflui ed inferiori sì, probabilmente sarebbe stato il loro capolavoro.

mercoledì 23 novembre 2022

All Sides – Dedalus (2007)


Disco oscurissimo scoperto su Opium Hum, che a volte col suo gusto per la estrema sintesi riesce ad essere più attrattivo di qualsiasi approfondita recensione. Trattasi di Nina Kernicke, una chitarrista tedesca attiva soprattutto nella seconda metà del decennio Zero e poi molto più sporadicamente (l'ultimo prodotto risale al 2016). Dedalus è uno strumentale di gelido magnetismo e fascino notturno, fra elettronica scabra, gotico intimorente e post-psichedelia (più volte sembra affiorare la lezione dei grandi mastri d'inizio Kranky, Labradford in primis, ma anche le derive isolazioniste dei primi Main). La riuscita generale del disco sta nella varietà di proposte dei singoli pezzi, a volte insistentemente ritmati ed altre tangenti l'ambient statica, ma senza mai eccedere in una direzione. Davvero interessante, e pazienza se mi sono occorse così tante parole. In fondo potevo citare OH e sarebbe stato sufficiente.....

domenica 20 novembre 2022

Motörhead – Orgasmatron (1986)


Il disco preferito di PS dei Motörhead, nonostante tutto. Nonostante la line-up non fosse più quella storica degli inizi (leggere la cronistoria dei cambi diventa quasi divertente, dal punto di vista di Lemmy), nonostante il periodo storico particolare, nonostante il fattore ripetizione fosse ormai una certezza e trovare differenze iniziasse a diventare una questione maniacale. Tutte questioni di pelo nell'uovo che con i Motörhead non hanno molto senso. Orgasmatron fu il settimo irresistibile treno in corsa, irrefrenabile, con le due chitarre in sincrono, la batteria pestona, Lemmy a fare Lemmy e qualche pezzo memorabile (Nothing up my sleeve, Built for speed, Doctor Rock, Ridin with the driver) sugli altri, con la paludosa title-track a fare da diversivo in chiusura. Serviva altro? Direi proprio di no.

giovedì 17 novembre 2022

Duster – Duster (2019)

Non è che mi sia stracciato le vesti alla notizia del ritorno dei Duster, a 19 anni di distanza da quello che si era rivelato il loro canto del cigno. Immagino che la cofana retrospettiva della Numero Group d'inizio 2019 abbia giocato un ruolo chiave nella rifondazione del trio californiano, che ha fruttato poi verso fine anno quest'omonimo, sorprendentemente buono; nulla di rivoluzionario, anzi, forse funziona per la propria integrità ed attaccamento ai modelli originali (meno Bedhead, decisamente più Acetone ed in certi casi persino vicini ai primi Calla), ricalcati con fedeltà come se il tempo non fosse passato ma con un una dote compositiva davvero buona (Lomo, Chocolate and mint, Letting Go i migliori). Qualche divagazione ai limiti dello space-noise, qualche accelerata sparsa ed il tag slow-core che sguscia come un'anguilla nel calderone, pazienza. I Duster oggi hanno ancora un senso; restano un nome minore ma per gli appassionati sono come una coperta di Linus a cui attaccarsi in certi frangenti della vita.

lunedì 14 novembre 2022

Liars – The Apple Drop (2021)


I segnali di buona forma per Angus Andrew c'erano già stati con l'atto primo post-divorzio con Aaron Hemphill, quel TFCF con cui sembrava tirare le somme di una carriera importante in chiave sardonica, beffardo come sempre ed autocitazionista come pochi. Un album più che buono ma era chiaro che per il futuro sarebbe servito qualcos'altro, e quattr'anni dopo eccolo materializzarsi con The Apple Drop, uno dei dischi complessivamente più riusciti dell'intera saga Liars.

Ecco anche il motivo per cui (a parte eventuali contrattualistici, la sigla resta sempre su Mute) Andrew di fatto ha ricostituito un gruppo, con il batterista dei Pivot ed il chitarrista Deyell, in pratica due mestieranti che hanno dovuto umanizzare ciò che aveva concepito in solitudine. Sistemato l'aspetto tecnico-produttivo, resta la sostanza: TAD è il disco di un personaggio che si è guardato allo specchio dopo diverse sbornie, si è scoperto un po' invecchiato ed ha deciso di fare sul serio, virando sul "classico" e lasciando molto meno spazio del solito agli aspetti surreali del proprio output.

Prendiamo i pezzi migliori del lotto: Slow And Turn Inward, Big Appetite, From What The Never Was, sono carichi di uno spleen esistenziale che farà felici gli orfani dei migliori Radiohead, poco da dire. Quando le atmosfere si fanno più opprimenti, si scorge una scorza quasi gotica in Acid Crop, My Pulse To Ponder, Star Search, Sekwar, con l'elettronica relegata a cornice e non più alluvionale come in passato, fino a quasi far perdere i connotati originari dell'australiano. E verso il finale, una chicca vintage-pop come King of the crooks che avrà fatto morire d'invidia Bradford Cox. Una scaletta costruita con sapienza, con la giusta alternanza di stili ed umori, che sa di classicone a lungo termine, di big swindle: Andrew non ha mai inventato nulla e mai inventerà altro che il proprio personaggio, in apparenza un po' cazzone ma tremendamente serio in fatto di scelte.

venerdì 11 novembre 2022

Black Heart Procession – 1 (1998) (2017 Edition)


Una ristampa autoprodotta, in edizione limitatissima, in vista del ventennale di un disco che ancora oggi come allora mi commuove e mi strugge l'animo. Breve cronistoria: nel 1997 Jenkins e Nathaniel uscivano con l'ultimo 3MP, venivano lasciati dalle rispettive ragazze e presi da una infinita tristezza si mettevano a comporre canzoni funeree e straboccanti di cuore. La Headhunter li supportò e fece uscire One, registrato con il supporto del batterista Mario Rubalcaba, un concittadino proveniente dalla scena post-hardcore Gravity e dintorni. 

One è qualcosa che all'epoca non si era mai sentito, nel panorama alternative. Poteva ricordare Nick Cave o Tom Waits, ma suonato con un'arrendevolezza ed un'umanità che non aveva precedenti. E metteva in mostra i talenti cristallini che la animavano: la voce atipica ed emotiva di Jenkins e soprattutto le doti strumentistiche di Nathaniel, creatore di splendide armonie al piano ed all'organo. The Waiter, Release My Heart, Bluewater/Black Heart, Square Heart, In A Tin Flask, le gemme più sopraffine.

La ristampa ha portato alla luce due outtakes rimaste nel cassetto, ed incluse forse più per dovere di cronaca e per ingolosire i fans, perchè effettivamente non c'entrano un granchè col mood generale del disco. The Look in my eyes e Lower infatti sono due tracce ritmate ed atmosferiche, con un basso molto profondo, quasi ai confini col dub. Tuttavia, nonostante l'evidente stato di work in progress, rappresentano un filone mai approfondito ma assai interessante.


martedì 8 novembre 2022

Matt Christensen – I Know What The Fight Is (2017)

Per quanto rappresenti un modello vintage nel suono e nello stile, MC è perfettamente in linea con i tempi e con i modi degli artisti più fieramente liberi da ogni condizionamento e dagli schemi del panorama musicale; la sua discografia Bandcamp lievita mese dopo mese ad un ritmo irrefrenabile, e la lista supera ormai le 150 unità. E' chiaro che pubblica qualsiasi cosa registri. Allora tanto vale, come regola comune, basarsi sulle uscite fisiche, perchè con ogni probabilità avranno come minimo una cura sopra la media di quelle solo digitali. Almeno, in teoria.

I know what the fight is segue di un anno il divino Honeymoons, ed indugia su quel modello a dispetto di una registrazione meno limpida: strutture pigre, l'illuminata chitarra dal sapore desertico, le minimali e strascicate nenie vocali, il supporto ritmico di qualcosa che somiglia ad un double bass e percussioni spartane, col santino degli ultimi Talk Talk sull'ampli ed il flusso di coscienza che scorre come acqua fresca, senza alcun limite che non sia il proprio animo e la propria dimensione.

Il disco ha 7 tracce, non molto dissimili fra di loro, alcune terminano in fade out perchè potrebbero non avere fine. Il consiglio, se ci si vuole avvicinare al mondo di Matt Christensen, è di lasciarsi andare completamente e di prenderlo quasi come un sottofondo. E' fra i più immacolati e polverosi allo stesso tempo che possano capitarci fra le orecchie.

sabato 5 novembre 2022

Jethro Tull – Benefit (1970)


Il perfetto/imperfetto disco di transizione, fra le indecisioni di Stand Up e le rivelazioni di Aqualung, con il decisivo ingresso di John Evan a colorire con eleganza il songwriting di Ian Anderson che si faceva adulto fin dall'inizio con la splendida With you there to help me e con il vertice Nothing to say, il pezzo più sensibile e serioso del lotto, probabile seme decisivo per le pagine più memorabili degli anni a venire. Martin Barre si ritagliava qualche faretto isolato, ma non per questo meno incisivo e brillante. Fra le melodie più ariose, irresistibili For Micheal Collins, Jeffrey and me, A time for everything, Play in time. 

Non tutto il disco gira a meraviglia, va detto; alcune composizioni mostrano la corda, indugiando in un modello troppo legato alla stagione del folk inglese e procurando un po' di tedio. La ristampa in cd di una ventina d'anni fa includeva anche 4 bonus tracks, anch'esse pallidine a parte la grintosa Teacher, che fu pubblicata come singolo per una probabile marchetta al mercato hard-rock, ma si fa apprezzare ugualmente.

mercoledì 2 novembre 2022

MX-80 Sound – Hougher House (2021)

 

La morte di Bruce Anderson nel gennaio scorso ha gettato un'ombra sinistra su Hougher House, nonchè lo sconforto (mio) per quella che presumo significhi la fine di questa band a dir poco storica. Davvero improbabile l'ipotesi che Stim e Sophiea proseguano la loro magnifica avventura senza questo fenomenale chitarrista che ha marchiato come una cometa l'espressione di una band criminalmente ignorata, e citata soltanto da pochi protagonisti di fama mondiale (Steve Albini su tutti, ma anche Sonic Youth e Swans).

A 6 anni da So Funny, un curioso episodio che indugiava su atmosferiche venature electro-pop, gli MX-80 (i 3 fondatori + il chitarrista collaboratore di lunga data Hrabetin + il figlio di Sophiea alla batteria) sono andati nella stratosfera con Hougher House, una suite di 38 minuti in due versioni: The Story, dominata da un monologo di Stim, e The Music, ovvero lo strumentale, un capolavoro sulfureo che suona come un lungo, tempestoso, requiem elettrico. Articolato su alcuni temi che si riprendono ciclicamente, è un immancabile showcase di un Anderson (senza però dimenticare il prezioso supporto delle altre due chitarre di Hrabetin e Stim) concentrato più sull'arpeggio e sugli accordi, limitandosi ad un paio di brevi assoli. 

E suona quasi come una metafora della vita, come fosse l'ultima, fulminea impennata vitale che precede la morte.

martedì 1 novembre 2022

The Cure - Live Unipol Arena, 31/10/2022






A distanza di 26 anni il mio fratellone ed io ci siamo recati a vedere i Cure, e l'emozione non è stata di certo inferiore a quella dell'epoca. C'è poco da dire, l'equazione Professionalità + Voglia = fa sempre grande spettacolo, a favore di un pubblico (in un Unipol murato di gente, leggo che può arrivare a contenere 20.000 persone) la cui età media suggerisce la riflessione che non c'è stato un ricambio generazionale nella legione dei fans. E ti pare; se non fai un disco da 15 anni, vivi di concerti e ristampe e te ne freghi di tutto il resto, è chiaro che vivi di rendita, per quanto dorata sia. Anche noi (legionari) dopotutto ce ne freghiamo e se la vita ce lo consente, ci gustiamo lo spettacolo.

Arriviamo presto, sul biglietto c'è scritto che inizia alle 19.00 e puntuali arrivano gli scozzesi Twilight Sad. Il primo pezzo mi sembra interessante, ma già al secondo mi sovviene un parere impietoso: sono terribilmente mediocri, con l'aggravante di un cantante in possesso di uno stile che io chiamo arrotondato, tutta enfasi e poco talento. Mi fermo qui perchè non sarebbe giusto infierire. Ce ne andiamo a bere una birra e aspettiamo che finiscano.

Alle 20.15 i Cure entrano alla spicciolata. Sapevo già del rientro di Bamonte, che se ne starà immobile nell'angolo sinistro per tutto il tempo, in gran parte ad una chitarra difficilmente percettibile, ogni tanto ad una tastierina ancor meno. Un po' di ruggine da togliersi addosso, o una necessità di riprendersi il palco con gradualità? Bentornato. Gabrels, maglietta nera e occhialini tondi scuri, farà spesso il gigione, con l'aria di divertirsi da morire e di fare la sua cosetta con fare vagamente annoiato. Gallup, capello da rockabilly, motore perpetuo a fare il solco da una parte all'altra, a 62 anni con le ginocchia d'acciaio inossidabile, e a perpetrare il suo stile immortale. O'Donnell, ormai vicino ai 70 anni, imperturbabile ma forse il più divertito di tutti, a fare le frasine, lanciare le mani in aria e lanciare occhiate scherzose a Gabrels. Cooper, rialzato di un metro abbondante, a fare il metronomo infallibile. Devo dire che l'ho rivalutato parecchio, curiosamente perchè in un paio di pezzi (Burn e Push, forse i più impegnativi) sul maxischermo alle loro spalle venivano proiettate le immagini prima di fronte e poi alle sue spalle da una camera ravvicinata, e ho dovuto ammettere che il suo stile è davvero potente e solido. Vedi cosa vuol dire l'esposizione diretta.

Per ultimo Robert Smith, che si fa una bella passerella osannato, mano sul cuore, trasudante la proverbiale umiltà che l'ha reso una leggenda vivente. Stupisce la brillantezza vocale che a 63 anni non è più così scontata, ma è evidente che si trova in grande forma (mi sembra anche dimagrito rispetto a qualche anno). La stessa passerella se la farà a fine concerto, dopo due bis, ma un po' più lunga per ringraziare il pubblico, passandosi una mano sull'occhio, non si sa se per nascondere una lacrimuccia di commozione o altro. See you again, ecco la chiave di tutto: la voglia di performare ed emozionare la legione ha sempre il sopravvento su qualsiasi altro fattore. La voglia di divertirsi, di fare un po' di quelle pantomime appena abbozzate che lo rendono irresistibile, di snocciolare quelle risatine mai sforzate, senza mai e poi mai sembrare spocchioso o superficiale. E pazienza se quando parla (non lo fa spesso) non si capisce niente. Qualcuno ride, noi ci guardiamo con un pizzico di rimpianto, allarghiamo le braccia e pensiamo sia una battuta divertente.

Il concerto dura due ore e mezzo, le maratone di un tempo forse non è più il caso di farle. Ci sono i 4 inediti del fantomatico nuovo disco (che si preannuncia molto dark....) che sono già stati ampiamente diffusi online, e lo sostengo in tutta franchezza: non sono irresistibili. A parte la buona I could never say goodbye, retta da un giro impressionistico di O'Donnell, sembrano dei lunghi (anche troppo) flussi di coscienza ipnotici e circolari che chissà, magari nel disco funzioneranno meglio. Presi così, fra una colonna e l'altra, non fanno una gran figura. Mi hanno ricordato quella cassetta che fecero nel 1992, Lost Wishes, che conteneva una manciata di strumentali che non andavano da nessuna parte. Speriamo. Per il resto, è sicuramente una scaletta che non riserva sorprese, pagando un buon dazio alla trilogia: 3 pezzi da Seventeen Seconds (monumentale la resa di At night, per me il top della serata), 2 da Faith, 3 da Pornography. Da Disintegration soltanto le 3 hits, grande spazio a The Head On The Door. Zero assoluto post-2000, soltanto 2 pezzi dal 1993 ad oggi. Un set molto poppy, ma suonato con energia inesauribile, con un pezzo dietro l'altro, pause fulminee, con Cooper che spesso batte il 4 mentre Smith e Gabrels si stanno ancora cambiando le chitarre.

Pecca della serata, un grave problema tecnico che è affiorato a più riprese, un'insopportabile saturazione dei bassi che è rimbombata da metà concerto fino a raggiungere l'apoteosi durante l'esecuzione di Faith, rovinata al punto da far esitare Smith nel canto. E' stato davvero deprecabile vedere questo tecnico che si infilava nel palco un paio di volte con fare compassato, dribblava i musicisti e brancolava fra ampli e strumenti alla ricerca del problema. E per fortuna che il problema è stato disinnescato, ma davvero voto zero a chi ha avuto la responsabilità, una cosa del genere a questi livelli non può mai accadere.

Un aficionado posizionato in prima fila nel parterre ha ripreso integralmente l'evento e l'ha già postato stamattina, per cui sarebbe inutile che mettessi qualche nostro video. E' una ripresa con una prospettiva inevitabilmente limitata, ma il suono è di buona qualità. Si trova qui. E davvero, speriamo di see you again.