giovedì 29 dicembre 2022

Blue Cheer – Outsideinside (1968)

Oltrepassato il mezzo secolo di età, il 1968 dei Blue Cheer mantiene tutta la sua possenza granitica e la sua lungimiranza come un totem della musica dura di tutto il proprio futuro. In gennaio, l'ultra-ottundente Vincebus Eruptum aveva sconvolto tutti con la propria violenza. Sei mesi, Outsideinside rilanciava il fuoco ma con un'ottica appena appena più strutturata: l'opening Feathers from your tree, impreziosita da un bel pianoforte, un'armonia ariosa e degli scarti ritmici, gettava addirittura un ponte acerbo verso il progressive, ma fu soltanto un'anomalia. Il pirotecnico hard-stoner trovava nuovi inni in Just a little bit, Come and get it, Magnolia caboose babyfinger, nella cover a tutta velocità di Satisfaction. Spettacolare la performance del batterista Whaley, un tornado decisivo nell'economia di un sound fra i più compatti del proprio decennio. Subito dopo l'uscita del disco, l'abbandono del chitarrista Stephens ed il probabile ostracismo di chi non amava i loro volumi portarono il gruppo ad una svolta netta ed un declino immediato, ma la storia l'avevano già marchiata.

lunedì 26 dicembre 2022

Fucked Up – Year Of The Horse (2021)


Una decina d'anni fa ascoltai il pluri-premiato David Comes To Life e non mi piacque. Forse sarebbe servito qualche ascolto in più, ma non gli diedi la possibilità. Trovai un po' irritante il ruggito monocorde del corpulento cantante, che era l'anello di congiunzione con le origini hardcore di un gruppo che comunque si era evoluto parecchio e faceva sforzi titanici per suonare originale ed andare un po' oltre i propri limiti.

Una decina d'anni dopo, Year of the horse fa decisamente un altro effetto. Le sfuriate hardcore ci sono ed il ruggito monocorde le accompagna con la dovuta devozione, ma ormai sono solo un 30% del mastodontico output (4 pezzi per quasi un'ora e mezza). I canadesi sono cresciuti insieme alle loro ambizioni, dimostrando che la tenacia può essere costruttiva anche in mancanza di altri fattori di talento.

Quanti gruppi suonano su questo disco? Che carrellata di generi, stili e scenari scorrono? Durante l'ascolto ho perso il conto, e i Fucked Up sono degli incoscienti. Quanti rischi può accollarsi un gruppo come in questo caso, in cui si può passare da una stentorea litania piano/voce femminile ad un'aria western-plagio-morriconiana, da una minisinfonia per quartetto d'archi ad una marcetta vaudeville, da un sinuoso alt-funk ad un'escursione etno-folk, da un requiem per trombe e voci femminili ad un eccetera eccetera eccetera.

Non ho concesso neppure a Year of the horse il numero di ascolti che si meritava, ma è andata decisamente meglio di David. Il coraggio e l'ambizione vanno sempre stimati, ed anche se non ascolterò mai più i Fucked Up, ricorderò questo tomo come un episodio talmente folle da sembrare costruito con un algoritmo. 🤔​

venerdì 23 dicembre 2022

Swell – Swell (1990)


Quest'anno è venuto a mancare David Freel, cantante, chitarrista e compositore degli Swell. Il gruppo era dissolto da ormai 15 anni, ed anche lui era fermo discograficamente da quasi un decennio. Oggi entrambi i nomi sono caduti in un dimenticatoio senza speranza, e neppure questa scomparsa può riattivare l'interesse postumo attorno ad una band che nei primi '90 era stata una delle più interessanti del panorama americano indie e dintorni, ed era riuscita persino ad approdare ad una major, seppur per un solo disco.

Swell, il debutto, denotava un grande potenziale nonostante l'indecisione di fondo sulla strada da intraprendere. Lo sferzante stile roots-oriented-core che caratterizzerà le pagine migliori del futuro appare già con tutta la sua visceralità (Get High, Dan A son of god, Wooden Hippie Nice). Uno spiccato ammiccamento indie-pop quasi alla Pixies permea Stop e Ready, che mostrano tutta la validità di una registrazione per nulla scontata nell'anno 1990, già in tutto e per tutto immersa nei nineties, col suono sanguigno delle elettriche, il giusto risalto alla batteria di Kirkpatrick (sempre stato il vero protagonista del sound) e per giunta in totale autoproduzione. Accanto a questi, però, apparivano anche delle anomalie destinate a restare irripetute nel loro repertorio, come le spettrali scansioni di A town, la quadratura quasi wave di Love you all, la spiritata litania di Yes and no e soprattutto lo strumentale gothic-dark Sick half of a church, davvero straniante. Paradossalmente, chissà cosa sarebbe successo se Freel avesse perseverato nei filoni di queste anomalie, cosa ne sarebbe stato della carriera degli Swell. Non c'era da dargli torto per aver scelto la strada post-roots, ma la curiosità resterà sempre.

martedì 20 dicembre 2022

Explosions In The Sky – Big Bend (An Original Soundtrack For Public Television) (2021)


Negli ultimi 15 anni, 2 albums e 4 colonne sonore. Questo ormai sembra essere il fatale destino degli EITS, con le seconde destinate a prendere il sopravvento, vuoi per incapacità di reinventarsi, vuoi per uno sbarco del lunario confortevole, un po' come la loro musica su Big Bend. Se i Mogwai, altri assidui soundtrackers, continuano a battagliare per non perdere il filo degli albums originali, costi quel che costi, i miei adorati texani invece sembrano essersi un po' rassegnati ad essere diventati dei sonorizzatori, di gran lusso per intenderci, ma sempre servitori di una causa altrui.

Se si affronta Big Bend (neanche un film, bensì un documentario naturalistico sul Texas) come una tappezzeria qualsiasi, è di una razza pregiatissima. Al primo ascolto mi ha un po' deluso, al secondo mi ha catturato un po' di più, al terzo ho capito; è davvero importante che ci siano ancora, che ci facciano sentire a casa, che ci avvolgano con le loro buone maniere e la loro evocatività, perchè se l'alternativa fosse stato un mondo senza gli Explosions, avremmo tutti perso qualcosina. I grandi devono andare avanti, a condizione di non sputtanarsi troppo. Loro, i Mogwai, i Godspeed, ed altri, sono ancora con noi perchè lo sanno, che non devono abbandonarci al nostro destino sempre più incerto e cupo.

Big Bend non offre nessuna novità, questo potevamo immaginarcelo ancor prima di metterlo su. Ci sono momenti di grande ariosità, ci sono interlocuzioni un po' funzionali, ci sono 2-3 stucchevolezze forse ancor più funzionali, pazienza. Non ci si può ribellare al tempo che passa. Per il seguito dello spento The Wilderness non c'è fretta. Non l'hanno mai avuta, quei quattro ex-ragazzi.

sabato 17 dicembre 2022

Tripping Daisy – I Am An Elastic Firecracker (1995)


Un recupero nineties più legato al fattore mnemonico che a quello prettamente artistico. La copertina di I Am An Elastic Firecracker, con l'artista surrealista italiano Cavellini auto-dipinto di rosso, è un ricordo indelebile perchè il cd è uno di quelli che stazionarono nel negozio del Pig dall'anno di uscita fino alla chiusura. I Tripping Daisy furono un quartetto texano attivo per tutti gli anni '90 e come tanti altri della loro generazione furono candidati da una major (la Island, una delle meno peggio) ad essere lanciati su grande scala, alla ricerca di una nuova epifania commerciale. Non andò esattamente così, nonostante il potenziale fosse notevole, ma il gruppo fu tutt'altro che una meteora e terminò la propria corsa nel 2000, soltanto a seguito della morte del chitarrista, che era già tornato indie.

IAAEF ebbe tutti i numeri in canna per sfondare, col suo alternative-rock spesso ammiccante al pop, al punk melodico ed al grunge, con la produzione di grido, un buon cantante dal timbro simile a quello di Perry Farrell e qualche chicca di melodismo non distante dai Flaming Lips epoca Hit To Death in the future head (Motivation su tutte, ma anche Bang, Trip Along, Step Behind, Noose). Di certo non viene ricordato come uno dei capisaldi dell'epoca (un po' troppo lungo, 4/5 tracce mediocri si potevano scartare tranquillamente) ma ascoltarlo oggi dopo quasi 30 anni è una immersione a 5 sensi nell'aria frizzante dei nineties.

mercoledì 14 dicembre 2022

Coconuts - 2 (2022)

Senza alcun presagio, senza alcuna attesa, ecco riemergere dalla nebbia neyworkese i fantasmatici Coconuts su Bandcamp con il laconico 2, a ben 12 anni di distanza da quell'omonimo che mi aveva fatto saltare sulla sedia. Più volte, durante questa dozzina, mi ero chiesto che fine avessero fatto; più volte avevo riascoltato quel disco ed avevo concluso che no, non poteva esserci un seguito e pertanto era giusto che fosse finita lì. Invece rieccoli con un'altra mezz'ora del loro vagabondaggio zombie e di arrendevoli litanie acide, senza alcuna nota informativa se non le indicazioni tecniche di registrazione.

Il contenuto fa salire un chiaro sospetto: che la provenienza sia la stessa di Untitled. Stesso suono puntuto ed ispido di chitarra, stesso suono pastoso del basso, stessa ottundenza delle percussioni, stessa voce catatonica. Difficile pensare che siano riusciti a replicare esattamente tutti questi elementi con tale fedeltà, anche se non ho le competenze tecniche per affermarlo scientemente. Un'altra ipotesi che lo suffragherebbe è quella del buon senso: forse sarebbe stato un po' troppo, pubblicare oltre un'ora di questi mattoni in una botta sola, e così si decise di spezzarla in due, soltanto che Untitled ebbe un riscontro così risibile che Evans, Redaelli e Mitha si sciolsero e lasciarono 2 in un cassetto. Fanta-musica, di quella che mi piace tanto fare. 

Comunque sia andata, è stato giusto diseppellire queste 5 tracce. I Coconuts sono (erano?) un'espressione unica, inaudita ed incompromissoria dei nostri giorni, e probabilmente resteranno del tutto incompresi e non replicabili da nessun'altro. Io continuerò a stimarli e, ogni tanto, lasciarmi andare all'abbandono acido delle loro zombie-ballads.


domenica 11 dicembre 2022

Aphex Twin – Digeridoo + Xylem Tube E.P. (1992)


Due EP della prima ora di Richard James, per un trentennale del tutto casuale ma gradito come qualsiasi recupero storico dell'irlandese. Dopo essersi rivelato l'anno prima con i primi due Analogue Bubblebath, il 1992 fu quello della rivelazione internazionale, della sensazione europea. A Gennaio uscì Digeridoo, che fra l'altro istigò immediata curiosità: quello che si sentiva nella title-track era realmente un didgeridoo? Ma prima di tutto, per me, che cos'era un didgeridoo? In epoche pre-internet, in mancanza di informazioni reperibili su un enciclopedia, certe domande potevano restare irrisolte a lunghissimo. In realtà non c'era nessun campionamento di quello strumento etnico, era soltanto frutto della maestria di RJ alle macchine nel saperlo replicare. L'EP è ascrivibile alla categoria aphex-core, molto meccanico e serrato, quasi del tutto atonale. Era il manifesto corrente di una scia dura e pura che poi sfocierà soprattutto in Polygon Window.

Sei mesi dopo, lo Xylem Tube EP concedeva qualche panorama decisamente più tonale e di ispirazione cosmica, come nelle reminescenze Tangerine Dream dell'iniziale Polynomial-C o nelle sincopi psico-sinfoniche di Dodeccaheedron. Nel mezzo, due panzer bitorzoluti, Tamphex e Phlange Phace, danzano storti, metallici ed indecifrabili. A volte giudicare un EP è difficile perchè ci si misura con lunghezze differenti, ma questi 22/23 minuti, presi nel suo insieme fumigante, sono fra le cose migliori in assoluto mai fatte da RJ; una sintesi magistrale della sua arte scostante, fisica e cerebrale.

sabato 10 dicembre 2022

15 Anni di TM


In un sabato sera invernale, alle 23.00, (rievocando così simbologicamente gli appuntamenti di un trentennio fa delle Mental Hours) celebro con un paio di righe il quindicennale di TM. Una vita ed un attimo, il tempo di girare le spalle e poi tornare di fronte, al fronte della montagna da scalare di cui non si vede ancora la vetta, e forse non la si vedrà mai, ma finchè ci sono energie ci si inerpica. Per i molteplici significati che TM riveste nella mia vita, la voglia di scrivere non è ancora tramontata. Finchè c'è musica, c'è ottimismo e sapore dell'esistenza. Ed un saluto a chi passa di qua, casuale o causale.

giovedì 8 dicembre 2022

Current 93 – If A City Is Set Upon A Hill (2022)


Il ritorno a 4 anni di distanza da The light is leaving us all, inframezzato dai soliti capitoletti più o meno minori e sperimentali, che a sua volta era stato preceduto da I am the last of all the field, inframezzato a sua volta dai soliti capitoletti minori e sperimentali. Forse non riuscirò mai ad analizzare a fondo la discografia di David Tibet come essa meriterebbe, ma sono sicuro che concetti come la ciclicità e la ricorrenza sono di grande impatto e rilievo. If a city is set upon a hill intanto se ne sta lì estatico e bucolico a confermare che C93 sta continuando ad invecchiare bene, benissimo, e sforna dischi a fuoco, omogenei e preziosi. Squadra che convince si cambia pochissimo: ancora dentro il raffinato pianista Van Houdt, il chitarrista Roberts, il polistrumentista Liles, il ghirondista Brown, la violinista Boada. Di nuovo nessuna percussione, si lavora più per sottrazioni, si costruiscono docili e fragili impalcature, il focus è questa forma immortale di art-folk da camera che Tibet evolve ormai da tanti anni, il risultato finale è sempre subordinato ai collaboratori di turno e l'eccellenza è servita e perseverata. If A City...., Clouds At Teatime e ...Is set upon a hill, gli estremi ed il centro esatto della scaletta gli episodi da incorniciare. Ecco un altro concetto che scommetterei essere cruciale: la simmetria. Lunga vecchiaia a Tibet.

lunedì 5 dicembre 2022

Codeine - Frigid Stars (1990) (2012 Reissue)


Compie 10 anni il cofanetto tombale When I See The Sun, che celebrò la reunion dal vivo per chiudere definitivamente un'esperienza che non avrebbe potuto generare altra musica, come ben declamarono in un intervista di qualche anno prima. Una delle cose che mi ha incuriosito di più dell'operazione è stata scoprire che tutto il loro repertorio è stato integralmente composto da Immerwahr; Engle non ha mai scritto neanche una nota, e neanche Brokaw, che fra l'altro nel corso della sua carriera poi è stato anche un chitarrista. Era evidente che il bassista fosse l'anima fisica della band, ma non pensavo fino al punto di esserne l'unico compositore.

Il mio recupero del cofanetto si focalizza sul debutto Frigid Stars, un disco che fece rumore e diede i natali allo slow-core. Per quanto abbiano ridotto la questione alla necessità di inserire un elemento ottundente nella loro musica, l'importanza di questo disco è incalcolabile; forse gli Slint non lo ascoltarono, ma Spiderland incluse rallentamenti ed esplosioni chitarristiche che qui provocano brividoni su Cigarette Machine, a mio parere il vero manifesto dell'album.

Gli ho sempre preferito The White Birch, per una serie di fattori: su Frigid Stars la produzione non è eccelsa, soprattutto sulla batteria, troppo riverberata, che non rende giustizia alla performance calzante di Brokaw. Il songwriting di Immerwahr è un po' debitore di Neil Young, e per quanto la questione BPM compia la rivoluzione, a volte le melodie sono leggermente stucchevoli. La loro arte della lentezza necessitava di evolversi, e non avrebbe tardato molto a spiccare il volo con la betulla bianca.

Ben 10 i bonus allegati alla reissue, e non poco contrastanti; uno dei top assoluti del repertorio, Castle, fu lasciato inspiegabilmente fuori. Skeletons, lanciato a velocità supersonica, è uno stomp che fa la figura dell'intruso, ma è gradevole. Corner Stone è un plagio neilyounghiano, Summer Dress e Kitchen due rilassate ballad acustiche che non c'entrano molto col contesto. Il resto sono versioni demo di pezzi in scaletta, a volte interessanti e a volte meno. In sostanza, un'operazione chirurgica che andava assolutamente effettuata, perchè nel bene e nel male i Codeine restano un pezzo di storia americana che non va mai dimenticata.

venerdì 2 dicembre 2022

Screams From The List #112 - Henri Chopin – Audiopoems (1971)


A questo non avrei dato neanche un centesimo. Già il titolo non lasciava presagire nulla di buono, Audiopoems, faceva pensare a quei dischi di spoken word che fanno addormentare dopo neanche un minuto. Ed invece. Chopin, ardìto sperimentatore parigino del dopoguerra, più che un poeta un iconoclasta, un impavido manipolatore della parola e del suono. Armato di microfono, registratore e forse qualche effetto (un peccato che non ci sia una lista delle apparecchiature utilizzate, sempre che ce ne siano state!), porta qui in scena un crudissimo recitato, fra il surreale ed il tenebroso, il concretismo ed il teatrale, con punte quasi di power electronics ante-litteram (New Departure). 50 minuti di follia pura, interessante anche se non si conosce il francese, che può incuriosire ed affascinare anche chi ama il Demetrio Stratos solista per la ricerca pura del suono attraverso le corde vocali. Ristampato in Cd-r dall'attentissima Creel Pone nel 2010.