domenica 31 marzo 2019

Xela ‎– The Dead Sea (2006)

Il terzo disco di John Twells, eccezionale anello di congiunzione fra gli esordi melo-glitch-ambientali e le scurissime escursioni che caratterizzeranno il proseguio di Xela da In bocca al lupo in poi. Come descrivono le note di copertina, 12 pezzi che il rosso prima uccide e poi ri-anima, con un evidente filo conduttore (concept marino, più o meno dichiarato): massiccia e decisiva la presenza della chitarra, a volte motore portante della composizione, altre abbellimento di supporto ad un campionario elettro-acustico che si dipana con straordinaria varietà. Un tragitto mozzafiato sul Mar Morto, un capolavoro emotivo di modernismo, e sicuramente il suo miglior episodio.

venerdì 29 marzo 2019

Scream From The List 81 - Patrick Vian ‎– Bruits Et Temps Analogues (1976)

Figlio di un jazzista / scrittore, agitatore del '68 universitario parigino come membro dei Red Noise (anch'essi presenti sulla List), Vian è un polistrumentista che realizzò soltanto questo interessante album di elettronica imbastardita, fra corrierismo cosmico, surrealismo melodico e fotogrammi jazz al microscopio, rigenerati in loops quasi demenziali. Il classico fare sornione transalpino al servizio di un suono svanito, assente e sfuggente, per 9 quadri mutevoli e senza un apparente filo conduttore. Non fu rivoluzionario, visto anche l'anno di uscita, ma Vian avrebbe meritato certamente un rilancio.

mercoledì 27 marzo 2019

Hüsker Dü ‎– New Day Rising (1985)

Un ritorno a formati più oculati, dopo la sbornia concettuale ed iper-stirata di Zen Arcade, che viene solitamente ritenuto il loro capolavoro (che a mio avviso resta sempre e comunque Warehouse). New Day Rising resta sempre hardcore, ma di quello altamente evoluto e rivelatorio del songwriting del compianto Hart, che emerge per la prima volta prepotentemente con The Girl Who Leaves on Leaves Hill e Terms of Psychick Warfare. E' sempre Mould a dominare però, e soprattutto a diversificare, senza lesinare episodi shockanti e fuori canone come la conclusiva Plans I Make, una dissonanza colossale. Per questo motivo non è nè il migliore nè il peggiore (se esiste un peggiore) degli HD, ma soltanto un felice album di passaggio, di ulteriore crescita, di scavallamento e di conquiste.

lunedì 25 marzo 2019

William Basinski ‎– Melancholia (2003)

14 Loops magnetici melanconici per piano, nastri, sax e refrigeratore, registrati nei primi anni '80. Così recitavano le laconiche note di cover di questa goccia nell'oceano diffuso da WB nei primi anni zero. Melancholia possiede una peculiarità che la distingue immediatamente dalle altre perle del grande newyorkese: è composto da ben 14 tracce anzichè la solita unica gigante o spezzata in due a causa dei limiti tecnici del supporto. Limiti perfettamente superabili in questo caso, tant'è che la Temporary Residence ne ha licenziato un edizione vinilitica nel 2014.
Musicalmente, è forse la prova più superba dal punto di vista tradizionalmente inteso: le sonorità sono come al solito nebbiose, sfumate, sabbiose, è purissima ambient più che altro per pianoforte liquido ed effetti, sono sempre i suoi loops ma posti in una sequenza ordinata, con un paio di richiami, è magia ipnotica come solo lui è in grado di generare. Da consumare a ripetizione, per abbandonarsi ad un oblio divino.

sabato 23 marzo 2019

American Music Club ‎– California (1988)

Il difficile terzo, un altro classicissimo degli AMC, appena un'anno dopo il mega capolavoro Engine, un paio d'anni prima del viscerale ed elegante Everclear. Un Mark Eitzel che intitola sinteticamente ma ha molte cose da dire, con la sua filosofia introversa e crepuscolare, assistito come sempre dal grande Vudi, con la produzione asciutta ed essenziale del batterista Mallon, e la slide campagnola a stridere un po' di Kaphan. Rispetto ai due sopracitati, l'approccio è più meditato, per non dire meditabondo, ma genera ancora pezzi memorabili, destinati a restare nel cuore non soltanto dei fans ma anche di Mark stesso, che non esiterà a reinterpretarli live 15 anni dopo.
Last Harbour, Jenny, Blue and grey shirt, Somewhere, Pale skinny girl sono le gemme più splendenti di una formula cantautoriale rimasta unica al mondo.

giovedì 21 marzo 2019

Audiac ‎– Thank You For Not Discussing The Outside World (2003)

Duo tedesco riconducibile al giro di Irmler dei Faust, produttore e proprietario dell'etichetta di competenza. Il loro caso è quantomeno curioso: dopo quest'esordio passeranno ben quattordic'anni prima di una replica, ed in entrambi i casi si è trattato di un gioiello di contaminazione moderna, al punto di richiamare idealmente la creatività dei loro padri.
Thank you suona incredibilmente fresco, nonostante l'ambizione: per gran parte sembra uno Scott Walker maturo che collabora coi Radiohead di Kid A ed Amnesiac, per l'appunto prodotti dal leggendario tastierista dei Faust. Ma ci sono anche tracce canterburyane, spunti prog nel senso più nobile ed una componente elettronica che non prepondera mai il senso delle composizioni, in alcuni casi di una bellezza clamorosa. Vien proprio da pensare "peccato che abbiano fatto solo due dischi in 15 anni."

martedì 19 marzo 2019

Braen's Machine ‎– Underground (1971)

Così come Armando Sciascia si fece il gruppo rock con quel gioiellino che fu Distortion, lo stesso fece Alessandro Alessandroni in combutta con Oronzo De Filippi, coautore di questo primo episodio a nome Braen's Machine. Ma a differenza del violinista abruzzese che mantenne l'anonimato anche degli esecutori, qui il chitarrista romano scese in campo alla testa di un quartetto di jazzisti, armato di sei-corde ultra-elettrica, in veste di guitar hero scatenato, con uno stile curiosamente affine a Michael Karoli dei Can.
Il disco manco a dirlo è una goduria, una sorta di hard-library sorniona e sgusciante, una specie di lounge-core didascalica ed esaltante, con i 3 musicisti a supporto non meno invasati di Fischio, (sezione ritmica a dir poco superba), come se il Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza si fosse messo in testa di lasciar perdere l'avanguardia e si dedicasse alla sonorizzazione pura e tradizionale. Nove temi saltellanti su cui si mormora abbia messo le mani anche Piero Umiliani, di sottofondo lussuoso ed urticante eleganza.

domenica 17 marzo 2019

Red Sparowes ‎– The Fear Is Excruciating, But Therein Lies The Answer (2010)

Quando andai a vederli a Bologna nel 2010, mi raccomandai con Greg Burns che non ci mettessero altri 4 anni per fare un disco nuovo dopo il capolavoro Every red heart... Oggi, dopo quasi un decennio di inattività, possiamo tranquillamente accettare il fatto che una delle migliori band di tutto l'epic-instru abbia cessato di esistere dignitosamente, senza riscontrare un calo di ispirazione ed output che al contrario ha pervaso tutti gli altri del filone. Con The Fear restavamo a livelli ancora alti, seppur inferiori al sopracitato ed al precedente At The Soundless Dawn. Se non altro bastavano due autentici manifesti e vertici come Hail of bombs e A swarm, che suggellavano un disco con qualche momento di stanca soprattutto nella seconda parte. Sempre meditativi e muscolari, crepuscolari ed energetici, riflessivi e fragorosi, i Red Sparowes hanno incarnato alla perfezione un punto d'incontro fra il post-rock ed il post-metal, forti di una line-up con elementi talentuosi e dalle provenienze più disparate. Erano l'evoluzione sintetica e personale di un incrocio fra gli Explosions In The Sky e gli Isis strumentali. Ce li ricorderemo a lungo.

venerdì 15 marzo 2019

Fabio Fabor ‎– Aleatoric Piano Collages (1970)

Album cult della prima library ad opera di un master della categoria (di lui ho già disquisito in occasione dell'altro pezzo forte della sua discografia, Pape Satan). Come da didascalico titolo, si tratta di una serie di schizzi pianistici dalla componente aleatoria molto marcata, più o meno equamente divisi fra piano preparato e normalmente suonato. Dodici numeri, tutti molto brevi come da manuale, di pura ed altissima classe sonorizzante: le atmosfere sono inquietanti, le interferenze fisiche sulle corde interne donano effetti spigolosi e raggelanti, interrotte da poche ma ben poste sonatine vagamente romantiche.
Un flusso magistrale che stranamente (o forse per motivi di diritti) non è stato ristampato; se dovessi indicare un modello di musica astratta, credo che nominerei questo capolavoro.

mercoledì 13 marzo 2019

Oxbow ‎– 12 Galaxies (2008)

Live acustico contenuto in un doppio cdr limitato, abbinato al debutto Fuck Fest, ad opera della Hydra Head, come limited edition release del tour europeo nel 2008. Le liner notes sono strambe ed a tratti incomprensibili: Eugene Robinson le chiude dicendo enjoy, perchè potrebbe non esserci più un concerto unplugged degli Oxbow.
Nulla di più falso, ESR; negli anni successivi questo formato troverà spazio nella discografia, anche se di nuovo sottoforma di cdr, con il Live at the Bam. Evidentemente 12 Galaxies (nome tratto dal locale di San Francisco dove si è tenuto l'evento, e presuppongo per davvero pochi intimi) deve aver aperto una certa breccia artistica. Ed è compensibile, perchè il quartetto fa faville e fa emergere il proprio lato più arty, senza elettricità e senza effetti. Ospite tal Kyle Bruckmann che di tanto in tanto starnazza in un oboe ed in un corno inglese, in via del tutto dissonante, segno di una joint venture probabilmente neanche concordata con largo anticipo.
Un trio di classici del passato e poi i piatti forti di Narcotic Story. Servono altre spiegazioni e/o delucidazioni?

lunedì 11 marzo 2019

Dinosaur Jr. ‎– Where You Been (1993)

L'avrò già scritto da qualche parte, ma il valore affettivo permette la ripetizione. Il primo Rockerilla che comprai (Gennaio 1993) recava i Dinosaur Jr in copertina, ai quali andava la massima esposizione in vista dell'uscita di Where You Been, loro quinto album, secondo su major dopo Green Mind. Perso da un po' Barlow, Mascis trovava finalmente il suo zenith professionale, giungendo alla maturità con un disco perfetto negli equilibri. Lasciati alle spalle gli enormi, influenti oceani di distorsione in cui annegavano le sue melodie, complice anche lo stile pulito al basso di Mike Johnson distante anni luce dallo strumming caotico di Lou Barlow, facilitato da una produzione assolutamente impeccabile (ascoltare in cuffia per credere; è un privilegio che non mi capita quasi mai, ma in questo caso fa davvero la differenza), con delle varianti di arrangiamento che spezzano i ritmi con sapienza come la letargica Not the same e la raffinata Goin home. Ovvio poi che il meglio stia nelle consacrazioni automatiche di Out there, Get Me (ricordo dell'epoca, il video su Indies, una mini-storia a base di noia e frustrazione tipicamente americana che esplode con l'assolo finale) e What else is new, roba da far invidia a Neil Young che in quel periodo guardava al mondo alternativo con molta attenzione.
Ah, l'intervista a J Mascis nel giornale era davvero curiosa; famoso per le sue risposte laconiche e monosillabiche, in realtà fu abbastanza loquace e simpatico, per quanto simpatico possa essere J Mascis. Soltanto che, rileggendola dopo 25 anni, ritengo che le domande non fossero molto interessanti da un punto di vista professionale...

sabato 9 marzo 2019

Silver Mt. Zion – Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything (2014)

La reunion dei Godspeed non ha fermato i SMZ; semmai ne ha soltanto rallentato l'attività produttiva, che al momento è rimasta a quest'ultimo, dal quale ormai è passato un lustro.
Il nucleo fondativo Menuck-Amar-Trudeau si è stabilizzato con la Moss ed il batterista Payant, e la coesione del quintetto ne guadagna. Al netto delle fasi pastorali, Fuck Off è un disco piuttosto tempestoso ed assordante. Potremmo definirlo Godspeed-core, oppure punk-prog; la prima metà del disco, con Fuck Off Get Free e Austerity Blues sugli scudi, è composta da lunghe digressioni tirate allo spasimo, i SMZ non sono mai stati così veloci ed aggressivi, eppure la componente epica classica del loro trademark prima o poi risorge e fa andare tutto in climax.
Non deludono mai neanche loro, come i Godspeed (anche se l'ultimo in realtà non mi ha entusiasmato..): sembra tutto ovvio e scontato, ed invece continuano ad esaltarci con la loro essenza, così umile e grandiosa al tempo stesso.

giovedì 7 marzo 2019

S.F. Seals ‎– Truth Walks In Sleepy Shadows (1995)

La californiana Barbara Manning è una cantante/chitarrista/cantautrice che negli anni '90 avrebbe potuto sfondare a livello commerciale: il suo indie-pop aveva il potenziale per attirare buone masse, anche se non aveva niente a che fare col grunge, e neanche tanto col college-rock. Peccato che abbia sprecato il suo talento cristallino con un animo evidentemente inquieto che l'ha portata a fondare e sciogliere gruppi a ripetizione.
Con S.F. Seals fece due album con la Matador, di certo cosciente di questo potenziale. Truth walks in sleepy shadows è un gioiellino di umile artigianato pop; la Manning, inquadrata in uno schema impeccabile, non spreca una nota nè una sequenza strutturale e sa dividersi fra numeri grintosi e ballad trasognate (forse il suo lato migliore, con le splendide Bold Letters e Ladies of the sea) con una disinvoltura notevole. 
Un disco perfetto per i primi tramonti autunnali.

martedì 5 marzo 2019

Pinetop Seven ‎– Pinetop Seven (1996)

Un vero peccato, che Darren Richards abbia mollato tutto per fare l'avvocato; davvero non me l'immagino a svolgere questa professione, uno con un animo musicale così discreto ed elegantemente rustico. Con i suoi P7 ha pubblicato una manciata di dischi folgoranti di cantautorato alt-country leggermente sofisticato, che non rinnegava le sue radici americane ma le innalzava ad uno stadio superiore, grazie anche ad una maestria di songwriting solitamente appannaggio dei grandi, nonchè per una ricerca sugli arrangiamenti da fine cesellatore.
Una carriera peraltro in crescendo, con il capolavoro assoluto The night's bloom in cima alla lista, ma forte anche di una tappa intermedia come Bringing home the last great strike. Ad inizio corsa, Richards guidava un quintetto comprendente il polistrumentista futuro Boxhead Ensemble Charles Kim, e autoprodusse il proprio debutto. Neanche un anno dopo i tizi tedeschi della Glitterhouse, sempre con le orecchie ben aperte, lo importavano in Europa per diffondere giustamente ai 4 venti una prova di classe immediata. E' roots music, in fondo, ma con quel sottile strato di sofisticazione e di velata malinconia che travalica le retrograde ottusità yankee a piedi pari. Forse arrivò un attimo tardi per il rinascimento post-folk; meritava molta più esposizione, almeno quanto un Grant Lee Phillips.

domenica 3 marzo 2019

Black tape for a blue girl ‎– A Chaos Of Desire (1991)

Uno dei vertici di Sam Rosenthal ed il suo gotico ambientale, appartenente alla prima fase più trasognata e solenne, priva delle componenti più dark che saprà sviluppare nelle fasi successive
Una piccola pattuglia di vocalist si alterna nel corso delle 12 tracce, con la maggioranza assegnata ad Oscar Herrera, forse non dotatissimo ma perfettamente calato nelle atmosfere, che a più riprese denunciano una certa influenza Dead Can Dance. La maestria di Rosenthal comunque si dipana immutata in un rosario caleidoscopico, sempre tendente al nero ma con aperture di grande ispirazione. Certo, le sonorità sono un po' datate, ma la perfezione formale è quasi assoluta.

venerdì 1 marzo 2019

Om – God Is Good (2009)

Abbiamo apprezzato la reunion degli Sleep ed anche il ritorno dei Grails, ma senza che neanche ce ne siamo accorti sono ormai sette anni che gli Om non fanno un disco nuovo, così il decennale è l'occasione buona per andare a ripescare il loro massimo capolavoro, quel God Is Good che avevamo potuto saggiare dal vivo pochi mesi dopo l'uscita. Primo disco con il grande Emil Amos e registrato come sempre impeccabilmente da Steve Albini, sorprese in positivo per il parco innesto di nuovi strumenti (chitarra, piano, flauto), contiene la suite definitiva del metal-mantra Thebes, rotolante ed ossessiva, la meditazione Mediation is the practice of death, la Cremation Ghat in due parti, divisa fra freddo dub bianco (con una parte di basso che non credevo Cisneros fosse in grado di elaborare) e splendida aria indiana, con un orchestrazione da brividi (e l'evidente mano di Amos, ormai uno specialista di queste creazioni). Tre anni dopo Advaitic Songs si porterà un po' più in là come ambizione, ma senza la necessaria lucidità per confermarsi a questi livelli.