mercoledì 29 giugno 2022

Pop Group – Y In Dub (2021)


Simpatica operazione del Pop Group che rispolvera le bobine originali di Y e le rimette in mano al produttore Dennis Bovell con l'intento di manipolarle, rimasticarle e tirarne fuori una versione in lucido, scintillante spirito dub. Ovvero uno degli ingredienti più latenti nel dna del PG; ne faceva parte, ma come tutto il resto non predominava mai, restava un po' sullo sfondo, si amalgamava in quel titanico meltin' pot grazie soprattutto al bassone di Underwood, la cui opera finalmente riesce a riemergere nella superba equalizzazione generale.

Y non aveva certamente bisogno di questo auto-tributo per essere rivalutato, ma dopotutto una spolverata sta sempre bene, soprattutto a chi non l'avesse mai ascoltato. In Dub rimescola anche la scaletta, rivoluziona gli assetti, non opera una fusione chimica ma scombina e scombicchera con cognizione di causa. 42 anni sono un'eternità, ma il PG ha ancora voglia di sconvolgere e farci dimenare anche e cervello.

domenica 26 giugno 2022

Helmet – Live And Rare (2021)


Stretti fra i veloci eventi del periodo e le pastoie della Interscope, gli Helmet degli anni d'oro non avevano mai pubblicato qualcosa dal vivo e mi era capitato di chiedermene il motivo più volte. Oggi ci pensa la loro attuale etichetta, la Ear Music, ad operare un recupero ad alta fedeltà di due eventi ben datati: il primo del gennaio 1990 al CBGB di New York, per un pubblico a dir poco sparuto (dagli applausi si intuisce qualche decina), col materiale di Strap It On ad incendiare l'aria fetida del leggendario locale. Il secondo del gennaio 1993 in Australia, di sostegno a Meantime. Con le dovute differenze di contenuti, in entrambe le occasioni il quartetto macinava il proprio smart-noise con precisione chirurgica ed efferatezza (mai, mai smettere di lodare John Stanier...), con l'unica pecca riservata a Page Hamilton, in chiaro affanno per quanto riguardava le parti vocali. Per i fan storici, una chicca irresistibile.

giovedì 23 giugno 2022

Richard Skelton – A Channel For Water (2018)


Se già prima della pandemia il prode Riccardo aveva ritmi di output altissimi, negli ultimi 2 anni le uscite si sono ulteriormente intensificate. Impossibile pertanto stargli dietro, e come conviene per questa categoria di musicisti, tanto vale pescare a caso. Non tutto è oro colato, ma la media resta comunque molto alta. A channel for water nasce per mezzo di un recupero datato 2007, risalente quindi ai suoi primi anni di produzione, i tempi dorati di Landings, A Broken Consort, Harlassen, Carousell e Clouwbeck. Una decina di minuti ipnotici per rifrazioni di archi, di rincorrersi di armonici in sequenze circolari, dall'umore crepuscolare e caratterizzato da quel contrasto di tonalità/atonalità che tanto ha generato piccoli capolavori di emotività struggente.

A seguire, tre riprese dell'originale datate 2018. La prima, molto spacey e solcata da synth quasi celestiali. Molto più a tema la seconda, che ne costituisce un ideale, ombroso prolungamento. Infine la terza, in un contesto più ambient dominato da bordoni di synth e con inusitate ribollite di audio generators nel sottofondo. Nessuna di queste tre raggiunge il livello della matrice, ma ascoltato in soluzione di continuità, A Channel For Water è una tipica Skelton experience che mi sento di consigliare anche ad eventuali neofiti.

lunedì 20 giugno 2022

Green River – Dry As A Bone (1987) (Deluxe Edition 2019)


Meritoria operazione di recupero della Sub Pop che, ad oltre 30 anni di distanza, riesuma il fumigante secondo EP del leggendario gruppo grunge (prima che ancora il termine venisse diffuso a macchia d'olio fino a diventare parola d'uso comune), lo amplifica con una messe di inediti e frattaglie sparse del periodo e ciliegiòna finale, recapita a Jack Endino i nastri originali per un lavoro di sistemazione che finalmente rende giustizia al loro sound, mondato così da quei danni eighties che purtroppo imperavano anche nell'underground americano. Per quanto riguarda il contenuto, ben poco da dire: erano i più grandi e non soltanto di Seattle, come poi ebbero a ribadire vari personaggi dei paraggi che di lì a qualche anno verranno sbattuti sotto i riflettori di tutto il pianeta. Nonostante il contenuto derivi da fonti, periodi e studi differenti (triennio '85-87), l'opera di Endino fa sì che queste 16 tracce si fondano in un brulicante, omogeneo calderone arroventato in cui la vocalità sfrenata di Mark Arm (anche sul palco, la reincarnazione dell'Iggy Pop del 1970), le chitarre infuocate di Gossard e Fairweather, il basso roboante di Ament e la batteria incessante di Vincent concorrevano a rendere i GR la più autentica fusione a caldo di rock, punk e metal che fosse mai esistita, creata con una congiunzione astrale di fattori di cui è molto interessante sentire le voci. Tutto questo avvenne poco prima che il gruppo andasse a fare il suo primo album, anche se già dubbioso e prossimo allo split per divergenze attitudinali. A modo loro, la storia l'avevano già creata.

venerdì 17 giugno 2022

Shores ‎– Coup De Grace (2010)


Certo, esordire nel 2010 con un album spudoratamente nineties slow-core non ha garantito un gran seguito a questo gruppo del Michigan, peraltro su un etichetta rigorosamente punk. La storia è sempre stata piena di ritardatari storici, di solito per ragioni anagrafiche, e sembra improbabile che questi ragazzi avessero grosse ambizioni se non fare la loro cosa con onestà. Coup De Grace resta e resterà un prodotto per inguaribili nostalgici ed amanti della nicchia, come me. I riferimenti immancabili non sono certo una scoperta incredibile: i Karate del primo (non a caso poi hanno partecipato ad un oscuro tributo), la Bedhead/New Year experience, i Drunk, Bluetile Lounge, e così via, con squisito ed inconfondibile Dna statunitense. Fuori contesto tirare in ballo Codeine, ma i pezzi eccellenti in quella galattica scia ci sono in buona quantità: Engage Pall, Canned Heat, Seeds, Meanwhile, One Palm Sunday. Disco perfetto per una serata invernale in flanella, ma gradevole anche a piedi nudi con una birretta in mano, brindando alla giovinezza andata.

martedì 14 giugno 2022

Felt ‎– Stains On A Decade (2003)


L'ultima compilation pubblicata in ordine temporale dei Felt, composta quasi esclusivamente da pezzi estratti dai 7", senza ambizione di completezza ma con le sembianze di una selezione puramente arbitraria. Dal prezioso serbatoio di materiale che Hayward ha accumulato durante la decade dei Felt, ecco 15 macchie poste in ordine cronologico dal 1981 al 1988, che se non altro hanno il pregio di sintetizzare la controversa parabola in un bignami esaustivo. E quindi si parte con le prime delizie targate 1981-1984, sugli scudi con Something Sends me to sleep, Penelope Tree, Sunlight bathed the golden glow, Dismantled king is off the throne, chicche rigorosamente non oltre i 3 minuti, infiorettate da Deebank come nessun altro chitarrista al mondo avrebbe potuto fare. Uno snodo cruciale è la lunghissima (per i loro standard) Primitive Painters, che coinvolse i Cocteau Twins in un esperimento ambizioso ma forse un po' forzato, infatti non ci furono ulteriori sviluppi. Il 1986 fu l'anno della dipartita di Deebank che influenzò inevitabilmente il sound, ma la forma era ancora stellare (I will die with my head in flames, Sandman's on the rise again) e Hayward la colse come un opportunità positiva. Infine l'ultimo periodo, 1988-89, caratterizzato da un ripiegamento improvviso, un raccoglimento acustico forse spinto da una frustrazione montante per il mancato successo (ma potrebbe anche esser stato un cambio di fornitore...). Fine della corsa. Corollario essenziale alla loro intricata discografia.

sabato 11 giugno 2022

Tom Recchion – Soundtracks To A Color: Gold & Black (2004)


Colonna sonora per un installazione artistica patrocinata dalla galleria municipale di Los Angeles nel 2004, incentrata sul contrasto fra i colori nero e oro. TR partecipò con due monoliti alla bisogna di 35 minuti ciascuno, programmati come sottofondo costante. Per la sua natura professionale di art director, immagino che non potessero essere più azzeccati, ma anche presi al di fuori di quel contesto non faticano a trovare un loro significato. Perlomeno, facendo una media fra i due.

Gold, una cascata sgargiante e variopinta di suoni, festa allegorica in classico stile TR, servizievole alla causa ma alla lunga un po' troppo ripetitiva, diciamo concettualmente minimalista. Ben altro discorso con Black, che scodella un ritmo electro-wave su loop darkeggianti, si ferma intorno al quarto d'ora, galleggia su una stasi inquietante, con giri armonici circospetti e suoni concreti. Riparte il suddetto ritmo e si aggiungono stratificazioni alternate fra cui gorgheggi operistici, altri suoni sintetici fino alla sfumatura. Una scultura magistrale, esempio massimalista dell'arte cut & paste del californiano, e probabilmente suo ultimo capolavoro in ordine temporale.

mercoledì 8 giugno 2022

Eberhard Schoener ‎– Meditation (1974)


Uno di quei dischi che sarebbero dovuti finire sulla NWW List, magari al posto di qualcuna di quelle ciofeche irritanti ed inutili. Magari Stapleton non ci si imbattè, chè l'avrebbe apprezzato alquanto nonostante l'immane austerità della proposta. Schoener, violinista classico di Stoccarda, rimase folgorato come altri colleghi sulla via dei sintetizzatori elettronici e vi si dedicò a partire dal 1971. Meditation è una suite di 35 minuti divisa in due parti (non soltanto dai limiti fisici del vinile), un affresco tremebondo di suoni cupi, di droni raggelanti, di cunicoli abissali. La prima parte è scandita da un battito di sonar ad inscenare un falso ritmo, attorno al quale le striature di synth scorrono alternate in una sequenza intimidatoria. La seconda parte, più statica e dissonante, spinge sull'astrattismo aggiungendo una soave quanto spaesata voce femminile in fonetica, ma in generale non regge il confronto con la prima facciata, che resta un caposaldo archetipo della dark-ambient. Insomma, un altro grande pioniere teutonico.

domenica 5 giugno 2022

Screams From The List #108 - Roberto Colombo – Sfogatevi Bestie (1976)


Tastierista milanese qui al debutto con un titolo programmatico; le bestie in questione furono i musicisti assoldati (fra i più conosciuti Calloni, Donnarumma e Belloni), a cui evidentemente diede ampissimo margine di libertà esecutiva per le sue partiture jazz-rock con qualche punta di progressive. Il disco inizia alla grande con Sono Pronto e Caccia alla volpe, dopodichè affiora qualche autoindulgenza, inevitabile vista la situazione di auto-referenzialità. In sostanza, non siamo al cospetto del formalismo impeccabile dei Perigeo nè dell'istrionismo degli Arti & Mestieri, dato anche il fatto che si trattava di un ensemble estemporaneo, ma il fascino ed il divertimento trasudante non si discutono. L'inclusione nella NWW List è più pretestuosa alla luce di Metronomo 138, un collage di 8 minuti che include elettronica dissonante, percussivismo e funk, ed ad Assurdo P.2, un curioso teatrino RIO-pop che chiude un po' in agrodolce. L'anno successivo Colombo replicherà con un altro disco e poi diventerà un professionista dello studio, finendo per lavorare in pratica per qualunque cantante italiano/a, dal più impresentabile / impronunciabile a Fausto Rossi, passando addirittura all'esperienza di scrivere un pezzo insieme a PH nel 1988.

giovedì 2 giugno 2022

Ulver – Wars Of The Roses (2011)


Il giorno in cui sarò riuscito ad ascoltare tutti gli album degli Ulver, se mai ce la farò....non ci avrò ancora capito un granchè, e sarà un bene. Dietro questa triviale battuta si nasconde un mondo misterioso, tutto da esplorare ed interpretare a proprio sentore. Per Wars Of The Roses, già conflittuale dal titolo, era presente in maniera integrale il talento di Daniel O'Sullivan, che da turnista di lusso era passato ad essere membro fisso, complice certamente la militanza insieme a Rygg in Aethenor. Riflessi argentei di quell'esperienza radicale si inseriscono ad intermittenza in una scaletta a dir poco schizofrenica, con l'energetica apertura di February MMX, un avvincente e colorito synth-prog, che rappresenta il momento più accessibile ma ha una funzione disorientante. La stasi allucinatoria di Norwegian Gothic, i melodrammi guidati dal piano di Providence e England, la melanconia irreversibile di September IV, la marcia catatonica di Island, rappresentano un'evoluzione naturale alla perfezione ambient-rock di Shadows of the sun, per non tirare in ballo un passato scabroso che sembrava archiviato ma aveva lasciato scorie.

Non è un disco perfetto (il quarto d'ora finale di Stone Angels, di fatto un reading su base scabra e minimale, si poteva evitare), perchè a tratti certi scarti sembrano quasi innaturali. Per farla breve, è un disco adulto degli Ulver, con tutte le imprevedibili pieghe, il peso dei personaggi intervenuti (nel cast anche Westerhus e Noble, e si sentono) e quel fattore vagamente aleatorio di classe distillata a rilascio incontrollato, con tutti i pro ed i contro. I primi sono molti di più, però.