venerdì 31 gennaio 2020

Amok – Warm Leeches Dance (1985)

La recensione su BU inerente la recente pubblicazione del box antologico Anticlima di Enrico Piva ha suscitato in me un impeto di curiosità sulle vicende di quest'artista bresciano, attivo fin dai primi '80 non soltanto sonoramente ma anche a livello grafico e di scrittura. Pubblicò solo cassette per diverse tape labels, ma nel suo piccolo si fece un nome nel circuito sotterraneo del post-industriale europeo, grazie ad un fiero spirito di ricerca. Purtroppo però fu investito da problemi personali che andavano ben oltre la visibilità della propria musica, ed un decennio dopo aver interrotto i rapporti con più o meno tutti quelli che lo conoscevano si tolse la vita, a neanche 50 anni.
Warm Leeches Dance, riconosciuto dai pochi intenditori come il suo miglior prodotto, è un ora di ipnosi, concretismi e manipolazioni che solo una forzatura puù inserire nel filone industriale tout-court. I primi 7 minuti lo farebbero pensare, visto il reiterarsi insistito di quello che sembra il cigolio di alcune gigantesche molle metalliche. Ma il collage vocale che subentra e perdura per tutto il resto della Side A, spettrale oltre misura, fa capire che si va oltre. La side B è scandita da dei campanelli alternati ad altri raggelanti esercizi vocali, colpi incessanti di martello, in una situazione sempre più rarefatta fino all'arrivo di una tempesta elettromagnetica (quasi in stile MB), per chiudersi infine con i campanelli iniziali ed un brevissimo solo di melodica, l'unico momento musicale di quest'ora. Non ci si fermi superficialmente all'evidente naivetè/amatorialità di questo prodotto: se l'intento iniziale di Piva era shockare, l'ha ottenuto.

mercoledì 29 gennaio 2020

Thom Yorke ‎– Anima (2019)

Ormai la carriera di TY riserva ben poche sorprese, a parte la soundtrack di Suspiria che a quanto pare però non ha entusiasmato tanto, in fatto di pareri generali. Sembra quasi diabolica, la questione: si deve sempre necessariamente fare dei confronti con i dischi dei Radiohead, e non è per nulla giusto. D'altra parte, per quale motivo TY dovrebbe fare musica in solitaria (per l'esattezza, con il solito inossidabile Godrich) se non per liberare la propria espressione?
E' la solita prevedibile questione. Anima è un disco al 100% di elettronica, credo che la chitarra si senta soltanto all'inizio di Runwayaway. E' umbratile, scontroso, meditabondo, i ritmi sono claudicanti, e le nuove perle della situazione sono: Last I Heard, Twist, The Axe, Not the news. Non c'è molto altro da dire, se non che si tratta di un altro capitolo di impressionismo elettronico che impreziosisce la lunga carriera di TY. D'altra parte, troviamo paragoni o epigoni a quest'altezza in giro?

lunedì 27 gennaio 2020

Screams From The List #91 - Group 1850 ‎– Paradise Now (1969)

Mai sentito parlare di psichedelia olandese? Ecco, per me è la prima volta, alle prese con il Group 1850, quintetto attivo a fine anni '60, di certo dipendente dai modelli anglosassoni, ma con la peculiarità di avere due chitarristi solisti, uno alla Fender e uno alla Gibson. La prima metà di Paradise Now, il loro secondo album, è emozionante; un suono evocativo ma molto fisico, spiritualmente affine ai Doors per atmosfere (senza l'organo) ed impostazione delle linee vocali (occorre precisare che il vocalist era parecchio inferiore a Morrison). Peccato che la facciata B si perda un po' in due lunghe jams debitrici del blues-rock, che necessitavano di qualche rifinitura e/o taglio di minutaggio. Ma pezzi come Hunger e Friday I'm Free restano memorabili.

sabato 25 gennaio 2020

Roger Eno ‎– Lost In Translation (1994)

Stento ad immaginare che, una volta che avrò scandagliato l'intera discografia di Roger Eno, troverò qualche delusione. Il pianista inglese, che al fratello deve soltanto il dono di un Revox e la partecipazione ad Apollo nel 1983, a partire dall'incantevole debutto Voices ha dedicato sè stesso alla grazia e alla compostezza, diventando l'Harold Budd di oltremanica, ma senza il giusto riconoscimento a livello generale.
Lost in Translation, ispirato da una heretical medieval prose, lo vede in molteplici vesti: la melanconica sonata Satiana (forse la sua principale ispirazione), le trasognate mini-partiture da camera, sia strumentali che corredate di cori, le celestiali ambientazioni quasi cosmiche alla Budd, le vignette cinematiche arrangiate in maniera bizzarra, le commistioni world disseminate in qua e in là, per una manna di 18 tracce accomunate da un gusto superiore per la visualizzazione ad occhi chiusi. Spettacolari sopra tutte Occam close shave e Ne Cede Melia, non a caso poste ad inizio disco. Un filo di dispersione è inevitabile, ma è un album impossibile da fermare o skippare. Abbandonarsi e nient'altro.

giovedì 23 gennaio 2020

Sneaker Pimps ‎– Bloodsport (2001)

La notizia è di qualche mese fa; Corner e Howe sono al lavoro sul quarto Sneaker Pimps, così come se nulla fosse, a 18 anni da Bloodsport, che chiuse l'avventura in toni un po' minori, ma merita di essere rivalutato. Come il precedente Splinter, si trattava di un disco compatto ma variegato, in bilico fra tentazioni pop e tendenze decadenti, ricco di melodie a presa rapida (Sick, Loretta Young Silks), cantilene stentoree di elettro-pop acido (Kiro TV, Small town witch, Bloodsport), parabole esistenzial-crepuscolari (Black Sheep, M'Aidez). Il songwriting di Corner era una garanzia di qualità, peccato che la seconda parte del disco segnasse un declino forse dovuto al fatto che il cantante era già proiettato alla sua nuova avventura solista IAMX. Ma la facciata A a più riprese riesce ad eguagliare quell'intensità e la maestria che ci aveva fulminato ai tempi di Becoming X.

martedì 21 gennaio 2020

Family – Bandstand (1972)

Navigando sempre più stancamente verso una fine imminente, i Family continuavano a dispensare classe con meno coraggio ma con immutata classe. Fra cambi continui di line-up (Bandstand vide l'abbandono di John Wetton, insoddisfatto e pronto ad approdare al Re Cremisi) ed un tour americano di successo con Elton John, il loro penultimo album contiene gioielli assoluti come Burlesque (le trame chitarristiche di Whitney, geniali), Glove (power-soul orchestrale di razza), Top of the hill (light-prog-pop) e soprattutto Coronation, forse il loro ultimo impeto emozionale di livello assoluto. La ristampa del 2003 conteneva l'irresistibile Rockin' R's, retro del singolo di Burlesque, il ripescaggio di No Mule's Fool e due classicissimi live, in verità di qualità piuttosto povera, di Good News Bad News e The weaver's answer.

domenica 19 gennaio 2020

Tenhi ‎– Kauan (1999)

Il debutto dei magnifici finlandesi, dopo un autoprodotto del 1997 ed il primo EP del 1998, qui nella ristampa di 5 anni dopo con l'aggiunta di venti minuti di bonus tracks, davvero preziosi.
Poco da dire, erano già fenomenali nella loro arte di contemplazione ed introspezione, seppur maggiormente legate alle chitarre acustiche e scarni. Affineranno le loro doti di arrangiamento nei sublimi successivi, con risultati complessivamente superiori, ma Kauan resta fondamentale nell'aver rivelato al mondo un entità fuori dai circoli internazionali, unica nella propria espressione.

venerdì 17 gennaio 2020

Tolerance – Divin (1981)

Secondo ed ultimo atto del duo nipponico che mi aveva sconvolto alla scoperta dell'oggetto non identificato sulla List. Di Tange e Yoshikawa da lì in poi si perderanno le tracce nelle lande del Sol Levante, lasciando anche interrogativi su cosa avrebbe potuto riservarci il proseguio.
Perchè per quanto fosse spiritato, lascivo e glaciale fosse Anonym, Divin segnava una drastica virata verso l'elettronica, che per quanto fosse analogica e a tratti primitiva, finiva per anticipare la techno ed alcune sue filiazioni che negli anni '80 e '90 troveranno terreno fertile. Divagazioni a ritmo serrato, qualche sbuffo industriale, reminescenze della library più spietata, e silenzio assoluto da parte della Tange, la cui voce aveva tanto caratterizzato (in un certo senso artistico, certo) il debutto.
Sicuramente meno interessante ma comunque antesignano.

mercoledì 15 gennaio 2020

Unmaker - Firmament (2018)

Un altro consiglio ben centrato di Fabio Danieli (datato 30/12/2018, ma ormai i miei tempi sono questi), direi specializzato in revival moderni del post-punk, che diventato 40enne ostenta ancora una vita bella attiva. Unmaker è un quartetto della Virginia, nato per iniziativa di un cantante punk ed un chitarrista metal (a me oscure le formazioni di provenienza), che con Firmament debutta con un bel colpo da pilota automatico (o elaboratore digital-cibernetico) della composizione punk-wave più sulfurea e corrosiva, ma con dei tratti distintivi troppo particolari per passare inosservato o bollato come sterile tributo a chicchessia.
Il cantante, la cui impostazione nasale è chiara mutuazione di quella gloriosa stagione, per timbro e modulazione sembra veramente la versione anfetaminica e tarantolata di un Ian McCulloch o di un Jon King (ma anche quella terrorizzata di un Tony Hadley, per assurdo). La chitarra, una fornace incessante di tessiture alla Geordie Walker, ma visto il retaggio inevitabilmente meno arty e più cruenta. La ritmica, sapientemente spezzettata ed elastica, mette in mostra un'ottimo batterista, tecnicamente superiore alle medie degli originali. A completare l'irresistitibile insieme, una compattezza di suono granitica ed i pezzi, mai mediocri ed in alcuni casi clamorosi (Children of the clouds, Used Future, Through The Firmament, Sura / i).

lunedì 13 gennaio 2020

Günter Schickert ‎– Überfällig (1979)

Passarono ben 5 anni da quel fulminante esordio che era stato Samtvogel, ed il prode GS continuava a navigare per oceani lisergici con la sua echo-guitar. Nel frattempo però, anzichè starsene in solitaria, aveva avviato il progetto GAM, senza tanta fortuna. Colpa / merito di una musica, la sua, profondamente riflessiva, titanica ma intimista al tempo stesso. Überfällig non raggiungeva i livelli del suo predecessore ma confermava un talento troppo personale ed enigmatico per ottenere successi, soprattutto al tramonto estremo della stagione dei corrieri e dei grandi geni teutonici. Realizzato con un batterista fisso, consta di 4 pezzi: Puls, 15 minuti in scansione marziale dalle movenze robotiche, doppiette minimali di rullante, striature galattiche come un Karoli sulla Luna. In der zeit, ballad dolentissima per acustica, voce femminile efebica e cinguettii boschivi. I 13 minuti di Apricot Brandy II, uno psicodramma per scorie di nylon taglienti e voci manipolate che anticipa di più di 20 anni le contorsioni ultra-drastiche dei grandissimi Rope. Chiudeva Wanderer, 9 minuti di escursione circolare suggestiva anche se lievemente tirata per le lunghe.
Ristampato nel 2012 dalla specializzata in scandaglio krauto Bureau B. Non un capolavoro, ma comunque l'opera seconda di un grande, fragile uomo.

sabato 11 gennaio 2020

White Birch ‎– Come Up For Air (2005)

Il terzo album dei divini norvegesi, purtroppo terminale di una fase che porterà ad un silenzio decennale. Il nostro novello Mark Hollis della situazione chiamato Ola Fløttum, nonostante la promozione di una piccola potenza come la Glitterhouse, non è riuscito a portare avanti il progetto con le solide realtà messe in piedi fino a quel momento, grazie al portentoso e rivelatorio Star Is Just A Sun ed a questo degno seguito. In un mondo migliore, dal 2005 in poi ci sarebbero stati almeno altri 3/4 dischi così belli, puri ed incontaminati; sappiamo accontentarci, però, consumando a ripetizione Come up for air.
Che rispetto al magnificente precedessore vedeva un po' più di luce, una maggior orchestrazione generale (cello e trombe in rilievo a più riprese, oltre ad un buon numero di tracce a trazione completa e tanto pianoforte) ed un attitudine più trasognata e meno opprimente. Ciò che restava intatto era il songwriting, da miracolo in Seer Believer, Storm-Broken Tree, The White Birds, June, We Are Not The Ones ed ordinariamente di statura nel resto, all'insegna di un cantautorato spleen di matrice decadente ma di eleganza scandinava sopraffina. Applauso.

giovedì 9 gennaio 2020

Arthur Russell ‎– Another Thought (1994)

Il primo album postumo di AR, antologizzato dal produttore Don Christensen; chiunque si sia trovato a mettere le mani sulle registrazioni lasciate ai posteri merita perlomeno una citazione, chè comunque sia andata dev'esser stato un lavoraccio. 
Il suono, per essere incisioni con ogni probabilità casalinghe, è generalmente buono ed il materiale ancora di più. Per la prima metà Russell insiste sul modello del suo capolavoro, ovvero inquiete e trasognate canzoni per voce e cello, quest'ultimo come sempre eccezionale, al netto di un riverbero qui invece assente. Nella seconda metà entra in scena la drum machine, qualche ospitata sparsa (fra cui il grande Zummo al trombone) e AR dà la stura alla sua vena dance, trasformando il cello in uno strumento universale che sa essere tastiera, chitarra o semplice percussione. 
Sempre geniale anche se perso nella sua incertezza e nella sua fragilità.

martedì 7 gennaio 2020

Smog ‎– Dongs Of Sevotion (2000)

Nella schizofrenica produzione di Bill Callahan post-Red Apple Falls, abbiamo assistito ad un autore profondamente narcisistico, liberatosi delle pastoie della propria timidezza iniziale, de-zavorratosi dal carico di umiltà che aveva contraddistinto i suoi primi capolavori, e trasformatosi in un autore classico possessore di una formula personale. Quando i risultati sono stati deludenti, abbiamo ottenuto dischi sfocati e svogliati, quand'è andata discretamente sono stati altalenanti, quand'è andata bene ci sono arrivate le Dongs of Sevotion. 
Sia inteso che le vette di Julius Caesar o Wild Love erano belle andate e lo stile era diventato troppo professionale per avvicinarcisi, ma qua BC tira fuori la stoffa e la classe, al netto di qualche tiritera delle sue che le riconosci subito e pensi ma perchè non si è concentrato sul suo meglio?
Che qui è una metà abbondante; The Hard Road, Easily Led, Nineteen, Cold Discovery, Devotion, Justice Aversion, che se non altro resuscitavano con orgoglio il suo spleen programmatico ed aitante. L'altra metà, giocosa, gioviale, ironica, accattivante, per me è da buttare. Facendo una media, questo BC ci stava bene lo stesso; bastava fare un best-of ed il capolavoro era bello servito.

domenica 5 gennaio 2020

Birdsongs Of The Mesozoic ‎– Faultline (1989)

Cinque anni dopo il titanico debutto Magnetic Flip, Roger Miller aveva abbandonato il mostro che aveva creato, ma gli altri sapevano bene dove e come andare; assoldarono due fiatisti e diedero la stura ad un altro tour de force di post-jazz-prog chiamato Faultline.
Perchè i due fiati mica ammorbidivano il complesso, mica stavano lì a punteggiare melliflui ed accomodanti. Certo, non erano neanche free-jazz; si inserivano nelle avventurose escursioni strumentali marcando marziali ma mai dissonanti.
Sono architetture solidissime e spericolate, che a dispetto della drum machine (che fa molto '80) denotano un aspetto umano e tecnico fondamentale; caratteristiche principali, il piano che conduce, i fendenti di chitarra (l'altro ex MOB, Swope), i motivi cinematici, l'eredità più genuina del RIO, le poche ma splendide pause di riflessione. Destinati a non essere replicabili.

venerdì 3 gennaio 2020

Silent Carnival ‎– Drowning at Low Tide (2016)

Il secondo album di Marco Giambrone, che stempera l'umiltà infinita del sensazionale debutto in favore di una solennità diffusa ed un'ampiezza di arrangiamenti che al primo ascolto fa storcere un po' il naso. Il nostro sembra esser stato fulminato dall'influenza pesante di Michael Gira, ed il gradimento di Mr. Swans peserebbe parecchio in un giudizio superficiale di Drowning At Low Tide.
Ma dopo un secondo ed un terzo ascolto mi ricredo e, scoprendone gli episodi più ispirati (Holy Flames, A Place e Last Dream Of A Tree), mi rendo conto che il siciliano dopotutto è un capitale rurale prezioso per il nostro paese, un artista in grado di ricevere risonanza internazionale e pazienza se Silent Carnival era più bello; era molto difficile fare un seguito a quell'altezza.

mercoledì 1 gennaio 2020

Swell Maps ‎– International Rescue (1999)


Ghiottissima antologia per chi, a vent'anni dalla fine, ne voleva ancora degli SM ma non voleva diventare matto nell'approvvigionarsi i singoli del triennio 77-79. In quel groviglio male organizzato che è stata la discografia post-split, International Rescue viene spesso indicato il prodotto più consigliato anche se in realtà esplora principalmente il loro lato più punk e tradizionale, se mi si passa il termine, dato che il 90% dei pezzi è a firma di Nikki Sudden; delle follie arty del fratello Epic Soundtracks, non ce n'è, ma dopo tutto è una riflessione che si può trascurare tranquillamente, lasciandosi andare all'adrenalina contagiosa di queste 20 tracce epidermiche, appena poco più che amatoriali ma irresistibili.