lunedì 29 novembre 2021

Zelienople ‎– Give It Up (2009)


Abbandona (o abbandono, o altre declinazioni), questo l'invito derivante dal titolo dell'ottavo albun degli Zelienople, a quel punto ridotti a trio rispetto agli inizi. Io invece lo tradurrei in abbandonati, oppure mi abbandono all'ascolto, inerme e sognante. Il problema del gruppo di Matt Christensen è che la loro discografia potrebbe essere zeppa di dischi che dicono nulla e tutto al tempo stesso, ma semplicemente bellissimi come Give It Up, e mi occorrerà un sacco di tempo per indagare (per tacere dello stesso MC, di cui conosciamo molto bene un paio di eccellenti solisti, ma anche qui in termini di prolificità non si scherza).

Un inebriante punto d'incontro fra la psichedelia polverosa, l'ambient rock di derivazione nobilissima, certo shoegaze (a volte mi vengono in mente gli Slowdive di Pygmalion). Non ci sono ombre emotive in questo trasognato girovagare per canovacci ripetuti all'infinito, con la compassata e sempre brillante chitarra di MC e le sue nenie vocali fragili  ed incerte a costituire la spina dorsale di ogni pezzo, coadiuvato dalle percussioni quasi impercettibili di Mike Weis e dai corredi d'ambiente di Brian Harding. Difficile scegliere quale traccia si elevi sulle altre, perchè la dimensione onirica del lotto prevale su qualsiasi metro di giudizio e l'eventuale desiderio di skippare è inibito.

Musica che dice tutto e nulla, musica fantasma, che non invita ma che crea campi magnetici. Un inno alla libertà di ascolto. Tutto ciò che voglio è calma.

sabato 27 novembre 2021

Screams From The List #102 - Der Plan ‎– Geri Reig (1980)


L'elettronica deviata, low-cost e spesso demenziale dell'album di debutto del trio tedesco, in verità un nome che non ha fatto la storia come altri coevi (i DAF in primis, sicuramente di altra levatura) ma che conserva un fascino di datazione soggettivo. L'influenza dei padri putativi Kraftwerk veniva stemperata con un attitudine spesso residentsiana, con qualche sprazzo Throbbing Gristle, un approccio iconoclastico che dell'attitudine teutonica conserva il rigido rigore da Dna ma anche un'autoironia irresistibile che dopotutto, è anche il suo forte.

giovedì 25 novembre 2021

Ange – Le Cimetière Des Arlequins (1973)


Li definirei il corrispondente del Banco di oltralpe, con tutte le dovute specifiche: ottimi musicisti ma concentrati più sulle ambientazioni che sullo sfoggio di tecnica, dotati di fantasia e teatralità, dotati di partiture non troppo complesse, crepuscolari, a tratti tremebondi ma poi capaci di momenti di alto romanticismo. Il parallelo non si ferma qui: a guidare il gruppo due fratelli tastieristi. A voler essere pignoli, vero che non c'era nessun omone al microfono, bensì cantava uno dei sopracitati, e lo faceva in modo egregio.  Con questo secondo album, si imposero come alfieri nazionali del Prog ortodosso. La peculiarità tecnica che spicca è un organo effettato travestito da mellotron che rende il suono più pieno e rotondo.

E pensare che il disco si apre con una straniante e marziale cover di Jacques Brel; a non saperlo prima, si direbbe un loro originale. Il pezzo forte del lotto è Bivouac, divisa in due parti, con una progressione quasi hard da brividi, ma brillano molto anche De Temps en Temps e Aujourd'Hui....Il pozzo transalpino è ancora colmo di tesoretti da scoprire, mi sa.

martedì 23 novembre 2021

Lingua Ignota ‎– Let The Evil Of His Own Lips Cover Him (2017)


Dietro il moniker italico, la performer di origine californiana Kristin Hayter, esordiente non più giovanissima con questo autoprodotto ma diventata tempo zero una delle sensazioni più forti degli ultimi anni. Le similitudini ed i richiami inevitabili a grossi nomi del passato (Nico, Diamanda Galas), aggiungerei per i tempi attuali anche Zola Jesus, lasciano tutti il tempo che trovano di fronte ad un approccio a dir poco shocking. Il suo canto, dalla tecnica impeccabile grazie agli studi intrapresi in tenera età e a varie doti naturali, ha giocoforza un ruolo centrale nei 5 pezzi dell'album, ma è il concetto generale (la violenza maschile, che ha dichiaratamente ammesso di aver subito e raccontato nelle liriche) a farla da padrone, permeando l'atmosfera generale in un pauroso, struggente blocco fuso di portata emotiva che ha ben pochi eguali.

Con delle doti così impressionanti di presenza ed una performance stellare, musicalmente alla Hayter è bastato ben poco, sia in termini di composizione che di arrangiamento. Lo strumento portante è un organo minimale, dal suono squisitamente chiesastico. Gli orpelli si possono contare sulle dita di una mano: spoken word (funzionali al racconto del concept), qualche concretismo, sparuti disturbi harsh-noise, qualche tonfo percussivo. Lo snodo centrale sta nei 15 minuti di That he may not rise again, un autentico cunicolo di orrore, in cui la Hayter si lascia andare ad una prova teatrale sovrumana.

Un intero disco di questo tenore sarebbe stato eccessivo, e qui sta la prova di saggezza. Intorno a quel monolite spaventevole, la Hayter indugia sulla sua vena eterea, si potrebbe definire sognante se non sapessimo che razza di bestialità l'ha ispirata, si potrebbe dire liturgica vista l'atmosfera. Si entra con Disease of men, lunga nenia minimalistica con spoken word di sottofondo, e la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di unico è già materializzata. La voce virtuosa non è uno strumento nè di vanità nè di lamento, è strumento a sè. Segue Suffer Forever, dallo stesso tenore ma che rilancia in termini di composizione; il tema inizia in maggiore, poi si ferma e muta in un minore rabbrividente. La meraviglia prosegue con The chosen one, che lascia spazio ad un pianoforte che più nudo non potrebbe essere (non siamo distanti dall'ultima Grouper), un mantra da pelle d'oca che al proprio termine può lasciare spazio solo al silenzio.

La chiusura (cover di un pezzo reggae degli anni '80(!), seppur servita alla sua maniera), è il punto debole di un album che quasi rinfranca, perchè stempera l'abbandono totale in un gotico marziale alla Swans. E che non inficia il valore complessivo di un capolavoro che lascia tramortiti.

domenica 21 novembre 2021

Various ‎– Deep Six (1986)

Il leggendario sampler primo atto della C/Z Records, nonchè ritenuto primo vero atto deliberato, dichiarazione d'intento del Grunge. Soltanto due acts su 6 prenderanno il volo verso la celebrità; dei giovanissimi Soundgarden ancora piuttosto succubi delle radici hardcore (quindi subito prima della breve deriva wave delle prime pubblicazioni), con un Cornell quasi irriconoscibile, e degli altrettanto acerbi Melvins, già debordanti ma ancora un po' indecisi se spingere sul pedale dei bpm o trovare la quadra l'anno successivo col primo album.

Chi avrebbe meritato il successo, dopotutto, erano i Green River di Mark Arm e dei due futuri Pearl Jam, una band che in prospettiva avrebbe potuto fare sfracelli, ma la loro storia era già verso il capolinea. Chiudono il sampler 3 nomi minori; i Malfunkshun, pretenziosi nel loro glam-horror-sabbathiano, gli Skin Yard di Jack Endino, autori di un art-noise un po' velleitario ma tutto sommato dignitoso, e gli U-Men con un noise-voodoobilly divertente ma passabile.

I due pezzi dei Green River valgono il prezzo del biglietto, ed i 4 dei Melvins sono interessantissimi in prospettiva. Deep Six fu tutt'altro che un sampler professionale (la produzione latita parecchio), ma l'entusiasmo che lo circondava si percepisce tutt'ora col coltello. Dopotutto, erano bei tempi che presagivano una rivoluzione copernicana, e nel bene e nel male questi ragazzi ne furono protagonisti.

venerdì 19 novembre 2021

Al Cisneros ‎– Apple Pipe 7" (2020)


Dopo diversi anni di assenza, il ritorno di AC alle sue fulminee scorribande dub strumentali che mi piacerebbe ascoltare prima o poi sul formato lungo. Il suo è un rispettoso tributo a questa nobile tradizione giamaicana, ed in questo 7" i titoli anzichè indugiare sulle tematiche cristiane vertono sull'aspetto pratico meditativo (il gioco di parole Apple Pipe lascia i pochi dubbi al retro, No Tobacco...). Sul contenuto, poco da dire: 2 x 04 minuti plastici di sezione ritmica con un arabesco di fiati intercalato, immancabilmente mistico e visionario. Si può ascoltare anche 10 volte di fila, l'effetto è terapeutico.

mercoledì 17 novembre 2021

Madder Rose ‎– Bring It Down (1993)


La contagiosa effervescenza dei Madder Rose nel loro album di debutto, all'epoca pompatissimo da Planet Rock molto più della media delle testate giornalistiche che lo accolsero con un po' di freddezza. A quasi 30 anni mantiene ottimamente la prova del tempo e riascoltandolo con attenzione non si può fare a meno di rilevare l'abilità a 360° del chitarrista Billy Cotè, un tipo efficace che la sapeva lunga, anche oltre l'indie-pop che mise in piedi col quartetto, lasciando le luci della ribalta alla vocalist Mary Lorson. Sotto una scorza melodica impenetrabile, i MR potevano contare anche su un anima dolcemente melanconica, vagamente imparentata con i Mazzy Star, ma più sbarazzina e gioviale. Un hit come Swim avrebbe potuto sbancare mezzo mondo, se Cotè non avesse inserito quel trapano costante in sottofondo. 

lunedì 15 novembre 2021

Idles ‎– Ultra Mono (2020)


Gli Idles ce l'hanno fatta, ad ottenere popolarità, e sono volati in cima alle classifiche di popolarità in Gran Bretagna, complice probabilmente l'effetto Brexit per l'elevato tasso di politica nelle loro declamazioni (e dal loro look si intuisce facilmente da quale parte stanno, direi). Ultra Mono, terzo disco in quattro anni, non differisce per nulla dai precedenti e questo poteva teoricamente rappresentare un limite, quindi il discorso si sposta sul fattore de gustibus, perchè oggettivamente sarebbe difficile mettere in discussione la loro carica adrenalinica. Potrei dire che la presenza (marginale, in verità) di David Yow fa curiosamente venire in mente certe pagine dei Jesus Lizard, con le dovute differenze tecniche, ma sarebbe una forzatura. La deriva quasi gotica di A hymn verso la fine è una tregua significativa ma non sposta l'asse di un granchè. Sempre punk'n'roll sguaiato, dirompente e fracassone, ma fatto dannatamente bene. Per il declino c'è ancora tempo.

sabato 13 novembre 2021

Black Flag ‎– Slip It In (1984)


Terzo album dei BF, all'insegna della transizione verso aree all'epoca impensabili. Ci aveva già pensato My War,, l'anno precedente, a chiarire gli intenti di Ginn & Co. Su Our Band Could be your life, nel capitolo a loro dedicato, mi è rimasto impresso il passaggio in cui Rollins rievocava quel periodo in cui facevano letteralmente la fame, ma erano talmente orgogliosi del loro output e del loro suono che i morsi potevano essere sopportati. L'ingresso della bassista Kira la novità sostanziale, il tiro pazzesco generale una garanzia, su tutte Slip it in, Black Coffee, The Bars. Le deviazioni sempre interessanti, come il free-jazz-punk di My Ghetto, lo strumentale sincopato Obliteration, la strascicata Rat's eyes e la lunga mescolanza hardcore-blacksabbath di You're not evil. Ginn sempre più incontenibile soprattutto negli assoli, Rollins sempre più animalesco, Kira un treno incollato al vortice batteristico di Stevenson. Con queste performances e 200 concerti l'anno, aveva ragione Rollins a mangiarsi una barretta di nascosto dagli altri per trovare un po' d'energia.

giovedì 11 novembre 2021

Peter Hammill ‎– In Translation (2021)


Si è voluto togliere anche questo sfizio a 73 anni, ed inevitabilmente è tornato ad essere chiacchierato qui da noi. 10 Covers delle più disparate provenienze, accomunate dal risalire come minimo a 40 anni fa, e la presenza ingombrante di De Andrè, Tenco e Ciampi (tradotti), che in qualche modo giustifica la felpa (anche se un po' inquietante, a dire la verità) e le interviste sulle testate nazionali, mancanti da un bel po' di tempo.

In translation è un prodotto del lockdown in tutto e per tutto: incapace di concepire nuove composizioni a 3 anni di distanza da quel gioiello che fu From The Trees, PH si è dedicato alla brillante reinterpretazione di artisti che possono più o meno aver avuto un importanza nella sua formazione musicale, anche solo a livello concettuale. A partire dall'inizio, con lo stupendo traditional americano anni '30 The Folks who live on the hill, si assiste ad un festival che include, oltre ai 3 italiani, classica, tango e musical. Sulla carta non molto entusiasmante per i miei gusti standard, ma la cruciale maestria di PH si conferma immutabile nell'impossessarsi delle materie e di farle proprie, esattamente come ha dichiarato nelle sue intenzioni.

Il disco è arrangiato in maniera ricca, seppur senza alcuna forma di percussioni, ed esalta l'eterno pathos del Nostro in un percorso melodrammatico. L'ha detto bene: le radici britanniche non potrebbero essere più distanti da Il Vino o Ciao Amore, ma il fascino della sfida sta proprio nel cercare di scovare i lati in comune, ed aggiungere l'ennesimo capitolo esistenziale-filosofico di questo grande vecchio.

martedì 9 novembre 2021

Motörhead ‎– Overkill (1979)


Secondo album, conferma di quanto espresso nel formidabile debutto. Forse una carica meno esplosiva, ma in compenso qualche trovata di maggior poliedricità (Capricorn ed i suoi riff angolari, Metropolis con il mid-tempo e la progressione quasi epica, il micidiale assolo di Lemmy in Stay Clean). Su tutto svetta però Overkill, con quell'attacco omicida a doppia cassa, le fermate e le ripartenze, quasi un manifesto espressivo ed efferato: quando il pezzo sembra essere terminato, per ben due volte Taylor riprende quella specie di martello pneumatico e chiarisce gli intenti: sempre uguali a sè stessi, sempre irresistibili. Eccellenti persino le due b-side presenti nella ristampa, soprattutto Like a nightmare, e divertentissima la rendition di Louie Louie, con quell'ai-ai-ai-ai-ai di Lemmy che svela un lato quasi comico. Molteplici i pezzi che finiranno sulla scaletta della loro pietra miliare.

domenica 7 novembre 2021

Clinic ‎– Walking With Thee (2001)


Forse il più raffinato e ricercato album dei Dottori, ma non per questo meno irresistibile di altri pregevoli capitoli della loro carriera. La prescrizione la solita, una garanzia: un vintage-pop beffardo ma venato di trovate più arty, come le frequenti incursioni di armonica in lungo ed in largo (che fanno un po' Gang Of Four), le scansioni di vibrafono nell'introduttivo, splendido Harmony, la suadente atmosfera notturna di Mr. Moonlight, il beat elettronico dell'ipnotico Come into our room, e la chiusura pastorale di For The Wars, un walzer in punta di dita che rievoca persino Arthur Lee. Poche ma gratificanti le puntate grintose, come la title-track ed il garage-punk di Pet Eunuch, una scossa adrenalinica posta strategicamente a metà scaletta. Non c'è quasi nulla che non funzioni in Walking With Thee, un gioiellino da bersi come una bevanda fresca in piena estate.

venerdì 5 novembre 2021

Caretaker ‎– Persistent Repetition Of Phrases (2008)

 
Nel percorso che portò Leyland Kirby ad elaborare il suo capolavoro assoluto come Caretaker, Persistent Repetition Of Phrases è ben più di un passaggio di transizione, anche se sulla carta lo sembrerebbe: ad esempio ci sono i primi riferimenti concreti alle malattie da demenza senile (la traccia di chiusura si chiama Unmasking Alzheimer's), piuttosto che alla pura amnesia, come ad intraprendere una progressione metaforica. La ballroom music si era già affacciata nel suo universo con A Stairway to the stars e We'll all go riding on a rainbow, ma erano rimasti episodi marginali. Successivamente era piombato in abissi di dark ambient con i monolitici Deleted Scenes / Forgotten Dreams e Theoretically Pure Anterograde Amnesia. 

Persistent indugia equamente in entrambe le direzioni, variando le atmosfere in maniera sapiente lungo le 9 tracce, mixando le dinamiche in modo da evitare sospensioni troppo eteree: si passa dagli abissi alle languide trombe in un men che non si dica, dalle voci sepolcrali alle orchestrine fantasmatiche in una soluzione ben divisa ma omogenea. E' uno dei lavori più haunt-core di Kirby, probabilmente eclissato dal riscontro impressionante di An empty bliss, ma di sicuro ancora molto degno di essere vissuto in più consumazioni consecutive, per essere meglio avvolti nella paranormalità e nel polveroso microcosmo del Custode.

mercoledì 3 novembre 2021

Kingdom Come ‎– Galactic Zoo Dossier (1971)


Dismesso il suo Folle Mondo, Arthur Brown riassemblò un gruppo con la nuova sigla Kingdom Come, assoldando 4 musicisti relativamente sconosciuti, sia prima che dopo, ma con la quale attraversò un triennio di fuoco culminato con lo sperimentale Journey, incompreso per moltissimo tempo. Galactic Zoo Dossier fu un esordio pirotecnico, molto prog nella sua essenza ma molto esteso in termini psichedelici. La voce potente e teatrale di AB trovò complemento perfetto in un sottofondo potente e coeso, schizofrenico e straboccante di svolte e scarti improvvisi, che non poteva non aver assimilato qualcosa dagli Atomic Rooster del suo ex-sodale Vincent Crane, ma con una buona dose di follia in carniere. Degnissime di nota Galactic Zoo, Gypsy Escape, la quasi beefheartiana Metal Monster.

lunedì 1 novembre 2021

Fine Before You Came ‎– Forme Complesse (2021)


Sembra davvero strano, ma non avevo mai ascoltato i FBYC. Eppure sono in giro da 20 anni, ed oltretutto sono sempre stati molto inneggiati da Francesco Farabegoli, un giornalista che leggo sempre molto volentieri per il suo stile peculiare (non che tutto quello che segue lui possa piacere a me, beninteso, anzi, però ne ha sempre parlato con toni molto concettuali, quasi mistici). Ma dall'altro canto, il cosiddetto emo-core non mi ha mai attirato e nonostante l'inevitabile (con l'età) evoluzione stilistica di un gruppo davvero molto unito per questi tempi, per ascoltarli mi ci è voluto un 8/10 di Onda Rock ed un tag àulico, obsolèto, stantìo: slow-core.     Slow-Core??

Il disco inizia con degli accordi strascicati in saliscendi, doppiati ben presto da una voce stentorea e dolente, ed un'altra chitarra che infioretta (forse due), abbellisce con semplicità. Una batteria sventaglia piano il ride, poi dà qualche colpo al rullante. I bpm sono al massimo sindacale del taggaggio slow-core, ci può stare. Il morale cambia in positivo e c'è una specie di chorus in maggiore, che fa l'effetto di un camino scoppiettante al rientro dal gelo (ma a me piaceva più stare fuori nella neve, se devo dire la verità). Questi 5 minuti e mezzo sono Gittana, la traccia iniziale di Forme Complesse. Inutile sottolinearlo, un capolavoro di melanconia impressionistica. Mi inquieto ed inizio a pensare che forse mi sono perso qualcosa di importante, qualcosa di anomala milanesità.

La mezz'oretta seguente non replica il miracolo, ma quantomeno serve ad inquadrare un entità che forse sì, mi sono perso ed avrebbe meritato un piccolo approfondimento. Slow-core è un tag molto forzato e non lo condivido, al netto di Gittana: quello dei FBYC è un post-post-emo-post-rock in cui il lavoro delle chitarre ha grande importanza, la ritmica è ricercata ma non ossessiva, distaccato il giusto per non sembrare troppo viscerale (nè troppo derivativo), con il cantato in italiano e tutte le problematiche che si porta dietro (lodevole, lodevolissimo, originale e tutto, ma alla lunga un po' limitante e monocorde, chissà cosa ne pensa Federico Fiumani....). Adesso vado a scandagliarmi il loro catalogo e chissà che non riesca a scovare altre 2-3 gittane. Sarebbe un successone.