domenica 27 febbraio 2022

These New Puritans – The Cut (2016-2019)


Un atto di autoindulgenza deliberato, quello dei fratelli Barnett: a ruota dell'acclamato Inside The Rose, un'eterogenea raccolta di inediti e remix che non propende in nessuna particolare direzione, bensì costituisce una dichiarazione di stato di grazia. La suddetta disomogeneità, peraltro, passa anche in secondo piano di fronte ai gioielli sparsi nella track-listing; il post-gotico sinfonico, l'elettronica algida, il trip-hop d'antan, lo stuolo imponente di voci femminili, l'austero pianistico. La prima metà della raccolta è superba; Infinity Vibraphone Orchestral Mirror, If I Were You, Angels come down, il remix di Beyond Black Suns, stabiliscono un'altra vetta di espressione da parte di un'unità unica nel panorama odierno. La seconda metà sposta più il focus sul ritmato, con Where the trees are on fire declinata e trasfigurata in varie salse, qualche sonorizzazione eterea e narcisismi malcelati. Se tutte le raccolte di outtakes fossero di questo livello, il mondo sarebbe un posto migliore.

venerdì 25 febbraio 2022

Screams From The List #105 - Christian Vander ‎– Tristan Et Yseult (1974)


Colonna sonora di un film (piuttosto oscuro) del connazionale Lagrange, T&Y uscì a nome di Vander probabilmente per motivi contrattuali, perchè i Magma al tempo erano vincolati alla Vertigo, e forse per lo stesso motivo in copertina la line-up recava nomi kobaiani inediti a celare le identità. Che poi erano il nucleo pulsante, vibrante ed essenziale dell'entità: Vander / Top / Blasquiz / Stella V.

Di fatto, quindi, un vero e proprio album dei Magma semi-nascosto, ma che sicuramente i cultori conoscono molto bene. Non era il mio caso, però, e ci è voluta la List per entrare in collisione con un altro gioiello degli anni d'oro. Con la formazione al minimo essenziale e senza alcun orpello, il talento sconfinato emerge ancora di più: Vander, unico compositore, si esprime splendidamente anche al piano acustico. Blasquiz e Stella si piazzano sotto i riflettori a vocalizzare a modo loro, enfatici e teatrali. Il bassone di Top invece resta un po' sotto nel mixaggio, come a limitarne l'apporto (è leggenda diffusa che fra i due fosse una guerra continua, ed infatti nel live dell'anno successivo fu sostituito da Paganotti).

Come fosse la pellicola, è un mistero, così come non è spiegabile che questa fantomatica soundtrack potesse essere di puro servizio. TEY è un serpente che si contorce senza soste, un ottovolante inscindibile lungo le sue 12 tracce. E' con ogni probabilità il disco più raffinato dei Magma, non voglio dire meditato perchè il sacro fuoco kobaiano appare sempre vulcanico, pur senza mai eruttare. Di sicuro svetta di fianco ai loro capolavori riconosciuti, sia precedenti che successivi.


mercoledì 23 febbraio 2022

Dead Kennedys – Bedtime For Democracy (1986)


DK ultimo atto, registrato a scioglimento già ampiamente deciso ma non per questo arrendevole nè meno incisivo dei precedenti. L'anno precedente c'era stato Frankenchrist, un disco fortemente sottovalutato perchè registrava una progressione verso un suono più articolato e composizioni più strutturate, con East Bay Ray sugli scudi. Sarebbe potuto essere un viatico importantissimo verso un evoluzione verso chissà cosa, ma gli incidenti e l'ostracismo dell'america reganiana ebbero il sopravvento sulla loro fiera resistenza. Bedtime for Democracy chiuse così all'insegna di un ritorno alle atmosfere incendiarie ed ai pezzi brevi dei primi due album, senza alcuna concessione (superbe le due eccezioni da 6 minuti, Cesspools in eden e Chickenshit conformist) e con uno stato di forma che fu un delitto interrompere. Da macchina da guerra avevano iniziato e tali e quali terminarono.

lunedì 21 febbraio 2022

Uboa ‎– Sometimes Light (2010)


Polistrumentista australiana, Xandra Metcalfe, al debutto autoprodotto, come resterà poi gran parte della produzione futura. Trattasi di materiale per stomaci forti, più forti di coloro amanti di altre performer sparse in giro per il mondo e per certi versi assimilabili per (non trovo parole migliori) concettualità della sofferenza (le prime due che mi vengono in mente, Lingua Ignota e Pharmakon). Musicalmente siamo in un area sludge-doom resa ancor più cruenta dallo screaming belluino, con delle interessantissime parti di batteria ed un paio di intro quiete e molto distanti dai temi principali, a detta di PS reminescenti le languide atmosfere dei tardi PF. Bello, l'accostamento, ed anche il mix vista la lunghezza dei 4 pezzi in scaletta. Un ascolto urticante, che necessita di una certa predisposizione e anche di un poco di pazienza. Oltre che, ribadisco, stomaco ben foderato, perchè non è certamente something light.

sabato 19 febbraio 2022

Chrisma – Hibernation (1979)

 

Secondo album di sostanziale transizione, dopo il bruciante esordio di Chinese Restaurant che li aveva premiati prime-movers della new-wave non soltanto italica. La svolta synth-pop ed il cambio di lettera iniziale nella ragione sociale erano dietro l'angolo, e Hibernation confermò in parte lo shock del suo predecessore. Qualche stucchevolezza (o eccesso gratuito di decadenza mitteleuropea, forse poco nelle corde effettive di Arcieri) e/o ambiguità sfocate emergono nella Side A, mentre la Side B correggeva il tiro con le ritmate So You Don't e Lover, uniche eredi delle pagine più infuocate del debutto. In generale, una ripulitura del suono sostanzialmente indolore; erano ancora gli alfieri (se vogliamo glissare sulla pronuncia inglese di Arcieri...).

 

giovedì 17 febbraio 2022

Spartiti – Spartiti (2014)


Le prime prove tecniche del duo Collini-Reverberi, qui immortalati dal vivo (anche se non si direbbe proprio) in quel di Pesaro, nel febbraio 2014. Un paio d'anni prima di uscire allo scoperto con l'ottimo Austerità, i reggiani testarono le reazioni di un pubblico ancora addolorato per la scomparsa di Fontanelli e la conseguente fine degli Offlaga. Per non copiare un copione rodato e di successo, Reverberi srotola scenari decisamente più scarni, dissonanti ed inquietanti, sempre a base di elettronica vintage ma con pochissime velleità musicali, come a testimoniare un ripiegamento morale ed esistenziale. Le inedite storie di Collini (presenti in scaletta due testi terzi, comunque ascrivibili ad una cruda cronaca esistenziale dal forte parallelo) facevano la loro parte, infallibili: delle 4, la torrenziale Vera finirà su Austerità e Borghesia su Servizio D'ordine del 2017, che temo essere rimasto la loro ultima fatica. A completare il quadro, i due highlights irresistibili, la storia adolescenziale di Soggiorno Obbligato e la superba Il Treno della verità.

martedì 15 febbraio 2022

Banco Del Mutuo Soccorso – Darwin! (1972)

 

Completa la fulminea trilogia d'esordio, per il cinquantennale. Incastonato fra l'iconico salvadanaio e l'insuperabile Io sono nato libero, Darwin! si materializzò come concept sull'evoluzione umana primitiva, sgranando il compatto progressive in un miscuglio in cui confluivano svariate influenze (il jazz in Danza dei grandi rettili, il folklore in Ed ora io domando tempo al tempo...., la romanza piano/voce in 750.000 anni fa). La posizione dominante (e più confortevole) venne rilocata nelle sincopi di Cento mani e cento occhi, Miserere alla storia e La conquista della posizione eretta, nonchè alla suite L'evoluzione, il quarto d'ora consegnato alla gloria che superava a destra il predecessore giardino del mago. E di nuovo, fino alla noia, a forza di menzionare Di Giacomo e i Nocenzi, sollecito il plauso all'implacabile sezione ritmica ed al chitarrista Todaro, che di lì a poco verrà avvicendato.

domenica 13 febbraio 2022

Weyes Blood – The Outside Room (2010)


Il debutto della cantautrice Natalie Mering, originaria della California, assurta a discreta visibilità grazie ad un album su Sub Pop nel 2019. Le premesse di The outside Room però erano ben altre, prima di una progressiva normalizzazione, e non a caso il trampolino della situazione fu la Not Not Fun, per i cui standard comunque era decisamente canonica. Base di partenza un folk psichedelico austero, con impostazione vocale mutuata direttamente da Nico, ben udibile nel pezzo di apertura Storms that breed. Il seguito va a braccio su tenui allucinazioni, ballad stordite alla Natural Snow Buildings, reminescenze sparse di una Azalia Snail molto seriosa, echi di una Joanna Newsom umile in quanto meno dotata. L'aspetto vocale è quello più curato e dotato di attenzione, ma più per impostazione che per talento cristallino, a suggellare il sacrale riferimento Nico-esque. Nel complesso, un disco molto etereo e diversificato, gradevole se si apprezza l'area grigia che occupa.

venerdì 11 febbraio 2022

Acetone ‎– If You Only Knew (1995)


Tendendo ad ignorare la slavata raccolta di cover country I guess I would, si tratta del secondo album degli Acetone, che di fatto gettò la maschera: se su Cindy la spina portante era ancora abbastanza sanguigna con qualche languidezza sparsa, su If you only knew accade esattamente il contrario. Al santino di Neil Young si aggiunse quello dei Velvet Underground più letargici, e la svenevolezza dei primissimi Low diventò una curiosa assonanza. Fu un passo abbastanza significativo, anche per il fatto che la scaletta fu assemblata in modo drastico: man mano che le tracce scorrono, il ritmo si fa sempre più lento ed i pezzi sempre più anemici, fino alla timida impennata del finale. Peculiare senza alcun dubbio, ma io eviterei di tirare in ballo lo slow-core. L'antologia retrospettiva pubblicata nel 2017 da Light In The Attic ha generato qualche articolo in rete di retrospettiva, che altrimenti avrebbe lasciato gli Acetone in un oblio irrecuperabile, e che fa luce sulle loro condotte di vita, forse specchio più o meno involontario del loro output.

mercoledì 9 febbraio 2022

Imaad Wasif – Dzi (2017)


Dopo un lunghissimo silenzio solista (8 anni dal precedente, bellissimo The Voidist), IW è tornato con il suo quarto album. Nel frattempo, collaborazioni miste, un'altro gregariato live con i Yeah Yeah Yeahs, e cos'altro non si sa. Quello che era stato uno dei miei cantautori preferiti degli anni Zero sembrava essere sparito, invece ha fatto 2 album in due anni (il successivo Great eastern sun, di psych-folk quiesto e svanito) e anche se l'ispirazione non è quella degli esordi, sono stato contento di ritrovarlo con un disco 100% elettrico, grintoso e viscerale, di cantautorato quasi stoner (!), rivestito da una grossa filigrana psichedelica e dalla immancabile vena malinconica. Il fragore di Turn Away e I'm changing rasenta il grunge, mentre a più riprese si materializza il miglior spirito melodista dei vecchi Dead Meadow. Insomma, sempre tradizionalismo ma con personalità ed un trademark che resterà sempre per pochi, appassionati e fedeli come me.

lunedì 7 febbraio 2022

Genesis ‎– The Lamb Lies Down On Broadway (1974)


Ho sempre avuto dei problemi con questo mastodonte; troppo lungo, troppo complicato, dal suono troppo compresso se paragonato a Selling England, simbolo del passaggio dalla fase gloriosa alla decadenza (e non necessariamente per l'addio di Gabriel), addirittura trovavo fastidioso il suono dei timpani e dei tom di Collins. Ne apprezzavo gli estratti dal vivo, ma preso nella sua interezza non sono mai riuscito ad amarlo come gli altri.

Ma come accade nella musica, l'ascolto superficiale non è mai portatore di giudizi ponderati. E' chiaro che The Lamb venne architettato sulle esigenze del racconto tematico, e certi passaggi strumentali furono necessari per questioni scenografiche. E proprio in un anno di spartiacque importante per il progressive, i Genesis trovarono la forza, in mezzo a tante correnti contrarie, di rimettersi in discussione con uno sforzo gigantesco. E basterebbero Carpet Crawlers, Hairless Heart, In The Cage, The Light Dies Down, Back In NYC per certificare che erano in ottima forma per essere già dinosauri.

sabato 5 febbraio 2022

Gem Club – In Roses (2014)


Struggente, commovente ed emotivamente pregnante il secondo album di Gem Club da Boston, all'insegna del sacro motto less is more. Sostanziale creatura del cantante/songwriter Christopher Barnes, forte di un falsetto tremolante che più realistico non si può (vedasi le prove dal vivo per capire che non c'è trucco nè inganno), di uno stile pianistico ultra-essenziale quanto elegante e soprattutto di una capacità di scrittura disarmante, coadiuvato con discrezione da una cellista, da una corista/sintesista e solo in alcuni pezzi da una sezione ritmica felpatissima.

Si tratta di un cantautorato da camera gentile ed accorato, che non è dolente nè triste bensì espressione di un anima introspettiva ed incredibilmente sensibile. Sono diversi i nomi che possono venire in mente sulle prime, ma dopo diversi ascolti appare evidente che Barnes è un artista di razza, capace di ricavarsi una preziosa nicchia fra gli amanti di queste pacate sonorità. In Roses è uno di quei dischi così omogenei e fedeli ad una linea che colpisce subito al cuore, e speriamo vivamente che il Club riapra le proprie eteree porte, perchè di tempo ormai ne è passato parecchio.

giovedì 3 febbraio 2022

Lou Reed ‎– Ecstasy (1999)


Forse non ho esplorato adeguatamente la carriera di Lurìd, soprattutto negli anni '80 e '90. Dopo i grandi fasti dei primi anni '70, culminati col capolavoro Berlin, qualche caduta di tono ci sarà stata, ne sono sicuro, ma d'altra parte l'uomo ha sempre impersonato uno stile prima che un suono e per essere discusso ce ne vorrebbero, di argomentazioni. Ecstasy prima di tutto è un disco lungo, lunghissimo quasi 80 minuti di cui soltanto 18 occupati dalla strana Like A Possum, una jam monolitica quasi senza batteria che con buona fantasia PS ha descritto Lou Reed goes slow-core. Per il resto, è una carrellata con tutti (e dico tutti) i classici luoghi comuni dell'uomo, sia quelli gloriosi che quelli scontati, un disco che è quasi una carta d'identità artistica, con una produzione a dir poco impeccabile. Menzione speciale per i musicisti annessi, il bassista Saunders ed il batterista Smith, due titani che trovano spicco e risalto in partiture così semplici.

martedì 1 febbraio 2022

Fontaines D.C. ‎– A Hero's Death (2020)

 

Impone una riflessione: se espressioni di questo tipo diventano dischi dell'anno anche per chi ha una certa reputazione, allora o lo stato generale è pessimo oppure la reputazione inizia a scricchiolare. Nulla di specifico contro questo onestissimo quintetto di Dublino, che ad un'occhiata superficiale apparrebbe genuino quanto gli Idles, tanto per citare altri soggetti passivi di hype negli ultimi anni. A hero's death dopotutto è anche più che un buon disco, che ricicla e rimastica luoghi comuni degli ultimi 40 anni, dal post-punk al college-rock all'alternative americano 80/90, con una cifra personale dominata dal cantante, non particolarmente potente nè versatile ma bravo a calarsi con timbro e passione, dal lavoro di precisione dei due chitarristi e dalle trovate singole nel costruire piccoli anthem. La prima metà del disco è notevolissima: lo spleen iniziale di I don't belong e Love is the main thing, le serrate ossessive di Televised Mind e A lucid dream, la ballad agrodolce You Said e la bucolica Oh Such A Spring (che incredibilmente mi ricorda il Lou Reed di Berlin, so che sembra fuori luogo ma è così) mettono in mostra un alto talento generale. Da lì in poi, però, i 5 pezzi restanti denotano un calo di qualità verticale e così, drasticamente, tramonta il mio sogno di trovarmi d'accordo con la testata di reputazione.