venerdì 31 luglio 2020

Beach House ‎– B-Sides And Rarities (2017)

Diceva un fan, alla notizia di questa miscellanea dei BH, che senso ha una loro raccolta di b-sides? Le loro A-sides sono come delle B-sides!.
Ci ho messo un po' a capirla, ma credo che sia un gran complimento. L'arco temporale va dal 2005, un anno prima del debutto, al 2016. Non nascondo che, inconsciamente, speravo di trovare qualche perla di quello che ritengo il loro periodo d'oro, da Devotion a Teen Dream, oppure qualche letargica e fascinosa nenia del primissimo periodo. Non ho scovato niente di clamoroso, ma la raccolta l'ho ascoltata a ripetizione, forse proprio perchè per la sua omogeneità e in un certo senso per la riscoperta delle loro produzioni meno sofisticate, pertanto ancora più umane e arrendevoli.

mercoledì 29 luglio 2020

Felt ‎– Forever Breathes The Lonely Word (1986)

Terminata la prima fase dei Felt, con i due bellissimi album del 1984, Hayward dovette trovarsi di fronte ad una defezione importante, quella del bravissimo chitarrista Deebank. Dopo un disco un po' transitorio nel 1985 ed un mini strumentale nell'estate 1986, a fine anno tornò alla forma migliore con FBTLW, senza fare rivoluzioni copernicane nè tradire il proprio integralismo. Diventato unico compositore, delegò la chitarra ad un nuovo acquisto e diede maggior peso all'organo di Duffy, ormai tratto onnipresente, infiorettante e colorito. Rimarchevole anche la prestazione del bassista Thomas.
Ma la sostanza restava il suo forte; il songwriting, baldanzoso e vivace, rigorosamente fuori moda, che induce alla positività ma sa dare i colpi migliori quando gli accordi si fanno anche minori al posto giusto, nel momento giusto (Down But Not Yet Out, All The People I Like Are Those That Are Dead, Gather Up Your Wings And Fly). 
Un altro colpo di artigianato per il buon Lawrence, nonostante la dipartita di colui che sembrava essere il principale responsabile delle musiche. Sbruffone era e sbruffone restava.

lunedì 27 luglio 2020

Khanate ‎– Khanate (2001)

C'è una fantastica intervista retrospettiva, realizzata un decennio dopo lo split, che esordisce con SOMA riflettendo così: We never had a big audience. E finisce con un orgogliosissimo Dubin che, in merito all'influenza che i Khanate hanno esercitato su una legione di bands, sentenzia così su tali presunti replicanti: ...I don't hear the magic. I eat those people with some Fava beans and a nice Chianti".
Su di loro ho detto tutto quello che potevo esprimere: Things Viral (2003), Capture & Release (2005), il Live del 2005, il postumo del 2009. Nessuno di questi fu meno di un capolavoro. Non mi ero soffermato invece sul primo omonimo, che sì avevo ascoltato ma mi aveva impressionato meno. Ripescandolo dopo tanto tempo, resta indubbiamente un prodotto doom in grado di devastare la concorrenza, ma meno innovativo dei seguenti; i 4 necessitavano di un rodaggio per trovare il bandolo della matassa e deflagrare artisticamente.
Come si evince dall'intervista sopracitata, inoltre, il metodo di lavoro fu inusuale e non ripetuto in seguito, consistendo essenzialmente in un cut-and-paste ad opera di Plotkin, che assemblò l'opera in studio da registrazioni sparse. Da questo derivò l'inizio di una lunga di serie di attriti fra l'ingegnere/bassista e SOMA, sostanziale causa dello split nel 2006, e causa del fatto che il gruppo dovette imparare i pezzi per poterli eseguire live. Ma questa è un'altra storia, ed al suo netto resta il fatto che Khanate è un primo pugno nello stomaco, con un SOMA prorompente, un suono più metallico ed una fisicità maggiore, insomma un disco più terreno e crudo. Un degno antefatto.
I don’t hear the magic. I eat those people with

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I don’t hear the magic. I eat those people with

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I don’t hear the magic. I eat those people with

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I don’t hear the magic. I eat those people with some fava beans and a nice Chianti.”

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I don’t hear the magic. I eat those people with some fava beans and a nice Chianti.”

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sabato 25 luglio 2020

Screams From The List #97 - Plastic People Of The Universe - Egon Bondy's Happy Hearts Club Banned (1978)

Pubblicato in Francia solo nel 1978, ma con registrazioni risalenti al 1974, Egon Bondy's rappresenta il primo album di questa band praghese che fece dell'opposizione al regime vigente il suo massimo credo, ed a causa di questo ebbe tanti problemi nel poter esercitare la propria attività.
Musicalmente, è materiale che tutto sommato si mantiene dignitoso nonostante porti tutti gli anni che ha sulle spalle, ma credo che le parole di Vlad, seppur entusiastiche, possano rendere un'idea a fuoco del sound, alle quali non aggiungo altro.
....esso spazia con forza bislacca fra raucedini beefheartiane, arieggiamenti del primo Zappa, sfiati di sassofono, inserzioni acide di violino: un fondo underground e notturno (ascrivibile anche al loro esilio artistico) dona un fascino costante a tutta l’operazione...

giovedì 23 luglio 2020

Tom Recchion ‎– Freak Show (1982)

Il primissimo album del mitico TR fu una cassetta (!) edita da una label giapponese, la Pinakotheca, ad esperienza LAFMS ancora fresca. Destino alquanto carbonaro per un personaggio che avrebbe meritato ben altra esposizione, ma che forse per scelta sarebbe rimasto nell'ombra più totale fino al ripescaggio a metà anni '90. Freak show viene minimizzato dalla registrazione piuttosto lo-fi, ma già evidenziava la genialità del nostro. Si apre con The real strungaphone, che verrà ripescata sull'antologia The lowest form of music, ma non è la traccia più rilevante. Sono le 4 tracce a seguire a mettere in mostra una forma spastica e surreale di new-wave che resterà irripetuta nel canzoniere Recchioniano, soprattutto Gun shine e Love was pain, ad avere un po' di fantasia una mutazione narcotica e dadaista dei Wire. Pezzi a quanto pare registrati in completa solitudine, nel caso fosse vero un'altra grande sorpresa, vista la non banale tessitura delle chitarre (e geniale il canto, totalmente sconclusionato, ai limiti del demenziale).
Il Lato B contiene il concetto Pieces, diviso in 5 parti, e vede TR in una situazione puramente avanguardistica, dedito ai suoi strumenti autocostruiti, con zero melodie, clangori semi-metallici, situazioni comunque non esenti dal DNA giocoso che marchierà a fuoco le sue prove migliori. Ripeto per l'ennesima volta; un autentico mago del suono.

martedì 21 luglio 2020

Shellac ‎– The End Of Radio (14 July 1994 Peel Session / 1 December 2004 Peel Session)

Pubblicato l'anno scorso forse per spezzare l'attesa per il seguito di Dude Incredible, è l'unione delle 2 Peel Sessions per la BBC. La prima, brevissima, risale al 1994 e la conoscevamo già per mezzo di semi-bootleg che trova ufficializzazione discografica.
Ben più interessante e corposa (quasi 40 minuti) quella di fine 2004, avvenuta pochi mesi dopo la morte di John Peel. Diversi anteprima di Excellent Italian Playground, anche se il mio parere su quel (debole) album resta invariato. Nove minuti di The End Of Radio sono un po' pesanti. Per fortuna che riscatta tutto la sempre eccezionale Steady as she goes e nel finale i tre decidono di voltarsi al passato remoto con 3 K.O. tecnici. Billiard Player Song beneficia di una dilatazione (oltre 9 minuti rispetto ai 4 dell'originale) sconosciuta per i loro canoni, quasi allucinatoria. 
Infine, Dog And Pony show e Il Pornostar. Micidiali, serve altro?

domenica 19 luglio 2020

Egisto Macchi ‎– Nucleo Centrale Investigativo (1974)

Soundtrack per una serie TV, ovviamente poliziesca, del 1974 per l'Egisto nazionale, ai tempi molto dedito ad operazioni diciamo meno nobili, che si andavano ad intersecare con prodotti più ambiziosi ed avanguardistici. Ma sappiamo bene ormai che quella mente illuminatissima sapeva trasformare anche la più banale della commissione in qualcosa di magico.
NCI parla soprattutto la lingua della suspance opprimente, del thrilling tangibile di cui spettatore diventa preda, delle micropunte di archi e percussioni, seppur votato molto poco alle dissonanze e quindi meno coraggioso delle sue opere che ci hanno sbalordito. E' una raccolta in cui il basso elettrico ha una sua importanza in alcune tracce, con la comparsa addirittura di una sparuta e desolata chitarra, pertanto è un Macchi diverso dal solito, che lascia il segno come sempre. 
Ristampato nel 2015 dalla Cinedelic, che ha avuto la simpatica idea di allegare al vinile una paletta poliziesca sagomata.

venerdì 17 luglio 2020

John Carpenter, Cody Carpenter, Daniel Davies ‎– Halloween (Original Motion Picture Soundtrack) (2018)

L'occasione è il (quasi) quarantennale dell'originario Halloween, uno dei cult più celebrati di JC. E per i suoi 70 anni, dimostra la grandezza personale dell'uomo: non soltanto non ha voluto interferire con il remake, ma si è prestato con umiltà a rielaborarne di conseguenza la soundtrack, che ovviamente fu farina del suo sacco, accreditandola ai suoi due fidi collaboratori, il figlio Cody ed il chitarrista Davies. 
Il primo approccio non mi aveva entusiasmato: all'inizio il classicissimo tintinnio di pianoforte che identifica in tutto e per tutto la pellicola viene declinato in salsa techno, con pompa cassa. Una volta digerito questo aspetto, però, ne esce un viaggio avvincente, che sta in piedi senza l'ausilio della visione, lascia spazio alla fantasia e gode di un suono straordinario, come peraltro i dischi di JC solisti degli ultimi 3/4 anni. Fra dolenti sonate di piano, imponenti figure sintetiche, deflagrazioni di bassi tonanti, riprese e ripresine, insomma, è sempre il solito Carpenter, che può piacere o non piacere. Che non sorprende, se non per la cura e la passione che trasudano dalle sue musiche.

mercoledì 15 luglio 2020

Cabaret Du Ciel ‎– Skies In The Mirror (1992)

Interessante ripescaggio da parte di una piccola etichetta francese che nel 2018 ha riversato su vinile un tape risalente al 1992 ad opera di Cabaret Du Ciel, ovvero un duo di reduci punk/wave veneti (tali Desiderà e Morosin) riadattatisi ad una forma di sonorizzazione ambientale/soundtrack di accompagnamento a proiezioni video-art. Skies in the mirror uscì nel 1992 solo su formato cassetta, e dovette aspettare 26 anni per essere ristampato, ma tutto sommato meritava di essere ripreso dal nulla per beneficiare di un ascolto a posteriori.
Al di là delle oggettive, ridotte qualità audio di quella che di fatto era una autoproduzione al tempo, il prodotto è estremamente datato nei suoni, vertendo su una specie di minimalismo-ambient-gaze a base di bassi e nebulose di synth/midi fattura, ravvivate tuttavia da una chitarra che a tratti si mette a suonare cristallina e fa la sua figura. Devo ammetterlo: al primo pezzo avevo già pensato ecco, un altra spazzatura Midi di inizio anni '90, ma pezzi come Staircase to nowhere, Raintears e Falasarna Exposure hanno un fascino spazio/notturno tutto particolare, fanno perdonare altrettante cadute di tono/stile e fanno passare il concetto di "sana e sincera naivetè" (da chiamare in causa con rigore e non me ne voglia nessuno) dalla parte della ragione.

lunedì 13 luglio 2020

Harold Budd ‎– Avalon Sutra (2004)

Sembrava un cerchio in perfetta chiusura: HB dichiarò l'auto-pensionamento, alla soglia dei 70, e si apprestò a registrare per l'ultima volta per la label di David Sylvian, che nelle sue pagine ambient era stato un superbo discepolo del verbo buddiano, che ne diede l'annuncio con fierezza.
Non è andata così, perchè giù l'anno successivo tornava a pubblicare, seppur a più mani, e l'avrebbe continuato a fare con assiduità, ma le sue dichiarazioni fecero capire un ripensamento genuino e sincero. Proprio come la sua musica.
Comunque sia andata, Avalon Sutra resta uno dei suoi capolavori e costituì una mirabile sintesi delle migliori doti suggestive del californiano. I rimandi all'opus Pavillion Dreams sono frequenti, ma le composizioni sono snocciolate in maggior parte in forma breve, distillando un ispirazione superba in acquarelli commoventi. Strumentalmente, il contributo al suo elegiaco pianoforte si divide fra un pastorale quartetto d'archi ed i fiati nobili di Jon Gibson (in 4 pezzi, anche co-accreditato alla composizione), a costruire un quadro perfetto, da cui farsi avvolgere senza alcuna speranza, nonostante un lieve calo nelle tracce centrali del disco, più concentrate a costruire ipnosi e dilatare le atmosfere. Ma miniature supreme come Three Faces West, It's steeper near the roses, Porcelain Ginger, le 3 Arabesque, Faraon sono pura levitazione mentale.
Non era ancora la fine, avrebbe avuto ancora qualcosa da pennellare, il Maestro. Magari non a questi livelli, ma lo ha dimostrato.

sabato 11 luglio 2020

God Machine - Peel Session 1992-04-21

L'unica session della Macchina Divina per la buonanima di John Peel, tenutasi il 21 Aprile 1992. Il benemerito DJ li convoca con un tempismo non perfetto, a meno che non amasse particolarmente Purity, in quel momento unico prodotto sul mercato del trio, uscito nel Novembre 1991. Comunque sono tempi frenetici, soprattutto in UK, e non stiamo certo discutendo sui meriti del glorioso conduttore. Un mese dopo debutteranno su Fiction con l'EP Desert Song e prenderanno il razzo per la stratosfera; sono passati quasi 30 anni, ma la mia considerazione per questa immensa band non è stata minimamente scalfita dal tempo.
Proprio da quell'EP in rampa di lancio Robin, Ron e Jimmy prelevarono 3 pezzi su 4 per questa esclusiva session: tramite i bootlegs abbiamo capito quanto fossero travolgenti sul palco, ebbene, anche nello studio BBC non si fecero trattenere e rilasciarono tutta la loro energia; Commitment, ad esempio, ne esce addirittura più fragorosa ed alienata. La Desert Song in versione non prodotta non sfigura ridimensionata, facendo della propria ossessività la risorsa principale. La crepuscolare Pictures of a bleeding boy chiudeva la session con toni intimisti ed universali, e nonostante manchi delle sovrapposizioni vocali di studio ha la stessa magia ipnotica. 
Completava il quadro la cover dei Bauhaus Double Dare, che troverà casa ufficiale un'anno dopo nell'EP Home, piuttosto calligrafica anche in questa rendition, ma sempre impressiva ed efficace.
Una mezz'ora di Macchina Divina, grezza, istintiva, luminosa. 

giovedì 9 luglio 2020

These New Puritans ‎– Inside The Rose (2019)

Ben 6 anni di distacco fra l'ottimo Field Of Reeds e l'ultimo dei fratelli Barnett, ormai rimasti in solitudine familiare nell'art-output del puritanesimo, questa volta in decisa virata verso un post-gotico dal forte impatto ritmico (soprattutto la prima metà dell'album), prodotto con una cura maniacale in tutti i dettagli, e che non può non ricordare costantemente acts come Piano Magic, l'O'Sullivan in guisa Mothlite, o addirittura gli ultimi Ulver in certi tratti. Nella seconda metà emerge invece il lato più sinfonico/pastorale, con un songwriting incantevole in A-R-P e Where The Trees Are On Fire (ma anche l'intro Infinity Vibraphones è una vetta).
Praticamente infinita la lista dei collaboratori, fra cui un cameo di David Tibet, la cui ombra effettivamente si può intravedere in qualche passaggio. Il vero protagonista però è il glorioso Graham Sutton, che registra, mixa e fa qualche coro; è proprio ai suoi, grandissimi Bark Psychosis, che gli highlights di Inside The Rose pagano un commosso e sincero tributo.

martedì 7 luglio 2020

Lard Free ‎– Lard Free (1977)

Terzo ed ultimo per lo Sgrassato di Gilbert Artman, che nel giro di 4 anni passò dal free-jazz-core del primo all'elettronica pura del secondo fino a terminare nel 1977, con una line-up collaborativa sempre mutata da un episodio all'altro. Per questo capitolo conclusivo del progetto, il polistrumentista normanno non si avvalse più di strumentisti classicamente jazz-rock, ma di figure adatte ad un altro coacervo di elettronica spinta, che sul lato A include la lunga Spirale Malax, un trip oscuro degno dei Tangerine Dream di qualche anno prima. E' tuttavia il lato B che riserva maggiore interesse, con la Synthetic Seasons, divisa in 3 parti, con droni di organo solcati da una batteria tonante in estemo riverbero, suoni quasi industriali, sulla prima. La batteria torna vicina e ben udibile nella parte due, che sgrana un ritmo dispari saltellante, con il chitarrista Baulleret che sale in cattedra con un lamento ultra-elettrico atonale ed angoscioso. Da manuale. Terminato il groove, fra le macerie resta solitario un clarinetto desolato che preannuncia la parte 3, con un lungo groove metallico da incubo che va in fade out fra glitches spaziali, per una suite complessiva lacerante e intimorente. Che sia stato questo album a far entrare lo Sgrassato nella List, anzichè il primo? Oppure tutti e tre?

domenica 5 luglio 2020

Peter Jefferies ‎– Last Ticket Home (2019)

Avevo letto da qualche parte che nel 2013, dopo oltre 10 anni, il grandissimo PJ era tornato ad esibirsi dal vivo, ovviamente dalle sue parti (Nuova Zelanda). Per cui la speranza che tornasse a comporre e registrare non era tramontata del tutto, e forse Last Ticket Home potrebbe essere la preview di qualcosa. Si tratta di un'antologia di rarità ed inediti che copre l'arco temporale 1991-2019, perchè in effetti al termine della tracking list troviamo due pezzi del 2015 per un 7" mai rilasciato, nonchè due unreleased del 2019 stesso. Il tutto testimonia un ritorno di PJ alla forma canzone più canonica, ma sembra sul filo del rasoio fra melodismo raffinato e tensione opprimente (All across the sky, che inizia come un crooning cabarettistico e tramuta in un incubo claustrofobico). Il piatto forte a mio avviso sta nei due pezzi prelevati da un live del 2002, l'ultima stagione prima del ritiro, con esecuzioni efferate di due classici come Electricity e World in a blanket, quest'ultima in una rendition da far accapponare la pelle e far scomparire l'originale.
La prima metà dell'antologia preleva rarità varie da compilation, altri 7" come la rimarchevole collaborazione col chitarrista Chris Smith (Ghost Writer e Westgate Exit, superbi entrambi). Superfluo ribadire la statura di questo cantautore unico, anche in una raccolta estremamente eterogenea come questa, che ha saputo prendere elementi classici e trasformarli in una formula variegata, travolgente e raffinata, vellutata e grezza, immediata e sperimentale.

venerdì 3 luglio 2020

Alexander Spence ‎– AndOarAgain (2018)

La giusta pietra tombale su un capolavoro che cresce col tempo, uscendone letteralmente. La storia infatti ne ha amplificato la statura, e a 20 anni dalla morte di Skippy l'idea di saccheggiare i demos di Oar sembrava assurda e potrà anche sfiorare il feticismo, ma incredibilmente, l'ascolto dei 3 cd scorre placidamente, riservando svariate, piacevoli sorprese.
Del talento puramente strumentale di Skip si sapeva; le sue doti di batterista, ad esempio, emergono nei demos in maniera disarmante, dimostrando che si esprimeva al meglio forse quando riteneva che quello che stava suonando non sarebbe finito sul master. E non da meno le performance alle chitarre, di filigrana finissima e con ceselli notevoli fra le pieghe inedite. Scopriamo così che la traccia più provata e riprovata è Diana, di cui troviamo persino una versione con la 12 corde, mentre di Books of Moses non troviamo neanche una alternate take. Ma nel mezzo possiamo trovare un oceano oariano, certamente indirizzato ai fans terminali di uno dei dischi più umani che sia mai stato pubblicato, realizzato in completa solitudine dopo 6 mesi passati in una clinica psichiatrica, senza neanche poter imbracciare una chitarra. Era tutto nella sua testa.

mercoledì 1 luglio 2020

Richard Skelton ‎– Border Ballads (2019)

Dopo un triennio di sostanziale calma, fra il 14 ed il 17, RS è tornato ad essere iper-prolifico ed è abbastanza dura stargli dietro. Concentrandosi fra le uscite fisiche, Border Ballads appare come uno dei più significativi ed un caloroso ritorno alle gloriose origini a livello di emotività, dopo che il suo suono si era incupito e caricato di nuvoloni. Gli impasti di viola e violoncello pertanto tornano ad essere protagonisti in questo concept (12 brani, media 4/5 minuti) che verte sui confini rurali fra Scozia ed Inghilterra, con particolare attenzione ai corsi d'acqua.
Ma non sono solo i preziosi archi ad essere sugli scudi, in quanto Skelton si concentra sensibilmente (una metà circa del lotto) anche sul pianoforte, con sgocciolii di note contemplativi, a mo' di cornice espessionista. Il risultato è immancabilmente incantevole, commovente, anche se non posso non notare somiglianze con Stray Ghost, in un versante meno accademico e più emotivo. Riccardo Cuor Di Leone è così, fa dischi che posso ascoltare anche 10 volte di fila e non stancarmi mai, saluto il suo ritorno alla forma migliore e pazienza se non riesco ad ascoltare tutto quello che fa. Le emozioni più profonde vanno centellinate, sempre.