giovedì 30 aprile 2020

Replacements ‎– Pleased To Meet Me (1987)

Idealmente, l'ultimo della trilogia power-pop dei Mats, dopo Let It Be e Tim. Nell'effettivo, il primo album senza Bob Stinson, uscito l'anno prima, e questo non poteva non avere effetti, per quanto il dominio compositivo di Westerberg fosse immutato rispetto a prima.
Quindi, Pleased To Meat Me potrebbe essere definito un po' contrastante nella loro carriera. E dire che la professionalità era in aumento, così come la produzione si faceva sempre più levigata e gli spigoli più smussati (esempio lampante, fiati ed archi sulla ruffiana quanto irresistibile Can't Hardly Wait). Ma quello che restava il loro forte erano i pezzi: Alex Chilton, Valentine (power-pop all'ennesima potenza), The Ledge (autentico pre-Nirvana), Red Red Wine, I.O.U., Shooting Dirty Pool (reminescenze di punk stradaiolo dei primi anni). Al netto di un paio di episodi dimenticabili, PLMM quindi è degno prosecutore di due capolavori irraggiungibili, sia per congiunture temporali interne che per situazioni di circostanza. Da lì in poi sarà il declino.

martedì 28 aprile 2020

PJ Harvey ‎– All About Eve (Original Music) (2019)

Non è possibile non amarla ancora, la Divina. E' vero: non sono impazzito nè per Let England Shake nè per The Hope Six Demolition Project. Li ho trovati dischi dignitosi ed all'altezza del suo status maturo, ma ho sentito che è mancata quella scintilla magica che solo lei può (poteva?) innescare, forse una piccola impennata di coraggio, di personalità. Colpa forse dei concept politici alle spalle che l'hanno distratta dall'aspetto meramente musicale?
E allora, un bagno di umiltà, un passo indietro alla regia. Una colonna sonora; ecco come i giganti possono rinascere, ritrovare la forma un po' smarrita, riacquistare la propria classe. Come successo a Thom Yorke, ai Mogwai e ad altri. All about eve è fatta di quella stoffa povera e spoglia che fece grande il suo disco più spleen, White Chalk. Con la differenza che Polly qui se ne sta muta e rinuncia a sfoggiare la sua ugola persino nelle uniche due tracce cantate, lasciate peraltro a due attrici (brave, per carità, ma.......insomma, ci siamo capiti). Come in quel capolavoro, l'enfasi è totalmente sul piano e sui synth analogici, con la preziosa collaborazione del polistrumentista James Johnston, principalmente alle rifiniture di violino ed organo. Non mancano alcuni riempitivi di servizio (altrimenti che soundtrack sarebbe), ma per larghissima parte All About Eve è una sinfonia di bellezza straziante ed onirica, ricca di quella disarmante semplicità che ha reso Polly una delle più grandi di sempre.

domenica 26 aprile 2020

Screams From The List #94 - Banten ‎– Banten (1972)

Eccellente jazz olandese per una formazione con unico album all'attivo, su etichetta BASF (e quanti ricordi che istilla questa sigla in maiuscolo...).
La formazione, un trio base batteria-contrabbasso-piano + una cantante attiva in una parte ed un cellista sporadico. Il pianista Van Der Broeck è il faro di tutto il disco, con uno stile sia melodico che eterodosso. I Banten avevano radici nelle zone classiche del genere ma sapevano anche fermarsi e produrre atmosfere rarefatte (Incosekwenza memorabile in questo versante) ed eterodosse, con la vocalist più impegnata a starnazzare col kazoo che a cantare. 
Un disco strano, che mi immagino registrato in 2 giorni o giù di lì, che in certi momenti ha addirittura anticipato determinate movenze degli Henry Cow.

venerdì 24 aprile 2020

Gustoforte ‎– Gustoforte (1985)

Il mitologico esordio dei romani, destinato a restare unico fino al grande ritorno col dirompente Quinto quarto nel 2014. Erano un nome completamente sconosciuto fino al 2012, quando vennero diffuse registrazioni live del 1985-1986 sotto il titolo di Souvenir Of Italy.
Nonostante la stampa in vinile ufficiale (ed il coraggioso packaging in lamiera!), non ebbero alcuna risonanza, e non certo per la difficoltà della proposta. In quell'epoca in Italia era ben presente una florida scena underground di musiche weirdo, ma evidentemente un episodio rimasto isolato fu troppo poco per farsi notare. E fu un peccato, perchè Gustoforte parla un linguaggio alieno, frammentario ma programmatico per il nome che il gruppo si diede. Un mix avventuroso di industrial, avanguardia, elettronica analogica e psichedelia, condotto in larga parte da minimalismi pulsanti di basso, da nastri manipolati e da synth, da voci deliranti e da qualche scarno beat di drum-machine. Qualche piccola influenza krauta non impedisce all'album di risultare ferocemente avanti, e sarebbe stato davvero interessante se avesse avuto un seguito all'epoca. Ma erano tempi duri per le proposte coraggiose, e la storia andò com'è andata.

mercoledì 22 aprile 2020

Helios ‎– Remembrance (2016)

In occasione del decennale di Eingya, Keith Kenniff ha voluto tracciare una linea non soltanto artistica ma anche commemorativa. Pochi dubbi sul fatto che si sia trattato del suo massimo capolavoro, ed evidentemente i riconoscimenti esterni gliel'hanno confermato. Così ha voluto diffondere, in via autonoma, 7 out-takes risalenti a quel periodo, e la cover lo conferma; nell'apribile di Eingya si vedeva una coppia disegnata di spalle, in Remembrance appare il tratto da esso tagliato; le due mani che si tengono.
Vainglory apre ed è subito un sussulto: non c'è alcun dubbio, la matrice è quella e ci eravamo persi un altro gioiello di downtempo cantautoriale strumentale. Il resto della mezz'ora non replica quei livelli, bensì si mantiene su toni più dimessi, squisitamente cinematici, drumless, contemplativi.
Chiamarli scarti sarebbe un insulto, anche se in effetti di tali si è trattato. Remembrance assume comunque un suo senso, nella discografia di Helios, non soltanto per l'importanza storica del suo contesto.

lunedì 20 aprile 2020

Armando Sciascia - Mosaico Psichedelico (Recordings 1970-74)

Venti minuti di Sciascia compilato in un CD antologico di una ventina d'anni fa dalla Giallo Records, ben prima della riscoperta generale library. Gli altri protagonisti della raccolta sono nomi più oscuri, o comunque meno ricordati.
Due i titoli da cui derivano gli estratti: Impressions In Rhythm & Sound del 1970 e Violin Reactions del 1974. Nell'arco di quel lustro Sciascia trovò il migliore smalto per le sue sonorizzazioni, per poi progressivamente abbandonare la musica suonata e dedicarsi al lato più imprenditoriale.
Il primo segmento è furiosamente creativo: Aciclico apre con un tema sinistro dal tempo dispari, con rintocchi pianistici lancinanti, ed il violino elettrico di Sciascia a svisare delirante. Un autentico sisma è Circuito Chiuso, ossessivo loop ritmico con basso ultra-marcato e spinetta acida. Il mare della tranquillità è un bacino lisergico che riflette allucinazioni sonore. Eccentrico e Dielettrico sono brevi temi sardonici ed effervescenti, contrassegnati da un mood inquieto per quanto fisicamente pressante. 
Neanche 5 minuti per Violin Reactions, che programmaticamente vedono Sciascia in solitudine, in una specie di one-man-chamber-band dai toni spettrali (Reagente) e schizzati (Enantiomorfo). Musica, maestro.

sabato 18 aprile 2020

Sky Needle ‎– Debased Shapes (2013)

Terzo e a tutt'oggi ultimo album degli australiani, il che significa molto probabilmente che la loro attività si è spenta. Ma era da dire; dopo aver letto un paio di interviste, appariva chiaro che questi ragazzi non avevano molto a che fare col concetto di musica in progressione, di pseudo-carrierine e cose del genere. Era tutto partito da una specie di scherzo fra due di loro, che si erano costruiti degli stranissimi strumenti con materiale di recupero, e poi si era ampliato con l'allargamento a 4, di cui una la bravissima cantante.
Il bellissimo Rare Cave aveva rivelato, a quei 4 gatti che l'hanno sentito, un talento finissimo nel saper creare (tutto, 100%, rigorosamente, impro) scenette surreali e gag ruspanti, con un implicito spirito pop mutuato dal melodismo della vocalist.
Debased Shapes, uscito per una label francese, li vedeva con un organico ampliato a 6 unità, con un incremento importante in fatto di percussioni. Chissà se il risultato li soddisfò: sarà che l'effetto sorpresa era passato, sarà che la difficoltà forse stava proprio nel ripetere l'exploit del precedente, il disco entusiasma un filo di meno, ma resta comunque un altro gioiellino di post-residentsianesimo primitivo e grottesco. Ecco cosa sono stati gli Sky Needle; gli unici, credibili eredi dei 4 globi oculari, per attitudine ed input sonoro.

giovedì 16 aprile 2020

Half Japanese ‎– Sing No Evil (1985)

Dopo qualche anno nel music biz, i fratelli Fair dimostravano di saperci fare e che non erano lì per caso. Le iperboli naif-punk dell'urticante esordio erano belle superate, ed il 4° album li caratterizzava con un approccio molto più professionale, grazie anche alla pattuglia di musicisti (una decina) utilizzati.
Una sorta di caos ben organizzato, omogeneo, senza sbavature macroscopiche, con evidenti derive blues (!) e pop, con il dispiego costante dei fiati. Sembravano veramente un altro gruppo, anche se il tratto demenziale di fondo restava (bastava la sgraziata voce di Jad a garantire). Ovvero come suonare sciatti ma professionali al tempo stesso, essere naif ma consapevoli.
Non resta certo ricordato come il loro capolavoro (i primi due restano insuperati, ovvio), ma nella loro discografia è un anomalia di normalità. Questo basta.

martedì 14 aprile 2020

Deathbell ‎– With The Beyond (2018)


Effetto Windhand? Probabilmente sì, dato che il quintetto americano ha "coniato" una particolare, per quanto classica nei suoni, formula doom-metal alla quale i Deathbell hanno fornito un'efficace risposta europea con With The Beyond.
Si tratta di un quartetto franco-irlandese, il che già è una particolarità non da poco, dall'immagine un poco hipster, quindi da cui non ti aspetteresti del doom. La cantante Gaynor, come la Dorthia di riferimento, indugia su un vocalismo quasi senza escursione tonale, puntando all'effetto ipnotico costante; possiede comunque un ottimo timbro, dal fascino oscuro.
Il trio di supporto suona come si deve un moderno doom-metal, senza rischiare nulla. Da applausi Come To Trouble e Rise From Your Grave, non c'è una sbavatura apparente. La speranza è che col prossimo i Deathbell si decidano ad azzardare qualcosa di inedito, se ne saranno in grado, per evitare la stessa delusione che mi hanno provocato i Windhand, ovvero l'immobilismo crogiolante su una formula che per quanto eccitante, ha comunque i suoi limiti.

domenica 12 aprile 2020

Wire ‎– The Peel Sessions Album (1989)


La raccolta delle 3 Peel Session fra il 1978 ed il 1979, ovvero Storia Della Musica moderna.
1) Gennaio 1978: neanche 10 minuti, di cui soltanto 1 dedicato a Pink Flag. Sempre proiettati in avanti, gli Wire scoprono l'altarino di Chairs Missing con Practice Makes Perfet e I Am The Fly e svelavano l'altrimenti sconosciuta Culture Vultures, 2 minuti fulminanti di transizione
2) Settembre 1978: già digerito Chairs Missing, i quattro sono già focalizzati su ciò che diventerà lo sconvolgente 154, a cui dedicano l'intera session (13 minuti) con versioni (a modo loro) primitive di The Other Window, Mutual Friend, On returning e Indirect Enquiries, che in un certo senso danno un'ipotesi di come sarebbe stato il discone senza l'ingombrante produzione di Mike Thorne; certamente meno gelido e distaccato, ma forse meno lungimirante e sensazionale. La videro lunga, c'è poco da dire.
3) Un anno esatto dopo, con il gruppo allo sbando, solo una suite da 15 minuti: Crazy about love, di cui scrissi una decina d'anni fa. Nient'altro da aggiungere.
Appunto.

venerdì 10 aprile 2020

Factory Press ‎– The Smoky Ends Of A Burnt Out Day (1998)

Interessante reperto dalla Grande Mela di fine millennio. I Factory Press altro non erano i futuri Calla (Valle, Magruder e Donovan + Gannon, collaboratore saltuario ma ricorrente) con l'aggiunta di un cantante, tal Hampton. Quindi, soltanto un anno prima del folgorante debutto Calla, i ragazzi texani contattarono il mitico Kid Congo Powers e volarono a NY per farsi da lui produrre questo The Smoky Ends Of A Burnt Out Day.
Si tratta di un album sorprendentemente affascinante, che rivela solo in parte ciò che i Calla saranno in grado di fare. Se si riesce a passare sopra l'incapacità del cantante (punto debole clamoroso del complesso, davvero scarso), ci si trova alle prese con un art-maudit-rock la cui principale influenza appare essere Nick Cave (Gun shy, The teardrop affair), ma virato in un'aurea sonnolenta e svanita, intrisa di quello spleen e quella desertica malinconia che ritroveremo ben presto (Avoid the wires, Screen the interference, Static). La chitarra di Valle, sorniona ed incisiva, risalta ed infioretta gli scenari già con un carisma notevole. Con un vocalist degno della situazione (non necessariamente Valle stesso), ne sarebbe uscito un piccolo capolavoro.

mercoledì 8 aprile 2020

Alternative TV ‎– Strange Kicks (1981)

Era talmente punk, Mark Perry, ed anti-punk al tempo stesso, che nel giro di 3 anni fece una contorsione musicale (ed inevitabilmente anche mentale) inaudita. Esorditi nel 1978 col classic-punk di The Image Has Cracked, l'anno successivo sfornava un'oggetto misteriosissimo come Vibing up the senile man, e sprofondava nel gorgo con The Good Missionaries
Nel 1981 si riaccoppiò col chitarrista originale fondatore del gruppo, Alex Ferguson, ed insieme misero su un quintetto che diede alle stampe questo Strange Kicks. E sorpresa sorpresa, niente punk, niente avanguardia. Solo genuino e ruspante pop-wave, british fino al midollo (giuro, alcuni passaggi mi hanno ricordato gli XTC), con l'organo in prima fila, prodotto splendidamente, con suoni secchi e limpidi. Ancient Rebels, My Hand Is Still Wet, TV operator, Sleep in bed sono irresistibili, e soltanto la rarefatta Cold Rain stabilisce un lieve punto di contatto con l'immediato passato.
Un'autentica boccata di aria fresca, ancor di più perchè inaspettata.

lunedì 6 aprile 2020

Pinback ‎– Autumn Of The Seraphs (2007)

Il quarto album dei Pinback, che seguiva di 3 anni il celebrato Summer in abaddon, è stato un disco che non ha riscosso grosse reazioni critiche. Colpa della propria uniformità, dell'ingombrante precedente o del fatto che Smith & Crow non hanno dimostrato un grande eclettismo?
Un po' tutti e tre. Ma tant'è, è il destino di chi elabora una propria formula e la porta avanti con testardaggine, costi quel che costi. In quella fase della loro carriera, i due hanno spinto su un indie-pop asciutto ed esuberante (non nascondo che alcuni momenti mi hanno rievocato addirittura i migliori Police) che forse ha fatto storcere più nasi. Il risultato sono 11 brani di grande omogeneità produttiva, con i tratti distintivi dei due autori ben riconoscibili. Basta questo e bastano pezzi irresistibili come Torch, Subbing For Eden, Off By 50 per continuare a voler loro bene.

sabato 4 aprile 2020

Pentagram ‎– Relentless (1985)

Sembra incredibile, ma i Pentagram sono ancora vivi e nel 2019 hanno suonato dal vivo, dopo che il vecchio vocalist Bobby Liebling ha scontato una pena per percosse (!). D'altra parte la storia del gruppo virginiano è contorta e complicata ai limiti del ridicolo, dell'auto-parodia. Relentless fu il loro debutto sulla lunga distanza, programmaticamente secco, compatto e granitico; a quei tempi erano probabilmente gli eredi più autentici e credibili dei Black Sabbath meno elaborati.
A dispetto del successivo di due anni dopo, Relentless viaggia su bpm sostenuti e sfodera tracce riuscitissime (All your sins, Sign of the wolf, The Ghoul, Dying World). Poi è chiaro, Liebling non era un cantante particolarmente dotato, mentre era la chitarra di Griffin a piazzarsi sotto i riflettori. Era puro e semplice doom'n'roll, efficace quanto bastava.

giovedì 2 aprile 2020

Carousell ‎– A Dead Bridges Into Dust (2005)

Un tuffo nel primissimo Skelton, con questo EP di 25 minuti uscito poco tempo dopo il suo esordio assoluto, ma già rivelatore di un talento superbo e tormentato. Scemati quasi del tutto gli effetti elettronici di Heidika, Riccardo cuor di leone scopriva già i nervi più delicati del suo animo con 3 pezzi di assoluta bellezza. I due accordi di piano sospesi che aprono A stony ploy mettono brividi istantanei, introducendo una progressione circolare di contemplazione e meditazione profondissima, con archi e chitarre a montare ineffabili. Più circospetti i 10 minuti di Redolent, gonfi di tensione implicita, come la quiete prima della tempesta, per una piece di minimalismo a tutti gli effetti. Chiude Of Something Lost, più squisitamente agreste e con tanto di percussioni (rarità assoluta nel catalogo skeltoniano) ma abbastanza drammatica per non permettere all'attenzione di calare. Con Skelton questo pericolo l'abbiamo corso praticamente mai, soprattutto sotto questa sigla, sintetica ed efficace.