giovedì 30 settembre 2021

American Music Club ‎– Mercury (1993)


Il primo album di due su major degli AMC, all'indomani dei loro capolavori della maturità, sembrò fare da apripista ad una nuova, soddisfacente fase di meritato incasso di popolarità. I tempi peraltro erano piuttosto fertili, con i Rem in vetta al mondo a guidare il rinascimento del folklore adattato ai tempi moderni, il grunge già in netto declino, ed un quintetto ben assortito, con Mark Eitzel sempre ispirato. Mercury fu realizzato col massimo sforzo produttivo e riuscì persino ad entrare nella Top 50 britannica, ma com'è sempre successo, il grande pubblico non è mai stato ricettivo nei confronti di questo artista dall'animo tormentato e dalla grande voce, nonostante potenziali hit come le accattivanti Keep Me Around e Johnny Mathis' Feet. Formalmente impeccabile, non esente comunque da qualche pecca, si ricorda soprattutto per Gratitide Walks, If I had a hammer, I've been a mess, Will you find me, che troveranno spazio nelle scalette live future della reunion di una decina d'anni dopo, o nel repertorio solista di ME stesso.

martedì 28 settembre 2021

Kim Gordon ‎– No Home Record (2019)


Sembra incredibile, ma Kim Gordon ha quasi 70 anni. Riflessione alquanto banale, ma che assume una valenza particolare nell'approcciarsi al suo vero e proprio debutto solista (!), che ho voluto ascoltare soltanto per le entusiastiche voci collettive al riguardo. La spalla della situazione è il giovane produttore di grido Justin Reisen, con cui KG condivide i crediti compositivi quasi al 50%, e che probabilmente è artefice fondamentale nell'elaborare un disco psicotico e sporco, un po' alla Suicide, che non inventa nulla di nuovo ma è fatto particolarmente bene. Limitate le chitarre, molta l'elettronica (spesso e volentieri vintagistica), ciò che emerge con nettezza è lo spirito ossessivo di quest'eroina sempre conturbante, che non si piega necessariamente ad uno stile o ad una produzione modaiola, ma asseconda il suo DNA per risultare aggiornata ai tempi. Per una che si dava in pensione da tempo, un ottimo risultato.

domenica 26 settembre 2021

Screams From The List #100 - Glaxo Babies ‎– Nine Months To The Disco (1980)

Forse la risposta più autorevole ai fantasmagorici Pop Group di Y, questo quartetto di Bristol che purtroppo non andò oltre un mini e questo unico album. Pur non avendo in line-up uno strumento aggiunto come la voce di Mark Stewart, potevano schierare un membro in comune con loro, il determinante chitarrista Don Catsis, e fornivano la propria versione di avant-wave-funk allo stato brado. I ritmi sincopati col bassone elastico in primo piano, peraltro di eccellente fattura, servivano da rampa di lancio per digressioni surreali e fantasiose come This is your vendetta, Seven days, la title-track, Promised Land, Dinosaur disco meets the swampstom, infarcite di sax impazziti, nastri, elettronica primitiva, concretismi e quant'altro. Davvero un peccato che la loro corsa finì qui, perchè avrebbero potuto dare ancora tanto a mio avviso, ma come avvenne per il Pop Group, la fiammella della creatività evidentemente non poteva durare a lungo.

venerdì 24 settembre 2021

Legal Weapon ‎– Death Of Innocence (1982)


Straight-punk stradaiolo dal sud della California, con una front-woman che costituiva la diretta risposta americana a Siouxsie. Tale Kat Arthur, infatti, non si tratteneva minimamente dal mutuare le linee vocali sincopate e persino il timbro della famosa Susan. Tuttavia, non si trattava di meri replicanti, perchè il disco è un valido campionario di wave-punk secco (un po' alla X) e non eccessivo in nessuna direzione, con una prima parte dai ritmi diversificati ed una seconda a tutta birra. Di certo non storici, ma un ascolto piacevole.

mercoledì 22 settembre 2021

Bruce Anderson - Bresson + No Visible Scars (2012)


Due soli di Bruce Anderson da 20 minuti usciti nel 2012 in formato cd 3" su edizioni limitate sotto i 100 pezzi. I numeri giustificano i fatti: nemmeno tutti gli amanti degli MX-80, che già sono pochi, potrebbero diventarli delle sue elucubrazioni improvvisate, nonostante la statura del personaggio.
Tutt'al più l'antica serie Brutality. Ma con lo sconcertante acustico The inherent beauty of hopelessness è sembrato aprirsi ad una riflessività inedita, forse dovuto al sopraggiungere dell'età, forse soltanto per le possibilità tecniche dell'Archtop Guitar, chissà. Bresson ne è una naturale propaggine, ma in una veste persino più dimessa, meno astratta. Una cascata tintinnante di note alte e distillate lentamente, con un finale movimentato a sorpresa.
In No Visible Scars ritorna all'elettrica per creare una nebbia sulfurea multiforme. L'inizio è quasi rassicurante, su arpeggi maggiori e delicati scenari panoramici di delay, ma intorno al 6° minuto l'umore si fa grigio, slow-core a modo suo, fino a scivolare in un gorgo sempre più drammaturgico, fra feedback controllati e penn(ell)ate sgraziate. Uno spunto che, considerata la contemporaneità, sarebbe stato perfetto per i Grale di Eternity, un capolavoro che ascolto ormai periodicamente.

martedì 21 settembre 2021

Alexander Voulgaris a.k.a The Boy - Apples Soundtrack (2020)


Piccola incursione cinematografica per uno dei film che più mi hanno impressionato negli ultimi 2 anni. Presentato a Venezia 2020, Apples è stato il debutto di un giovane cineasta greco, Nikou, un drammatico distopico (fra i tag vedo anche sci-fi...). La surreale trama, ad occhio e croce ambientata nei primi anni '90, si scontra con scene di realismo quotidiano; sembrerà paradossale, ma riscontro qualche similitudine con alcuni elementi del Gran Maestro Tarr; i lunghi silenzi, l'ambientazione che è evidentemente in Grecia ma senza evidenti riferimenti se non le insegne degli esterni ed i nomi dei personaggi, le scene di ballo collettivo, l'inconsolabile ma dignitosa solitudine dei protagonisti. Il colpo di scena finale, che azzera l'implacabile freddezza di sentimenti precedente, apre però un'enorme squarcio di umanità nel soggetto: Nikou potrebbe essere un nome molto forte per il futuro.

Un altro forte del film è rappresentato dalla soundtrack, che mi ha colpito in diretta nonostante l'impatto marginale, in una pellicola in cui il silenzio e le emissioni ambientali sono fondamentali: autore ne è Alexander Voulgaris, artista greco a tutto tondo (regista, attore, compositore, sceneggiatore) che sforna come tema principale una dolente sonata pianistica di radice Satie, ma che mi ha fatto venire in mente anche le migliori emo-vignette di Leyland Kirby, soprattutto nelle brevi e polverose variazioni sgranate alla Caretaker (e riecco il tema della memoria smarrita, un altro parallelo che per quanto casuale è alquanto ad effetto).

Ho estratto personalmente gli audio di tutti gli intermezzi (a parte le musiche delle scene di ballo) e li ho sequenziati per puro piacere privato. Si tratta quindi di un bootleg, della durata di una ventina di minuti. Chi ama i neo-classici ambientali ad alto impatto cinematico (Stray Ghost, Library Tapes, il Keith Kenniff in veste Goldmund) potrà ricavarne piacere all'ascolto.

lunedì 20 settembre 2021

Hannah Marcus ‎– Faith Burns (1997)


Cantautrice di origini newyorkesi che intorno alla metà degli anni '90 si mosse a San Francisco, magnetizzata da Mark Eitzel ed arrivata ad avere i Red House Painters di spalla e Mark Kozelek alla produzione per il suo primo album. Al tempo di Faith Burns, suo terzo, era rientrata alla grande mela per ragioni familiari, ma senza per questo mollare la presa professionale, arrivando a collaborare con i Godspeed You! Black Emperor nel 2004, con quello che rimase il suo ultimo disco. Il potenziale per diventare una stella dell'art-post-folk c'era tutto, in sostanza, e Faith Burns lo denotava sia con i pregi che con i difetti. La prima metà dell'album è un gioiello dietro l'altro, simbolo di un'autrice carismatica combattuta fra spirito folk e declinazioni maudit, con la produzione ottimale (nello staff anche l'ex batterista degli American Music Club) ed uno sfoggio di arrangiamenti elegante e variopinto.

La seconda metà non eguaglia quel livello, e qui emergevano alcuni difetti, fra cui l'eccessivo eclettismo ed una malcelata urgenza di dimostrare le propria abilità (nonostante, obiettivamente, una voce non eccelsa). Ma mantenere il livello di Face in the moon, Trona e Watching the warriors per tutto il disco avrebbe significato trovare un capolavoro del genere dopo quasi un quarto di secolo. Un piccolo grazie a PS per avermela segnalata.

sabato 18 settembre 2021

Insides ‎– Soft Bonds (2021)


Salutiamo con piacere il ritorno degli Insides, a 20 anni di distanza dal precedente e soprattutto a quasi 30 dai primi gioielli che li imposero fra i massimi esponenti mondiali di electro-dream-pop, a dispetto di una promozione piuttosto limitata. Lo scenario non sembra essere cambiato più di tanto, la voce della Yates intatta come allora e Tardo sempre molto eclettico a destreggiarsi fra chitarre, tastiere ed elettronica. L'augurio è che Soft Bonds sia un preparativo ad un ritorno in pianta stabile e non soltanto frutto di un isolata riunione, perchè si tratta di un disco fortemente eterogeneo e che a tratti pecca di focalizzazione, quasi come se i due avessero raccolto del materiale sparso duranti tutti questi anni e l'avessero assemblato a mo' di raccolta. Sia ben chiaro, la classe è sempre cristallina e fra i 9 pezzi in scaletta troviamo alcune perle di fantasioso artigianato (l'apertura It was like this once..., gli eleganti balletti Hot, warm, cool, cold, e Half past four, la chiusura solenne di Undressing), ma altrove i due indugiano su qualche tema un po' scuro (e quindi inadatto al loro Dna, c'è poco da fare) e su temi minimali che avrebbero potuto sviluppare meglio, anche in tema di arrangiamenti. Ma la mia è una critica costruttiva ed è bello che siano tornati, in fondo.

giovedì 16 settembre 2021

St Johnny ‎– High As A Kite (1993)


Grazie ad una delle tante dritte di Opium Hum (fra i pochi blog rimasti, una garanzia di ecletticità senza eguali), faccio un altro recupero dei primi anni '90, questo quartetto del Connecticut che ai tempi era abbastanza battuto da Rockerilla, se non ricordo male addirittura al punto di guadagnarne una copertina. Le majors erano in piena fase battuta-di-caccia-agli-eredi-dei-Nirvana, e dopo questo primo su Caroline la Geffen si accaparrò le prestazioni dei San Gianni, che ne fecero altri due e poi si sciolsero nel 1995.

All'epoca non li sfiorai neanche di striscio; era possibile che li avessero passati anche su Planet Rock, ma in realtà ero diffidente di natura nei confronti delle band dal nome che non mi ispirava. Avrei dovuto dar loro una chance: facevano un college-core intriso di melodie accattivanti e agrodolci come nella tradizione grunge, ma stilisticamente ne erano distanti, in quanto più affini alle muraglie sonore dei Sonic Youth e dei Dinosaur Jr, grazie anche alle eruzioni chitarristiche incessanti ed alle esecuzioni viscerali, per non dire invasate. My father's father, Matador, Black, Unclean gli esempi migliori.

Il paradosso di High As A Kite è che uno dei suoi punti di forza fu la produzione, complessivamente povera e compressa, non si sa se per scelta o per necessità di qualsiasi natura. Fossero andati subito su major, non gliel'avrebbero permesso mai al mondo, di suonare così sporchi e lo-fi. E l'effetto finale di stordimento melodico che sprigiona ne sarebbe stato compromesso, irrimediabilmente.

martedì 14 settembre 2021

Arab Strap - As Days Get Dark (2021)


La domanda che mi sono posto a lungo, non appena si sparse la notizia che stavano preparando ADGD, è stata: c'era veramente bisogno che tornassero? Andavano benissimo i concerti-nostalgia, è stato perfetto e gradito l'Archive di Bandcamp, ma c'era davvero bisogno di fare un disco nuovo, di rischiare di macchiare una carriera che ha avuto fra i suoi picchi la geniale intuizione di fermarsi quando il declino sembrava presentarsi impietoso alle porte?

Non ero molto fiducioso su ADGD, almeno in astratto. La carriera di Malcolm, dopo un buon inizio, si è incanalata su un cantautorato banale e monotono. Aidan ha dimostrato di avere sempre bisogno di una spalla e di esserne troppo dipendente (è andata discretamente con Wells, non con Hubbert), ed alla fine le cose migliori le ha fatte col suo trovarobato solista. Avrebbero mai potuto ritrovare quella chimica che generò i miracoli di un tempo? L'esperienza maturata avrebbe rappresentato un vantaggio od un limite con cui mestierare?

The turning of our bones, il pezzo di lancio diffuso in anticipo, è controverso. Questo incipit apocalittico, eccetto il salmodiare in rima, con i sequencers ed i synth, fa quasi venire in mente il John Carpenter corrente. C'è dentro un po' di tutto: bonghi, archi, sax, per un assieme che è un po' troppo boombastico. Ma lo scheletro compositivo c'è, e la chitarra resta impressa. Ci si salva un po' in corner.

Il secondo pezzo diffuso è stato Compersion pt. 1, decisamente più sobria, ritmo e schema dispari, il sentore è quasi new-wave, ma il Dna è senza dubbio proprio. Il terzo ha gettato la maschera, con tanto di video horror metropolitano allegato. Hear comes Comus! sembra quasi un residuato dei Chameleons altezza '85-86, e non è una critica negativa, anzi. E' uno dei pezzi migliori del disco. Ma allora, gli AS si sono trasformati in nostalgici degli anni '80 / new wave-pop-rock?

Arrivato finalmente al disco nella sua interezza, respiro e traggo godimento dalle perle strategicamente poste nella prima parte. Another Clockwork Day, un'acusticheria da focherello coi fiocchi che ritrova la naturalità più nuda e la loro sensibilità più riflessiva. Ed ancor di più Bluebird, preziosissimo uptempo intimista che sarebbe potuto uscire da Elephant Shoe o da The Red Thread senza fare una piega. Si sta rivelando ottimo, questo prodotto.

Proseguiamo. Kebabylon rivela un'altra influenza '80 inaspettata, con un chorus epico/indolente e soprattutto le stratificazioni di synth orchestrale: i Cure altezza Kiss Me x 3 e Disintegration. Davvero non male. A questo punto però arrivano le debolezze: la svenevole Tears On Tour, la stentorea Fable of the urban fox, la ruffianissima I was once a weak man, la scontata Just Enough. Quattro pezzi poco incisivi che abbassano impietosamente la media del disco, e non per il mero aspetto compositivo, quanto per le scelte di arrangiamento che non mi sembrano indovinatissime. Troppi archi sintetici dispiegati ad ispessire, troppe trovate ad effetto. Così si perde l'anima reale del loro pathos, che trovò la propria sublimazione nella povertà di arrangiamento, nella nudità delle corde dell'anima.

Per fortuna Sleeper, al penultimo posto della scaletta, restituisce l'umore generale dell'album alla categoria ok, questi sono gli AS che riconosco come miei. Oltre 6 minuti crepuscolari e melodrammatici che, pur senza inventare nulla, rappresentano l'aggiornamento ai giorni nostri di Autumnal.

Su Twitter, il loro account posta molto spesso foto nostalgiche datate 1996-2000, in cui AM & MM sfoggiano capelli fluenti ed espansi, visi sbarbati ed espressioni disincantate. Ora, alla soglia dei 50, si siedono ad una panca, osservano e sono contenti di non doversi più imbarcare nella routine disco-tour-disco-tour. Non hanno mai smesso di essere amici ed è bello che siano tornati, perchè ora più che mai, anche se ADGD dovesse restare l'ultimo in assoluto, il mondo ha qualcosina in più. 

Con i suoi alti e bassi, è un rientro più che dignitoso che aggiorna il catalogo con orgoglio.

domenica 12 settembre 2021

Half Japanese ‎– Loud (1981)


Dopo il ciclopico debutto vinilico dell'anno precedente, ai fratelli Fair venne un'ideuzza niente male: triplicare la line-up con elementi affini, raggiungendo la quota di triplo duo: due chitarre, due batterie, due sax. La ricetta di fondo, sempre quella: follia brada e pedale sul gas. Il risultato, un art-free-jazz-punk spastico e deforme, irresistibile sagra naif, più loud e lo-fi che si potesse. 

Difficile, quasi impossibile separare una di queste 20 schegge impazzite della durata media di 2 minuti: Loud fu fatto per essere ascoltato interamente, senza alcuna sosta, per assimilare al meglio questi cingoli abrasivi ricoperti di schegge di vetro. Jad Fair singhiozza belluino, i due sax starnazzano incontrollati, le chitarre raschiano selvatiche, le batterie rullano e spiattazzano incessanti. 

Ma guai a sostenere l'idea della totale disorganizzazione alla radice. I più attenti lo sanno da 40 anni, ed ancora oggi ci tengono a precisare che gli Half Japanese avevano tutto ben chiaro in testa e lo mettevano in campo con grande lucidità. Che poi il risultato fosse un audio-shock, beh, era esattamente l'obiettivo.

venerdì 10 settembre 2021

U.S. Maple ‎– Purple On Time (2003)

Cosa diavolo c'era di male nel normalizzare un pochetto uno stile non replicabile, nemmeno da loro stessi, soprattutto dopo aver perso il batterista originale? Chiudo qui l'intera discografia degli U.S. Maple, una band geniale e sottostimata, devo ammettere anche da me ai tempi purtroppo. Il problema di Purple On Time, a quanto ha scritto chiunque, fu che rappresentò un disco meno ingarbugliato dei precedenti, meno intricato nelle strutture e con parvenze di melodie quasi accessibili.

E' vero che la tensione presente nei loro capolavori venne meno, ma occorre analizzare più in profondo il significato delle dilatazioni dei ritmi, dello scorrimento profondamente blues e soprattutto del ruolo dell'ultimo entrato, il batterista Adam Vida, di sicuro meno fantasioso del suo predecessore Samson ma non meno bravo tecnicamente. 

Per farla breve, faccio un confronto con il Capitano: Purple On Time stette a Sang Phat Editor come Spotlight Kid stette a Lick My Decals Off, Baby. Un parto certamente meno ispirato, ma non per questo meno ricco di classe, perizia e sana, lucida follia.

mercoledì 8 settembre 2021

Captain Beefheart & The Magic Band ‎– Lick My Decals Off, Baby (1970)


Ha un solo sostanziale problema, cioè quello di venire dopo Trout Mask Replica, e quindi di subirne la pressione persino in prospettiva. Rispetto agli sconquassi di quel kolossal, però, Don VV ebbe modo di confermare quanto di leggendario stava compiendo, realizzando un'altro capolavoro cubista. La Magic Band intanto riscontrava un cambio importante in formazione: usciva il secondo chitarrista Jeff Cotton, entrava il percussionista / marimbista Art Tripp, subito decisivo nell'assestare una spinta ritmica appropriata al materiale, non così veloce e bulboso ma più secco e graffiante. Notevole anche l'uso dei fiati dissonanti del Capitano, ulteriore benzina sul fuoco dell'arte e del fulmine della follia. Distante dalle spigolosità degli ultimi capolavori ma anche dalle prime prodezze, LMDOB rappresenta un puro episodio a sè. Pezzi come Doctor Dark, One Red Rose That I Mean e Flash Gordon's Ape saranno spesso presenti nelle tracklists dei concerti a fine decennio, ed è tutto un dire.

lunedì 6 settembre 2021

Northwest - I (2018)


Coppia di fatto spagnola, emigrata dalla terra natale a Londra qualche anno fa e dedicatasi a questo progetto dal debutto eccellente, di quelli che lasciano il segno. Lei, voce estatica e rapita un po' Liz Fraser ed un po' Kate Gibbons. Lui, architetto musicale equamente abile fra l'elettronica mai dominante e le partiture acustiche di fine cesello. Una sorta di strano incrocio fra le paradisiache visioni degli Insides, le incursioni dei Radiohead più spettrali, gli stranianti tratteggi degli ultimi Talk Talk, l'austerità formale degli Audiac. Un disco dal respiro lentissimo, immerso in una trance onirica permanente ma non scevro da dinamiche (London, esempio calzante di oltre 11 minuti capace di sintetizzare la loro arte), orchestrato con sapienza (notevole l'uso del mellotron come fosse una tastiera qualsiasi), in cui il songwriting riesce a fare a spallate con l'impostazione concettuale. Ammaliante.

sabato 4 settembre 2021

Suede ‎– Dog Man Star (1994)


Il magniloquente e melodrammatico secondo album degli Suede è qualcosa che divide sempre, a distanza di quasi 30 anni. Se Anderson avesse lasciato campo libero ad un irascibile e torrenziale Butler, come ne sarebbe uscito il disco? Si disse, ad esempio, contenente una versione di 25 minuti di The Asphalt World, la cosa più psych & prog che abbiano mai fatto, qui fermatasi a 9'. Sarebbe potuta essere una direzione folle, insensata per quegli anni e per come si erano messe le cose col trionfale debutto. Ma l'interrogativo resta, perchè con Butler che sbattè la porta a metà registrazione, Dog Man Star ne uscì un po' incompiuto, sospeso fra le ambizioni più atmosferiche (Daddy's speeding, The 2 of us), gli irresistibili, proverbiali hits (New Generation, We Are The Pigs), qualche slancio un po' stucchevole e troppo lirico nel finale ed in generale una produzione un po' troppo compressa. Nonostante questo ed un'accoglienza ai tempi piuttosto tiepida, col passare degli anni ha acquisito uno status sempre più alto, fino a diventare una presenza fissa in tutte le principali classifiche di valutazione. Nel giro di poco sarebbero rinati sotto l'egida autarchica di Anderson, ma non c'è alcun dubbio che il sodalizio che si ruppe avrebbe potuto fare grandi cose, in prospettiva.

giovedì 2 settembre 2021

Library Tapes ‎– Europe She Loves (2016)


Era inevitabile che David Wenngren prima o poi venisse chiamato a fare una soundtrack, anzi, considerato il lasso di attività, il momento è stato fin troppo tardo. Merito di un regista svizzero che nel 2016 ha realizzato la pellicola omonima (che mi piacerebbe visionare, ma dubito sia stata riversata in italiano...), che ascoltava la sua musica mentre scriveva la sceneggiatura. Per l'occasione, DW mette da parte l'amato piano acustico e si dedica a organo, bordoni di synth sinfonico e tintinii simili al vibrafono. Durante la lavorazione, l'intuizione brillante di chiamare Julia Kent e coinvolgerla per ispessire ed impreziosire l'assetto (esempio la meraviglia di Silhouettes). Risultato finale, un assieme di servizio che ha visto tornare DW ad uno stato di forma stellare, dopo un periodo un po' silenzioso e poco incisivo, ma che ha vita propria come tutte le colonne sonore che si fanno rispettare.